C'è una forza prodigiosa che custodiamo in noi e ci consente di apprezzare l'arte, di meravigliarci dinanzi alla bellezza del mondo, di stabilire connessioni profonde con gli altri. È il sentimento che più di tutti ci rende umani: la malinconia. Per fronteggiare gli ineludibili momenti di trasformazione che segnano le nostre vite, un libro pieno di illuminazioni, spunti preziosi, piccole saggezze. La luce e la vita, la felicità e l'appagamento esistono perché nel mondo che conosciamo convivono e sono legate all'oscurità, alla morte, alla tristezza. Avere un animo malinconico, perciò, significa essere acutamente consapevoli dello scorrere del tempo, della propria vulnerabilità, provare un costante anelito verso un mondo diverso. Caratteristiche spesso considerate fragilità. Ma i malinconici possiedono anche una sensibilità aumentata, uno straordinario talento nel trasformare la tristezza, il dolore e la perdita in una forza salvifica, in grado di provare un senso di gratitudine e gioia di fronte al divino, l'arte e la bellezza, in qualunque forma essa si manifesti. Per secoli si è studiata la malinconia e le sue virtù misteriose. Ora, attingendo a neuroscienze, psicologia, spiritualità e religione, Susan Cain ce ne offre una visione completa e contemporanea.
(dal risvolto di copertina di: SUSAN CAIN. "Il dono della malinconia. Indagine su un sentimento" EINAUDI STILE LIBERO, Traduzione di Manuela Francescon Pagine 328, €18,50)
Io rivendico il diritto alla mia malinconia
- di Carmen Pellegrino -
«Il nostro grande segreto, venuto alla luce solo di recente: noi (americani) siamo meno felici di altri popoli, e di sicuro meno felici di come vogliamo sembrare».
Senza vaghezze metaforiche, Susan Cain ci conduce al cuore della questione lungamente trattata nel saggio Il dono della malinconia, pubblicato a un decennio di distanza dal fortunato Quiet. Il potere degli introversi in un mondo che non sa smettere di parlare. Si parla di malinconia, in queste nuove pagine: l’umor nero a cui in passato si attribuivano fatali conseguenze per la vita stessa; addirittura, malattia psichica se vista come alterazione patologica dell’umore, nel senso di un’immotivata tristezza. Ma chi stabilisce quando e in che misura la tristezza è immotivata? Proseguendo nella riflessione sull’America, che ha nascosto la parte amara della sua storia dietro l’immagine della terra dell’abbondanza, con le strade lastricate d’oro e l’offerta di un inesauribile voucher per l’invenzione o la reinvenzione individuale, Cain amplia la visione:
«Già prima della pandemia da Covid-19 e prima che le divisioni politiche guadagnassero il centro della scena, circa il 30% degli americani soffriva o aveva sofferto nel corso della vita di ansia, circa il 20% di depressione maggiore, e più di 15 milioni di persone avevano assunto antidepressivi negli ultimi 5 anni. Eppure i nostri rituali culturali celebrano solo la nascita e non ne abbiamo neanche uno che ci aiuti a convivere con la precarietà della vita e con il dolore. Noi non onoriamo i morti come fanno i messicani nel Dìa de los Muertos. Non capovolgiamo il bicchiere la sera come fanno i monaci tibetani per ricordarsi che il mattino dopo potrebbero non esserci più […] Perfino le nostre cartoline di condoglianze tendono a negare il diritto alla tristezza… sono colorate e piene di asserzioni positive come “L’amore non muore mai” e “I ricordi saranno di conforto”. Cristo muore sulla croce, ma noi ci concentriamo sulla resurrezione».
C’è una parte della storia — la cancellazione delle vite e della cultura dei nativi, il sangue e il dolore degli schiavi, i morti della guerra civile, l’origine della Dichiarazione d’indipendenza, redatta da uomini accusati di tradimento — che è stata nascosta dietro mucchi di sorrisi e ottimismo, una tirannia della positività, scrive l’autrice, che si regge sulla sottovalutazione delle proprie radici storiche. Ma nulla di ciò che è accaduto può essere cancellato, se è vero che la memoria cellulare dei traumi si codificherà e incorporerà in quelli che verranno dopo: «Ciò che una generazione reprime nel silenzio — sono le parole di Françoise Dolto — la generazione successiva lo porterà nel corpo». Il saggio di Cain — la sua coraggiosa indagine su un sentimento che Sigmund Freud, nel 1918, liquidò come una forma di narcisismo, confinandolo nella psicopatologia e determinando l’identificazione con la depressione — si apre con un richiamo ad Aristotele, che si chiedeva come mai tutti i grandi poeti, i filosofi, gli artisti e i politici avessero un’inclinazione alla malinconia. Era convinzione diffusa che il corpo umano contenesse quattro umori o fluidi, corrispondenti a quattro temperamenti: malinconico, sanguigno, collerico e flemmatico; i rapporti tra questi umori nell’organismo umano determinavano il carattere di una persona.
