sabato 14 maggio 2022

Artisticamente…

Sic Transit Gloria Artis
- La «fine dell'arte» secondo Theodor W. Adorno e Guy Debord -
di Anselm Jappe

Al giorno d'oggi, è difficile sottrarsi all'idea secondo cui la «fine dell'arte» - prima proclamata ai quattro venti e poi, con non meno ardore, negata durante gli anni '60 - alla fine ci sia stata davvero, sebbene con qualche piccolo sotterfugio: «Not with a bang, but with a whimper» (T.S. Eliot). Per più di cento anni, l'evoluzione dell'arte è stata identificata in una successione ininterrotta di innovazioni formali e «avanguardie» che ampliavano sempre più le frontiere della creazione. Tuttavia, dopo un ultimo periodo di splendore - almeno apparente - che corrisponde all'inizio degli anni '70, non si impone più nessuna nuova tendenza d'avanguardia, e si osserva solo la ripetizione di quelli che sono elementi frammentari, isolati e distorti dell'arte del passato. Il sospetto che l'arte moderna sia arrivata alla fine, comincia a diffondersi anche tra coloro che, per molto tempo, l'avevano fermamente respinto. Il minimo che si può dire è che, per decenni, non si è più visto nulla che poteva essere paragonato alle rivoluzioni formali del periodo che va dal 1910 al 1930. In ogni caso, se oggi vengono prodotte o meno opere di valore è di certo una questione discutibile; ma difficilmente si troverà qualcuno che vede ancora nell'arte degli ultimi anni la «manifestazione sensibile dell'idea» o, quantomeno, un'espressione altrettanto consapevole e concentrata del suo tempo di quanto lo erano la letteratura, le arti visive e la musica dei primi decenni del secolo.
Tuttavia, per contro, la crisi delle avanguardie non ha nemmeno causato quella «regressione» che auspicavano i suoi detrattori. Si direbbe, quindi, che l'arte nel suo insieme sia in crisi, tanto per l'innovazione della forma, quanto per la sua capacità di esprimere evoluzione sociale in maniera consapevole. Diventa sempre più evidente che non si tratta di un ristagno temporaneo, o di una semplice crisi d'ispirazione, ma che, come minimo, ci troviamo di fronte alla fine di un certo tipo di relazione - durata più di un secolo - tra arte e società. Certo, si continua a scrivere e pubblicare testi, a dipingere ed esporre quadri e a sperimentare forme presunte nuove, come il video o la performance; ma questo non ci autorizza a considerare l'esistenza dell'arte indiscutibile come quella dell'ossigeno, come sembra credere l'estetica contemporanea. L'attuale proseguimento della produzione artistica non è forse un anacronismo che è stato superato dall'evoluzione effettiva delle condizioni sociali? Nel periodo compreso fra il 1850 e il 1930, l'avanguardia e l'arte formalista - più che elaborazione di nuove forme - è consistita in un processo di distruzione delle forme tradizionali: realizzando una funzione eminentemente critica. Tenteremo di dimostrare che questa funzione critica rimaneva legata alla fase storica in cui si andava imponendo l'organizzazione sociale basata sul valore di scambio. Il completo trionfo del valore di scambio e la sua crisi attuale hanno finito per rendere inefficaci i successori delle avanguardie: Quale che siano le loro intenzioni soggettive, non viene loro più concessa alcuna funzione critica.
