Gli animali pensano mai alla morte? In che modo lo fanno? Nonostante non sia facile accostarsi a questo tema, è solo rivolgendoci al suo aspetto più ‘naturale’ che possiamo trovare una via d’ingresso alla sua comprensione: la morte, sebbene dolorosa, è parte integrante della vita. Scrive l’autrice Susana Monsó: «Noi umani facciamo fatica ad accettare quanto sia comune e insignificante la morte nel mondo naturale. Sappiamo che la morte avviene, ma di solito non la vediamo». Questo nostro essere al di qua rispetto alla morte ha fatto sorgere un ostacolo non indifferente alla comprensione della cognizione animale: diversi tanatologie filosofi ritengono, infatti, che la morte sia un «concetto astratto». Ma per gli animali in natura la morte non è astratta. È, al contrario, «molto concreta e tangibile» ci avverte l’autrice che, con delicatezza e rispetto delle discipline scientifiche con cui si confronta, cerca di isolare quelle sacche di antropocentrismo che impediscono una più profonda conoscenza della mente animale. Questo libro è un valido e interessante antidoto contro le eccessive riserve di chi ritiene che l’essere umano sia l’unico animale dotato di una vita mentale ed emotiva. Parallelamente, ci mette in guardia sulle precipitose attribuzioni di sentimenti agli animali, le cui esperienze sono costitutivamente diverse dalle nostre. La pluralità di modi in cui la morte viene vissuta in natura ci precipita direttamente nel cuore della materia più misteriosa di tutte: là dove sembra essersi creato uno squarcio, un vuoto irreparabile, ecco che si palesa, palpitante, la vita.
(dal risvolto di copertina di: "L’opossum di Schrödinger. Come vivono e percepiscono la morte gli animali", di Susana Monsó. Ponte alle Grazie, pagg. 272, € 18)
Ma quanto è buono (da morto) il padrone!
- Se siete da soli in casa con il vostro cane e volete suicidarvi, non fatelo: potrebbe sbranarvi, partendo dalla faccia. Perché è necrofago ma forse anche perché capisce la morte e vi spinge a reagire -
di Giorgio Vallortigara
Tutti i proprietari di un cane sono convinti che la loro bestiola gli voglia un gran bene. Saranno perciò sorpresi di scoprire leggendo L’opossum di Schrödinger,della filosofa ed etologa Susana Monsó, che la gran parte delle persone che muoiono a casa con la sola compagnia del loro cane finiscono trasformati in merende dall’animale. L’autrice descrive il caso raccapricciante, ma tutt’altro che raro, di un signore tedesco che si suicida con un colpo di pistola in testa: quando viene ritrovato dai parenti appare evidente che gli manca una buona parte della faccia la quale risulta essere stata consumata dal suo pastore tedesco che se ne sta tranquillo a leccarsi accanto al cadavere. Come i lupi da cui derivano, oltre che cacciatori i cani sono animali necrofagi. In natura il consumo dei resti prende avvio di solito dalla zona addominale, dove si trovano gli organi più ricchi di nutrienti, ma nel caso dei cani che si cibano dei loro padroni defunti nei tre quarti dei casi le ferite e le morsicature riguardano la regione del volto. Unitamente al fatto che quasi tutti questi animali erano ben nutriti e spesso accanto al cadavere del padrone mangiucchiato è stata rinvenuta la ciotola ancora piena di crocchette, l’interesse per il volto induce a credere che la motivazione iniziale dei cani non fosse quella di mangiarsi il padrone, bensì quella di vederlo in qualche maniera reagire. Un po’ come quando vi stendete a terra e rimanendo immobili fate finta di essere morti: i cani iniziano a colpirvi la faccia con il muso, a leccarvi e a mordicchiarvi. Se questi tentativi non raggiungono l’obiettivo perché siete morti per davvero e dai morsi inizia a fuoriuscire un po’ di sangue, be’, a quel punto la tentazione di far merenda diventa probabilmente irresistibile.