È la forza tranquilla che trabocca di potenzialità, tendenza dolceamara al desiderio, allo struggimento, al vedere «le lacrime delle cose» come Virgilio nell’Eneide, ma soprattutto capacità di sentire come propria la sofferenza degli altri e, premessa necessaria, avere compassione di sé stessi per poterne avere degli altri, fino a sentirsi in profonda comunione con le anime che conoscono il dolore: a questa visione della malinconia Susan Cain guarda per scrivere il libro che l’ha tenuta impegnata una vita, dal giorno in cui al pensionato studentesco gli amici le chiesero perché ascoltasse musica triste, senza ancora sospettare che la musica è la chiave d’accesso a un regno più profondo, di sacralità e mistero. Musica triste come quella di Leonard Cohen, a cui sono dedicate alcune delle pagine più belle, oltre che il libro stesso, e di cui viene ripetutamente ricordato il suggerimento: «Se hai un dolore di cui non riesci a liberarti, fanne un’offerta creativa».
La scrittura scorre leggera, anche nelle parti più articolate, con l’alternarsi riuscito di riferimenti ad acquisizioni scientifiche e citazioni letterarie, di richiami alle religioni (bellissime le pagine sul ramo mistico del sufismo e dell’ebraismo), all’arte e alla musica nella tonalità di do minore. Charles Baudelaire scrisse di «non poter nemmeno immaginare» la bellezza che non comprendesse la malinconia. E qui, tra queste sontuose pagine, la dolce-amarezza non è più qualcosa che si avvicina allo stigma, lo stato d’animo per il quale sentirsi socialmente in colpa, ma la fonte nascosta di imprese memorabili, di capolavori, delle grandi storie d’amore. La malinconia diviene desiderio. Soprattutto, desiderio di Dio. Noi sappiamo che la nostra vita trabocca di sottaciuta sofferenza ma raramente e a fatica ci sentiamo liberi di esprimerla, specie nei luoghi di lavoro, da cui è bandito ogni stato d’animo che richiami lo spettro depressivo. La società della «felicità a ogni costo» — tema caro a chi scrive — condanna quelli che non sono felici, e a questi non resta che camminare di lato; poi li maledice per il modo di camminare raso ai muri e per l’aria che inquinano con la loro tristezza; infine li combatte finché non si chiudono in casa, in un recinto che li tenga separati. Ma è la tristezza, non la felicità, l’emozione che ci connette con gli altri e con il tutto in maniera più profonda, sottolinea Cain. E cita Inside Out, il film di animazione della Pixar che vinse l’Oscar e fece registrare incassi da record: nel film, il personaggio che incarna la tristezza, Tristezza appunto, ha un ruolo da protagonista.
Le cose, a ben guardare, vanno in un’altra direzione. Felicità è la parola più inseguita, una delle più manipolate, sempre più magnificamente ambigua. Ma di quale felicità parliamo? Cain nota che gli americani assegnano un tale valore alla felicità che il diritto alla sua ricerca è sancito dalla Costituzione. «Diritti alla meta — scrive Cain — nella vita personale, convinti e categorici sui social. Bisogna essere tosti, ottimisti, assertivi; bisogna essere così sicuri di sé da dire la propria in qualunque circostanza, così abili nei rapporti personali da sapersi fare molti amici e influenzare il prossimo». Conseguenza immediata è che chi nutre emozioni come tristezza o lutto prima si autocensura, poi si condanna e si maledice per ciò che prova: è quanto emerso da un recente studio condotto a Harvard. Proviamo tristezza, com’è normale che sia in una società che erige altari al contatto e alla comunicazione, e intanto muore di frammentazione e indifferenza ma siamo indotti a vergognarcene, dato che l’imperativo è restare leggeri, vivaci, eventualmente fingere, senza forzare mai il proprio contesto di infelicità, per non rischiare di ritrovarsi isolati. Questo vuol dire sopportare più di quanto dovremmo, più di quanto possiamo.
- Carmen Pellegrino - Pubblicato su La Lettura del 19 febbraio 2023 -
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