Ci concentreremo su un esame comparativo dei contributi di Theodor W. Adorno e di Guy Debord, autore de "La società dello spettacolo" (1967) e principale teorico dei situazionisti [*1]; vale a dire, due dei più importanti esponenti di una critica sociale incentrata sull'analisi dell'alienazione, termine questo con cui si intende non una vaga insoddisfazione per la «vita moderna», quanto piuttosto l'antagonismo tra l'essere umano e le forze da lui stesso create, e che gli si oppongono come se fossero degli esseri indipendenti. Si tratta della trasformazione dell'economia, da mezzo a fine, basata sull'opposizione tra valore di scambio e valore d'uso, da cui deriva la subordinazione della qualità alla quantità, dei fini ai mezzi, degli esseri umani alle cose, e da cui deriva infine un processo storico che obbedisce solo alle leggi dell'economia e sfugge ad ogni controllo cosciente [*2]. Sia Adorno che Debord applicano all'analisi dell'arte moderna il concetto di contraddizione tra l'uso possibile delle forze produttive e la logica di auto-valorizzazione del capitale. Entrambi vedono nell'arte moderna - e specificamente nei suoi aspetti formali - un'opposizione all'alienazione e alla logica dello scambio. Nondimeno, negli anni '60, Adorno e Debord rappresentavano due posizioni diametralmente opposte in relazione alla «fine dell'arte». Il primo difendeva l'arte contro coloro che intendevano «superarla», a favore di un intervento diretto nella realtà e contro i sostenitori di un'arte «impegnata», mentre invece il secondo annunciava, nello stesso periodo, che era giunto il momento di realizzare nella vita stessa ciò che finora era stato promesso solo nell'arte, concependo però la negazione dell'arte - superando la sua separazione dagli altri aspetti della vita - come un proseguimento della funzione critica dell'arte moderna. Per Adorno, al contrario, era proprio il fatto che l'arte fosse separata dal resto della vita a garantirne una tale funzione critica. Cercheremo di spiegare perché i due autori, nonostante il loro comune punto di partenza, arrivano a conclusioni talmente opposte: e vedremo che anche Adorno, contro la sua stessa volontà, viene attratto dalla tesi dell'esaurimento dell'arte.
Cominciamo con il considerare il posto centrale che lo «scambio» occupa nell'analisi dell'alienazione, così come viene sviluppata dai nostri autori. Debord definisce lo «spettacolo» proprio come «l''economia che si sviluppa di per sé stessa» e che ha «totalmente sottomesso» gli esseri umani (SdS, § 16) [*3], e attraverso il quale spettacolo,  «Le stesse forze che ci sono sfuggite si mostrano a noi in tutta la loro potenza» (SdS, § 31 ). Sotto questa forma suprema di alienazione, la vita reale si trova a essere sempre più deprivata di qualità, e viene divisa in attività frammentarie e separate tra di esse, mentre le immagini di quella vita si separano a loro volta da essa, a formare un insieme. Questo insieme - lo spettacolo in senso stretto - acquista una vita indipendente. Come avviene nella religione, le attività e le possibilità degli individui e della società appaiono separate dai soggetti; solo che non vengono più situate in un Aldilà bensì sulla Terra. L'individuo viene a essere separato da tutto ciò che lo riguarda, e può relazionarsi con esso solo attraverso la mediazione di immagini scelte da altri che vengono falsificate in maniera interessata. Il feticismo delle merci descritto da Marx, era la trasformazione delle relazioni umane in relazioni tra cose; ora si tratta della trasformazione in relazioni tra immagini. Il degrado della vita sociale, dall'essere in avere, trova il suo prolungamento nel suo ridursi al sembrare (SdS, § 17), laddove l'essere umano diventa un semplice spettatore che contempla passivamente, senza poter intervenire, l'azione di forze che sono in realtà le proprie. Lo spettacolo è la manifestazione più recente del potere politico che, pur essendo «la più  vecchia specializzazione sociale» (SdS, § 23), solo negli ultimi decenni ha acquisito l'indipendenza che lo ha messo in grado di dominare tutta l'attività sociale. Nello spettacolo, dove l'economia trasforma il mondo solo nel mondo dell'economia (SdS, § 40), «il principio del feticismo della merce» (SdS, § 36) viene «realizzato in modo assoluto» e la merce «perviene all'occupazione totale della vita sociale» (SdS, § 42). La generalizzazione della merce e dello scambio significa «la perdita della qualità, talmente evidente a tutti i livelli del linguaggio spettacolare» (SdS, § 38): l'astrazione di ogni qualità specifica, base e conseguenza dello scambio, si traduce «in maniera perfetta nello spettacolo, il cui modo concreto di essere è proprio l’astrazione» (SdS, § 29) [*4].

