- Ricordo di Hans Magnus Enzensberger -
di Alfonso Berardinelli
Con la scomparsa di Hans Magnus Enzensberger il Novecento moderno e postmoderno davvero finisce. Finisce il secolo di Kafka e Brecht, di Eliot e Hemingway, di Orwell e di Adorno. Ma finisce anche il secolo di chi aveva sentito di venire dopo di loro. E si trattò di almeno due generazioni. Già Auden e Beckett sapevano di presupporre Eliot e Joyce, come Camus e Borges sapevano di avere alle spalle Kafka.
Ma è con l’ultima ondata di postmoderni, cioè con Pasolini e Calvino, García Márquez, Kundera, Roth e infine Enzensberger che la coscienza critica e storica del passato novecentesco si esaurisce. Nel cinema, a rappresentare questa coscienza, c’è stato Kubrick, che rifà tutti i generi; in pittura Francis Bacon; nel teatro Harold Pinter.
È in questo senso che la vicenda del Novecento si chiude con la scomparsa di Enzensberger, il più giovane e longevo dei postmoderni. Dalla poesia alla biografia e al giornalismo saggistico, lo sperimentalismo virtuosistico di Enzensberger ha coinvolto tutti i generi. Mentre i neoavanguardisti distruggevano i generi, lui li riusava. Per lui il progressismo linearmente innovativo dei moderni apparteneva al passato: era meglio scavalcarlo all’indietro riprendendo modelli settecenteschi o perfino classici più remoti. Come Calvino riprese la fiaba e il conte philosophique, Pasolini il poemetto romantico, così Enzensberger tornò a Diderot enciclopedista scettico e come poeta aveva cercato di imparare da tutti: da Catullo, Villon, Brentano, Apollinaire, Neruda e Williams, Benn e Brecht.
Quando esordì come poeta, alla fine degli anni Cinquanta, pubblicò un’antologia intitolata Museo della poesia moderna. Invece che tornare alle avanguardie storiche condannandosi a una stanca replica, come il nostro Gruppo 63, Enzensberger demolì come illusoria l’idea stessa di avanguardia, che pretende di monopolizzare il futuro. Invece che scrivere poesia per non farsi capire, cercò di scrivere «poesia per chi non legge poesie». Prendeva tutto ciò che gli serviva e il culmine della sua attività di poeta sono stati due poemi saggistici, neoilluministi, di critica del Progresso, come Mausoleum (1976) e La fine del Titanic (1978), mostrando quanto di follia e di catastrofe c’è nell’idea del sempre meglio inteso come sempre di più. Grande saggista, forse il più mobile, tempestivo, appassionante nella cultura di fine Novecento, Enzensberger lo è anche quando si serve di altri generi. In lui c’è una continua solidarietà fra poesia e critica, versi e prosa, conoscenza e estro ritmico, metodo e stile. I volumi di saggi che nel corso della vita non ha mai smesso di pubblicare fra un libro di poesia e un altro sono la zona più in luce e più frequentata della sua opera: da Questioni di dettaglio (1962) a Politica e crimine (1964) e Mediocrità e follia (1988), fino ai due pamphlet dei primi anni Novanta La grande migrazione, La guerra civile prossima ventura e il riassuntivo Panopticon (2012).
Per mezzo secolo Enzensberger è stato «il principe dell’intelligencija europea», come lo definì Mario Vargas Llosa. La sua maggiore fortuna, più che in area anglosassone e in Francia, l’ha avuta in Italia, Spagna, America Latina e nell’Europa orientale. È stato l’ultimo esempio della Kulturkritik tedesca che ha caratterizzato il Novecento con Kraus, Tucholsky, Benjamin, Anders. Ma con la sua prosa aforistica, la sua verve satirica, la sua immaginazione sociologica e la sua instancabile curiosità esplorativa, è stato anche il più istintivamente cosmopolitico scrittore europeo dagli anni Sessanta a oggi. Gli piaceva evadere da ogni spazio ristretto, culturale o geografico, ma anche, ogni tanto, nascondersi e sparire. Avevo cominciato a leggerlo fin dall’inizio degli anni sessanta, quando ero studente. Era lo scrittore di cui avevo bisogno: critico sociale e poeta nella tradizione che da Valéry, Eliot, Auden, Octavio Paz arriva, in Italia, a Fortini e Pasolini. La mia amicizia con lui iniziò nel 1983. Avevo tradotto un suo saggio molto polemico e divertente uscito sulla rivista di Wagenbach Tintenfisch, che usai per aprire una controversia a proposito di critica strutturalistica e metodi per insegnare poesia. Da allora ci siamo incontrati ogni volta che si trattava di presentarlo al pubblico italiano. Tra tutti gli scrittori che ho conosciuto, Enzensberger era il meno egocentrico e nevrotico, il più accogliente e incoraggiante. Forse per questo ho l’impressione che ora, senza di lui, la cultura europea manchi di spirito.
- Alfonso Berardinelli - Pubblicato su La Domenica del 4/12/2022 -
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