lunedì 5 dicembre 2016

Il sesso del capitalismo

Scholz

"Senza lotta non si ottiene niente"
- Fabian Henning intervista Roswitha Scholz sulla dissociazione-valore e sul patriarcato -

Fabian Henning: Rimane ancora chiaro, come constatavi più di 20 anni fa, quale sia il sesso del capitalismo?

Roswitha Scholz: Ho scritto il saggio "Il valore è l'uomo" nel 1992, che allora venne pubblicato anche sulla rivista "Krisis". È stato soprattutto un esercizio teorico, che ora considero tutto sommato troppo semplicistico. "Il valore è l'uomo" - questa formulazione sensazionale ora mi fa sentire quasi un po' a disagio, perché suona parecchio come se io avessi personalizzato il dominio astratto. La cosa fondamentale per me, tuttavia, è intendere la dissociazione-valore come contesto di base del patriarcato produttore di merci. Quello che qui avviene, è che il femminile ed il lavoro domestico sono dissociati dal valore, dal valore astratto e dalle forme connesse della razionalità, dal momento che alcune qualità connotate come femminili, quali la sensualità e l'emotività, vengono attribuite alle donne. L'uomo, da parte sua, rappresenta qualità come la comprensione, la forza di carattere ed il coraggio. Nello sviluppo moderno, l'uomo è stato identificato con la cultura, e la donna, con la natura. Valore e dissociazione si trovano qui in una relazione dialettica reciproca. La dissociazione-valore attraversa tutte le sfere della società, vale a dire, l'economia, la politica, la scienza e anche la sfera pubblica e quella privata.
Ad ogni modo, ho sviluppato molto più il teorema della dissociazione-valore. Il saggio del 1992 non è che per me sia scomodo, ma credo che non sia più il caso che mi si citi a partire da quello.

F.H.: Nel 2000, hai pubblicato "Il sesso del capitalismo".

R.S.: Sì, ne "Il sesso del capitalismo" ho elaborato e modificato la mia tesi, così come ho fatto in molti saggi che sono stati pubblicati su "EXIT!". Per esempio, nel 2013 ho scritto un testo sulla "cura".

F.H.: Che ne pensi del dibattito sulla "cura"? Ritieni che sia ingenuo il riferimento positivo al lavoro di "curare"?

R.S.: A mio avviso, le discussioni sulla cura vengono soprattutto caricate di moralismo. Il curare, nel patriarcato capitalista emerge non tanto come un problema oggettivo, quanto come una questione etica. Irene Dölling, per esempio, rivendica una valorizzazione delle attività onorarie e di volontariato. Vede il capitalismo decadente. Per lei la cura è una concezione del futuro, cui si riferisce in maniera positiva. Contrariamente alle concezioni più antiche, volte anche ad un apprezzamento della femminilità a partire da una maggior valorizzazione dei cosiddetti lavori riproduttivi, in Dölling il concetto di cura diventa una relazione positiva con la femminilità. In realtà, una tale concezione della cura va bene anche senza il femminismo, in quanto quello che viene idealizzato non sono le donne, ma semmai le attività non commerciali in generale. Sul meta-piano della riproduzione globale della società, la dissociazione-valore, rimane assente in queste teorie. E questo è un vero peccato, poiché la cura - o il ricorso alle attività riproduttive realizzate soprattutto dalle donne - è in origine una concezione materialista, marxista. Non voglio dire che non si debba lottare, ad esempio, per migliorare la qualità spaventosa degli ospedali e delle case di cura, o per migloramenti salariali. Solo che semplicemente non mi piace per niente il kitsch che si esprime nei concetti di lotta come "rivoluzione della cura". Né l'assurdità secondo cui si potrebbe trasfomare questa società in una società della cura...

F.H.: Questo vale anche per le teorie postmoderne?

R.S.: Gli approcci postmoderni, di Judith Butler e Michel Foucault o dei loro allievi, a partire dagli anni 1990 sono stati soprattutto degli sforzi volti alla decostruzione delle identità. Tali approcci queer-femministi pretendono di decostruire i dualismi donna/uomo e produzione/riproduzione. Cosa che però non può che fallire, dal momento che rimane la relazione di dissociazione-valore. Se ora, improvvisamente, gli approcci queer-femministi si interessano alla critica dell'economia politica, la cosa mi sorprende. La critica dell'economia politica ed il queer femminismo sono in contraddizione, già a partire dalle loro premesse. Anche il rapporto fra femministe decostruttiviste e femministe materialiste non si poteva definire esattamente poco conflittuale. Ancora negli anni 1990, chiunque si riferiva alla grande narrativa di Marx veniva ridicolizzato come si si trattasse di un vecchio rimambito. In quell'epoca c'era ben poche femministe che si riferivano a Marx, come, ad esempio, Frigga Haug. Per quanto riguarda Regina Becker-Schmidt e Gudrun Knapp Axeli, mi sono domandata cosa avesse a che fare la loro ricerca con Marx e con la teoria critica. Ritengo che allora fosse anche difficile, per la critica sociale radicale, essere presi sul serio nel mondo accademico. Questo ha a che fare anche con l'istituzione di studi sulle donne e con una mutazione verso gli studi di genere. Politicamente socializzato nella seconda metà degli anni settanta, il femminismo era allora un movimento extra-istituzionale, anti-establishment e contro l'elaborazione teorica androcentrica. A partire dalla metà degli anni ottanta, il femminismo è stato sempre più istituzionalizzato. Per istituzionalizzarsi nelle università, aveva bisogno di legittimarsi sulla base di teorie consolidate, motivo per cui il riconoscimento della dissociazione del femminile è stato represso strutturalmente.