Anche Adorno denuncia implacabilmente «il dominio universale del valore di scambio sugli esseri umani, che impedisce a priori ai soggetti di essere soggetti, e riduce mero oggetto perfino la soggettività  stessa» (DN, 180). «Tutti i momenti qualitativi vengono schiacciati» (DN, 92) dallo scambio che «mutila» tutto [*5]. Lo scambio costituisce «il cattivo fondamento della società di per sé» e «il carattere astratto del valore di scambio si unisce, prima di ogni qualsivoglia particolare stratificazione sociale, al dominio dell'universale sul particolare e della società sui suoi membri [...]. Nel ridurre gli esseri umani ad agenti e a portatori di merci di scambio, si cela il dominio di alcuni esseri umani su altri [...]. Il sistema totale assume la forma per cui:se non vogliono perire, tutti devono sottomettersi alla legge dello scambio» [*6]. Il carattere di feticcio assunto dalla merce «invade tutti gli aspetti della vita sociale, quasi come una paralisi» [*7]. Nella misura in cui il valore d'uso «si atrofizza» (TE, 298), ciò che viene consumato è il valore di scambio in quanto tale (TE, 37).
Lo spettacolo, nel fare un grande uso di elementi quali il cinema, lo sport o l'arte, finisce per assomigliare abbastanza a quell'«ideologia culturale» che Adorno e Horkheimer hanno saputo descrivere nella loro fase formativa [*8]. E qui appare opportuno un confronto dettagliato di questi due concetti, poiché evidenzierà non solo la loro attualità, ma anche le affinità tra due concezioni che si sono sviluppate indipendentemente in luoghi e tempi molto diversi [*9]. Secondo Debord, lo spettacolo, in quanto «ideologia materializzata», ha sostituito tutte le ideologie particolari (SdS, § 213); secondo la "Dialettica dell'Illuminismo", nell'industria culturale, apparentemente libera da ideologia, il potere sociale si esprime molto più efficacemente di quanto faccia nelle «ideologie obsolete» (DI, 164). Il contenuto dell'industria culturale non consiste in un'apologia esplicita di questo o di quel presunto regime politico inattaccabile, ma è piuttosto la presentazione incessante dell'esistente visto come unico orizzonte possibile. «A dimostrazione della divinità del reale ci si limita a ripeterlo cinicamente all’infinito. Questa prova foto-logica non è stringente, ma è schiacciante.» (DI, 178). Per Debord, lo spettacolo «non dice niente di più che "ciò che appare è buono, e ciò che è buono appare". L'attitudine che esige per principio è questa accettazione passiva che esso di fatto ha già ottenuto [...] con il suo monopolio dell'apparenza.» (SdS, § 12); dodici anni dopo, avendo notato che lo spettacolo non promette più nemmeno questo, ma si limita solo a dire: «È così» [*10]. L'industria culturale non è il risultato «di una legge evolutiva della tecnologia in quanto tale» (DI, 148), così come «lo spettacolo non è un prodotto necessario dello sviluppo tecnico visto come uno sviluppo naturale» (SdS, § 24). Allo stesso modo in cui l'industria culturale «condanna tutto alla monotonia» (DI, 146), lo spettacolo, a sua volta, consiste in un processo di banalizzazione e di omogeneizzazione (SdS, § 165). Adorno e Horkheimer si sono ben presto resi conto che «nel capitalismo avanzato, il tempo libero è diventato il prolungamento del lavoro» (DI, 165), che riproduce i ritmi del lavoro industriale e inculca «l'obbedienza alla gerarchia sociale» (DI, 158). Secondo Debord, il «polo di sviluppo del sistema» si sposta sempre più verso il non lavoro, verso l'inattività. «Ma questa inattività non è assolutamente liberata dall'attività produttiva» (SdS, § 27). L'industria culturale è il luogo dove la menzogna può riprodursi a volontà (DI, 163); lo spettacolo, quello nel quale «il bugiardo mente a sé stesso» (SdS, § 2). Nello spettacolo, addirittura, «il vero è un momento del falso» (SdS, § 9); nell'industria culturale, le affermazioni più ovvie, come quelle