Sì, ma perché la faccia e non l’addome o le membra? Questo ha molto a che fare con la domanda generale che viene posta nel libro, ovvero se gli animali non umani capiscano qualcosa della morte. Prima che concettuale la morte può essere una realizzazione di natura percettiva. Questo è ovvio nella reazione stereotipica alla morte che viene sollecitata in alcuni animali dalla puzza dei corpi in decomposizione (ad esempio, nelle formiche che reagiscono all’acido oleico rilasciato dal cadavere di una compagna rimuovendo il corpo dal formicaio, un comportamento noto come necroforesi). Ma sono gli indizi di natura visiva che sono interessanti per specie più vicine alla nostra, nelle quali la risposta non è più stereotipata ma piuttosto il risultato della sorpresa per la violazione di ciò che pare essere atteso. Nei ratti, ad esempio, non basta che un compagno puzzi di cadaverina e putrescina per essere trattato da morto, deve anche essere immobile (un ratto che si imbatte nel cadavere di un altro ratto tende a seppellirlo). Per capire che cosa gli altri animali capiscano della morte dobbiamo perciò chiederci in primo luogo come riconoscano che qualcosa è vivo. In anni recenti la ricerca etologica e neurobiologica ha identificato con precisione quelli che a volte sono chiamati «rivelatori di animatezza» (animacy detectors). La lista è lunga e comprende, ad esempio, il fatto di muoversi da soli (la semovenza è un attributo degli oggetti animati ma non di quelli inerti), con rapide accelerazioni (una velocità uniforme non è tipica in una creatura biologica), nella direzione della maggiore elongazione del corpo e in un verso rostro-caudale (per questo il movimento laterale di un granchio ci appare così strano). Tra questi rivelatori di animatezza lo schema caratteristico che definisce un volto - tre macchie ad alto contrasto disposte come in un triangolo a punta in giù, con un paio d’occhi in alto e una bocca in basso - è così cogente da essere immediatamente riconosciuto anche da organismi appena nati, siano questi un pulcino di pollo domestico o un neonato umano, attivando certe regioni specifiche del sistema nervoso. La perspicuità dello schema del volto è alla base naturalmente dei fenomeni di pareidolia, come quando le persone (ma anche altri animali) percepiscono dei volti nelle macchie sui muri o nelle forme delle nuvole. Nei cadaveri si osserva sia il mantenimento di alcuni segnali di animatezza, ad esempio il possesso di un volto, sia il venir meno di altri segnali, ad esempio il fatto che il corpo non si muove più. Non sorprende che in tali circostanze animali diversi come gli scimpanzé, i dingo o gli elefanti siano incuriositi e manifestino una varietà di comportamenti di esplorazione o di disagio. Il libro di Susana Monsó fornisce molti esempi al riguardo: dal colpire il cadavere all’accudirlo, dal trasportarlo con sé al tentativo di copularci.
L’autrice giustamente sottolinea l’aspetto cognitivo oltre a quello emotivo su cui si concentra il maggiore interesse del pubblico. Ci sono molte evidenze di tipo aneddotico che altri animali possano manifestare comportamenti che assomigliano al nostro lutto. Tuttavia, è una concezione vanagloriosa quella di credere che le emozioni umane debbano fungere da pietra di paragone per quelle degli altri animali. Un animale potrebbe capire che cosa sia la morte di un conspecifico anche senza mostrare segni di cordoglio (in effetti ciò vale anche per noi). Più in generale il cordoglio può manifestarsi in assenza della comprensione della morte o viceversa ci può essere comprensione della morte senza cordoglio. Animali allevati in coppia reagiscono con comportamenti attivi di ricerca, di ansia e di depressione alla sparizione del compagno, anche se non hanno evidenza del fatto che sia morto. Di contro, possiamo comprendere perfettamente che la zanzara che abbiamo appena incenerito con il retino elettrificato è deceduta, senza provare alcun cordoglio per la sua fine intempestiva. In natura la morte è dappertutto. Perciò una varietà di animali ha l’opportunità di fare esperienza percettiva del conflitto tra indizi di animatezza presenti e assenti nel corpo degli animali che sono deceduti. Possedere un concetto minimo della morte richiede però non solo di cogliere la non-funzionalità del corpo quando è cadavere, ma anche di intenderne l’irreversibilità. Chi ha avuto dei figli ricorda le circostanze spesso assai dolorose del loro primo incontro con la morte - il gattino di casa deceduto, il cadavere del passerotto veduto sul selciato - e la difficoltà dei piccoli a comprendere che si tratta di uno stato definitivo e non solo temporaneo. Probabilmente anche se non siamo unici nel possesso di un concetto della morte siamo l’unica specie con una rappresentazione precisa dell’inevitabilità e della imprevedibilità della nostra morte. L’autrice alla fine del libro si domanda se questo stabilisca uno iato, un Rubicone tra il nostro concetto della morte e quello degli altri animali; risponde osservando che questa conclusione le pare poco plausibile: «proprio perché la maggior parte di noi transita per la vita prestando poca attenzione al fatto che probabilmente morirà, che un giorno qualsiasi potrà essere il giorno della propria morte. Quest’idea ci risulta talmente spaventosa che la stipiamo nel retro del nostro cervello e preferiamo far finta che la morte sia una cosa che capita agli altri, non a noi».
- Giorgio Vallortigara - Pubblicato su La Domenica del 19 febbraio 2023 -
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