F.H.: Perciò la critica della dissociazione-valore è impossibile nell'università?

R.S.: Nel decennio 1980, non era poi così poco comune parlare della dissociazione del femminile. Con la crescente istituzionalizzazione e con il cambiamento di paradigma da studi sulle donne a studi di genere, di tali approcci si è persa traccia. Sono stati sostituiti da decostruttivismo, interazionismo simbolico e approcci etno-metodologici. In seguito, la teoria femminista è stata sempre più reificata ed ha insistito sempre più visibilmente sulle identità. A causa di questa focalizzazione sulle identità, le strutture di base della società non sono state più affrontate. Anche il movimento delle donne ha finito per concentrarsi sempre più su tutto ciò che è locale e particolare. Nella postmodernità, ha prevalso un sentimento di rifiuto del generale, nel decennio dei novanta le grandi teorie erano malviste.

F.H.: E tutto questo è cambiato?

R.S.: C'è stata un'oscillazione. Diventata visibile nel corso della metà del primo decennio del 21° secolo, con il "Donne, pensate economicamente!" di Nancy Fraser. Fraser criticava il fatto che il movimento delle donne si fosse collocato in maniera troppo integrata rispetto all'ordine esistente. La decostruzione aveva finito per diventare favorevole al neoliberismo.

F.H.: Quindi, tutto può essere ricondotto all'economia?

R.S.: Per me non si tratta di spiegare, o di derivare tutto a partire dalla forma del valore. Bisogna considerare il piano culturale-simbolico, non dobbiamo usare solamente il linguaggio ed il discorso come sostituto della totalità. Anche il piano socio-psicologico è importante. Dobbiamo vedere la dissociazione-valore in quanto contesto di base. Ho sempre detto questo. Spesso mi sono sentita fraintesa - anche da parte dei fan della critica del valore. Costoro recepiscono i miei scritti di critica dell'economia, e, ovviamente, anche quelli di Robert Kurz, ma ignorano i passaggi che portano alla critica della dissociazione-valore. C'è da perdere le pazienza. Assai spesso vengo definita a partire da Robert Kurz. "Krisis" è sempre stata una banda di uomini. Ho dovuto lavorare con insistenza sull'androcentrismo di Robert Kurz, prima di arrivare a che egli si unisse alla mia teoria della dissociazione-valore. È stata un dura lotta per introdurre il femminismo nel gruppo degli uomini. In quanto donna, non mi sentivo presa sul serio, ma senza lotta non si ottiene niente. Ho lottato su due fronti - contro il decostruzionismo e contro gli uomini di "Krisis".

F.H.: Questa lotta ha portato alla scissione del gruppo Krisis e ad EXIT! ?

R.S.: Dal momento che ero una delle poche donne, mi è stata attribuita la colpa della scissione di Exit! e del gruppo Krisis - il che è assurdo. La questione era quella di sapere se la dissociazione fosse un aspetto della totalità, oppure se la dissociazione-valore è il contesto di base del patriarcato produttore di merci. La dissociazione-valore è stato uno dei motivi della separazione, ma non l'unico.

F.H.: Cosa ne pensi della crisi e del rafforzamento dei movimenti di destra?

R.H.: Sto scrivendo un saggio a proposito di queer, genere e svolta a destra. La mia tesi è che il queer ed il genere si incastrano bene nel neoliberismo e nell'ideologia della flessibilità. Inoltre, queer assai spesso non è altro che uno slogan da party e, pertanto, si integra nel migliore dei modi nella società del divertimento degli anni novanta. Ora, il divertimento è finito, e l'atmosfera è cambiata: lo sviluppo della crisi accelera, il risentimento è tornato e si volge contro i cosiddetti gruppi marginali. Prima è stato tentato di decostruire il razzismo, l'antiziganismo e l'antisemitismo - ma ora, a fronte della crisi, queste teorie superficiali, con il loro disprezzo per Marx e per la psicoanalisi, fanno una ben magra figura. La crisi, di fatto, non sarebbe stata evitata, anche con la conoscenza delle strutture sociali profonde, ma, quanto meno, avremmo avuto una valutazione realistica del presente. È già da tempo che vediamo la crisi fondamentale anche nel Sud dell'Europa, Grecia, Spagna, ecc., nella crisi finanziaria e nella caccia agli speculatori, nella relazione di crisi fra globalizzazione e Stato-nazione. Per non parlare del collasso della periferia. È qui che emerge l'identità di genere come ultimo bastione, quando non c'è più nient'altro di sicuro. Contro tutto questo, la decostruzione aiuta ben poco. Ovviamente, sono d'accordo che in una società emancipata la sessualità polimorfa dovrebbe essere vissuta, ma senza desublimazione repressiva. Nel capitalismo, la sessualità liberata non è realmente libera. Vale a dire, non basta riferirsi ad un'identità, o a un'identità differente, su un piano identitario.

- Pubblicato originariamente sulla rivista Jungle World nº 44, del 3 novembre 2016 -

fonte: EXIT!

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