secondo cui gli alberi sono verdi o il cielo è blu, si trasformano in «crittogrammi di ciminiere di fabbrica e pompe di benzina», vale a dire, figure del falso (DI, 179). Lo spettacolo è quindi una vera e propria «colonizzazione» della vita quotidiana (IS, 6/22), ragion per cui nessun bisogno può più essere soddisfatto, se non attraverso la sua mediazione (SdS, § 24); Horkheimer e Adorno descrivono come, già negli anni '40, i comportamenti più ordinari e le espressioni più vitali, quali ad esempio il tono di voce nelle diverse circostanze, o il modo di vivere le relazioni sentimentali, cerchino di adattarsi ai modelli imposti dall'industria culturale e dalla propaganda (DI, 200). L'industria culturale, più che la propaganda di un qualche prodotto in particolare, è in realtà la propaganda di tutti i beni, e della società in quanto tale: si può passare facilmente dalla pubblicità dei detersivi alla propaganda politica di qualche leader (DI, 185-192). A sua volta, lo spettacolo è come un «catalogo apologetico» di tutta la totalità delle merci (SdS, § 65), il «canto epico» della battaglia che le merci conducono tra di esse e nel quale, per quanto la merce particolare si logori, la forma-merce ne viene rafforzata (SdS, § 66). La politica diventa come una merce in più in mezzo alle altre, e sia «Stalin come la merce fuori moda sono denunciati dagli stessi che li hanno imposti.»(Sde, § 70).
Tanto l'industria culturale quanto lo spettacolo, si basano sull'identificazione dello spettatore nelle immagini che gli vengono proposte, cosa che equivale alla rinuncia a vivere in prima persona. Chi non vince il viaggio promesso come premio nel concorso, deve accontentarsi delle fotografie dei paesi che avrebbe potuto visitare (DI, 178): il cliente deve sempre «accontentarsi di leggere il menù» (DI, 168). Le immagini invadono la vita reale fino a confondere le due sfere, facendo credere «che il mondo esterno sia il semplice prolungamento di ciò che appare nel film» (DI, 153). Ciò corrisponde all'osservazione di Debord secondo cui «la realtà vissuta è materialmente invasa dalla contemplazione dello spettacolo» (SdS, § 8), insieme a quell'altra osservazione in cui sostiene che laddove «il mondo reale si cambia in semplici immagini» (per esempio, un paese visto in una fotografia), «le semplici immagini diventano degli esseri reali» (Sde, § 18): la realtà come prolungamento del cinema. Adorno scriveva - nel 1952! - che la televisione consente «di introdurre surrettiziamente nella copia del mondo tutto ciò che si ritiene sia opportuno per il mondo reale», dato che «maschera l'alienazione reale tra gli esseri umani e tra questi e le cose. La televisione diventa il succedaneo di un'immediatezza sociale che viene negata agli esseri umani» [*11]; e anticipa così, quasi letteralmente, l'analisi di Debord. Salta agli occhi, la differenza che distingue entrambi rispetto ai numerosi autori dell'epoca che riflettevano, con maggiore o minore sottigliezza, sugli stessi fenomeni, battezzandoli «società dei consumi» o «cultura di massa». Debord e Adorno riconoscono in ciò che descrivono, una falsa forma di coesione sociale, una sottaciuta ideologia atta a creare un consenso sul capitalismo occidentale, un metodo per governare una società e, infine, una tecnica per impedire che gli individui - che sono maturi per l'emancipazione altrettanto quanto lo è lo stato delle forze produttive - ne prendano coscienza [*12]. L'infantilizzazione degli spettatori non è un effetto collaterale dello spettacolo o dell'industria culturale, ma è la realizzazione dei suoi obiettivi anti-emancipativi: secondo Adorno, l'ideale dell'industria culturale è riuscire ad «abbassare il livello mentale degli adulti a quello dei bambini di undici anni» [*13]; secondo Debord, nello spettacolo, «Il bisogno di imitazione che prova il consumatore è precisamente il bisogno infantile» (SdS, § 219).

