Torniamo alla definizione delle classi
- di Christophe Darmangeat -
In un articolo che ho scritto su questo blog due anni fa (di già!), ho sottolineato quali sono le difficoltà che si incontrano nel definire le classi sociali, ovvero se lo si fa nei termini della classificazione proposta da A. Testart, seguendo la delimitazione tra il II e il III mondo. Non ho fatto molti passi avanti per trovare una soluzione, ma le discussioni che ho avuto nell'ultima settimana con alcuni colleghi (e ce ne saranno altre!) mi hanno convinto a riesumare questo osso duro da rosicchiare. Tanto più che le discussioni svoltesi nel frattempo sul tema dell'altra transizione - quella che dal Primo Mondo porta al Secondo - mi hanno suggerito una riformulazione del problema, e le poche righe che seguono non riprendono affatto lo stato della questione: per cui invito i lettori interessati a fare riferimento ai testi in questione.
La mia intuizione mi suggerisce uno stretto parallelismo tra le due situazioni. In entrambi i casi, la soluzione proposta da Testart privilegia un elemento giuridico: in un caso, l'esistenza di un prezzo della sposa e del wergild; e nell'altro, quella della proprietà fondiaria. Ma in entrambi i casi, la soluzione si trova viziata dalla propria ristrettezza: nel senso che esistono delle società ricche, le quali tuttavia ignorano i pagamenti matrimoniali e giudiziari. Allo stesso modo, alcuni rapporti di classe (a partire dalla Schiavitù) rimangono indipendenti dalla proprietà fondiaria. Quella di comprendere il fenomeno in questione in termini di conseguenze o di manifestazioni (per così dire, a tappeto) è una falsa idea. La ricchezza non viene a essere definita a partire dalle disuguaglianze di ricchezza, e questo per due motivi: in primo luogo, perché dire che ci sono disuguaglianze di qualche sorta, nulla ci dice circa la natura di quel qualcosa. In secondo luogo, perché la ricchezza può esistere benissimo senza però generare delle disuguaglianze di ricchezza; ovvero, generando disuguaglianze talmente limitate da rimanere impercettibili.
Credo che la stessa cosa possa valere anche per lo sfruttamento: dobbiamo essere in grado di caratterizzarlo per quello che è, e non per i suoi presunti corrispettivi correlati (l'esistenza di persone che, de facto o de jure, sono dei dipendenti, o, come ho suggerito, l'esistenza di proprietari svincolati dal lavoro produttivo). Per la ricchezza, così come per lo sfruttamento, la difficoltà risiede nel fatto che il fenomeno che dovrebbe costituire il criterio di delimitazione, esiste in un modo o nell'altro in tutte le società. La ricchezza è presente nel Primo Mondo, sotto forma di beni che possono essere scambiati con altri beni. Lo sfruttamento è presente in tutto il Secondo Mondo (schiavi, servitori, donne, dipendenti di ogni tipo, ecc.), ed esistono anche all'interno del Primo Mondo stesso - e in ogni caso, da un punto di vista teorico, non c'è nulla che lo impedisca. È quindi necessario scomporre il fenomeno, per poter individuare la forma specifica in cui la cosa possa validamente fungere da criterio. Nel caso della ricchezza, ad esempio, ho proposto una distinzione tra ricchezza "elementare" e ricchezza "estesa", ed è solo la presenza di quest'ultima che caratterizza i Mondi II e III. Se mi trovo sulla giusta strada, allora dovremmo essere in grado di scomporre il fenomeno dello sfruttamento, in modo da evidenziare così quali dei suoi elementi costitutivi sono caratteristici di una società di classe (vale a dire, del III Mondo). Questa è un'ottima domanda... per la quale non ho un'idea di risposta.
- Christophe Darmangeat - Pubblicato il 16/11/2022 su La Hutte des Classes -
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