A prescindere da questi parallelismi, Debord e Adorno divergono completamente riguardo il ruolo dell'arte. Fin dai primi anni '50, Debord aveva sostenuto che l'arte era già morta, e doveva essere "superata" da una nuova forma di vita e di attività rivoluzionaria, la quale avrebbe preservato e realizzato il contenuto dell'arte moderna. La spiegazione del perché l'arte non può più svolgere quel suo ruolo importante che aveva in passato, si trova nei paragrafi 180-191 de La società dello spettacolo, dove Debord espone la contraddizione fondamentale dell'arte: nella società dominata dalle frammentazioni e dalle divisioni, l'arte svolge la funzione di rappresentare l'unità e la totalità sociale perdute. Ma allo stesso modo in cui è evidentemente contraddittoria l'idea che una parte del tutto possa prendere il posto del tutto, lo è anche quella di convertire la cultura in una sfera autonoma. Proprio nel momento in cui deve fornire alla società ciò di cui manca - il dialogo, l'unità dei momenti della vita - l'arte deve rifiutarsi allo stesso tempo anche di giocare il ruolo di semplice immagine di tutto questo. La società aveva relegato la comunicazione alla cultura, ma la progressiva dissoluzione delle comunità tradizionali - dall'agorà ai quartieri popolari - ha finito per far sì che l'arte confermasse l'impossibilità della comunicazione. Il processo di distruzione dei valori formali, da Baudelaire a Joyce e a Malevitch, esprimeva il rifiuto dell'arte di essere il linguaggio fittizio di una comunità che non esisteva più, ma insieme a questo anche la necessità di riscoprire un linguaggio comune di vero dialogo (SdS, § 187). L'arte moderna raggiunge il suo apogeo e finisce con Dada e i surrealisti, contemporanei dell'«ultimo grande assalto del movimento rivoluzionario proletario» (SdS, § 191), che tentarono,sebbene con modalità insufficienti, di sopprimere l'arte e, allo stesso tempo, di realizzarla. Con la duplice sconfitta delle avanguardie politiche ed estetiche, avvenuta tra le due guerre mondiali, si conclude la fase "attiva" della decomposizione (IS, 1/14 ). Così facendo, l'arte raggiunge il punto che la filosofia aveva già raggiunto con Hegel, Feuerbach e Marx: e viene compresa come alienazione, come proiezione dell'attività umana in un'entità separata. Per chi vuole rimanere fedele al senso e al significato della cultura, non c'è altro rimedio che negarla come cultura, e realizzarla nella teoria e nella pratica della critica sociale. Dopo il 1930, la decomposizione dell'arte continua , ma cambia di significato. L'autodistruzione del vecchio linguaggio, una volta separato dalla necessità di trovare una nuova lingua, viene recuperato grazie alla «difesa del potere di classe» (SdS, § 184). L'impossibilità di qualsiasi comunicazione, viene pertanto riconosciuta come un valore in sé che deve essere accolto con giubilo, e assunto come un fatto inalterabile. La ripetizione della distruzione formale nel teatro dell'assurdo, nel nuovo romanzo, nella nuova pittura astratta o nella pop-art, non esprime più la storia che dissolve l'ordine sociale: ormai non si tratta più di nient'altro che della replica monotona dell'esistente, attraverso un valore oggettivamente positivo, si tratta «della semplice proclamazione della sufficiente bellezza del dissolvimento del comunicabile» (SdS, § 192). Anche Adorno ammette che l'arte, diventando autonoma e svincolandosi dalle funzioni pratiche, non è più immediatamente un fatto sociale e si allontana dalla "vita". Ma è solo in questo modo che l'arte può di fatto opporsi alla società. La società borghese ha creato un'arte che è, necessariamente, un suo avversario, persino al di là dei suoi contenuti specifici (TE, 15-18,24.293-296). L'arte finisce così per mettere in discussione la propria autonomia, la quale «comincia a mostrare sintomi di cecità» (TE, 10). Adorno riconosce che l'arte si trova in difficoltà tali che «nemmeno il suo diritto di esistere» è  "evidente" (TE, 9), e conclude: «La ribellione dell'arte [...] s è convertita in una ribellione del mondo contro l'arte» (TE, 13). Quando scrive  che «si dice che il tempo dell'arte è passato, e ciò che conta ora è realizzare il suo contenuto di verità» (TE, 327), Adorno sta forse condividendo la tesi di Debord? Niente affatto, se consideriamo che la frase si chiude con le parole: «Tale verdetto è totalitario». Sembra che Adorno non abbia avuto l'opportunità di poter conoscere le idee dei situazionisti e di contestarle, ma è probabile che avrebbe equiparato la loro critica dell'arte a quella dei contestatori sessantottini, che accusava di essere degli entusiasti della «bellezza della lotta di strada», e preferivano «il jazz e il rock a Beethoven» (Adorno, Paralipomena, in: Gesammelte Schriften, 7, p. 473 12a). Sebbene prendere posizione contro l'arte sia assai meno originale di quanto si creda (TE, 327s: Paralipomena, op. cit., p. 474), Adorno vede nell'arte un grande pericolo e, allo stesso tempo, un'«incapacità di sublimazione», una «debolezza dell'Io» oppure semplicemente una «mancanza di talento»: non si pone «al di sopra, ma al di sotto della cultura» (TE, 327). E tuttavia, ciò che egli critica nella protesta contro l'arte non è tanto il fatto che essa attacchi l'ordine sociale ed estetico esistente ma piuttosto, al contrario, il suo essere conforme al sistema e alle sue tendenze peggiori. Questo genere di eclisse dell'arte, è «un modo per adattarsi» (Paralipomena, p. 473), dal momento che «l'abolizione dell'arte in una società che è semi-barbara, e va verso la barbarie completa, diventa complicità» (TE, 328). Voler realizzare direttamente, a livello sociale, il piacere o la verità contenuti nell'arte, corrisponde alla logica dello scambio, secondo cui ci si aspetta che l'arte - come tutte le cose - abbia una qualche utilità. Adorno vede nell'arte una critica sociale, persino quando si tratta di poesia ermetica o di «arte per l'arte», proprio in virtù della sua autonomia e del suo «carattere aggregativo». Egli afferma che «l'arte è sociale soprattutto a partire dalla sua opposizione alla società, opposizione che acquisisce solo nel momento in cui diventa autonoma [...]. Non c'è nulla di puro, niente di formato a partire dalla sua propria legge immanente, che non eserciti una critica tacita» (TE, 296). L'opera d'arte deve la sua funzione critica al fatto che non «serve» a niente: né ad allargare la conoscenza, né al piacere immediato, né all'intervento diretto nella prassi. Adorno rifiuta ogni tentativo di ridurre l'arte a uno di questi elementi. «A garantire ciò che è privo di dominio è solo quello che non si adatta a tale principio [dello scambio]; a garantire il valore d’uso atrofizzato è ciò che è inutile. Le opere d’arte sono i vicari delle cose non più deturpate dallo scambio, di ciò che non è guastato dal profitto e dal falso bisogno dell’umanità degradata.» (TE, 298).

Debord e Adorno arrivano così a valutazioni opposte sulla fine dell'arte: ciò richiede una spiegazione, considerando l'affinità dei loro rispettivi punti di partenza. Entrambi sostengono che la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione si riproduce all'interno della sfera culturale; entrambi adottano, per quel che è essenziale, lo stesso atteggiamento nei confronti dello sviluppo del potenziale tecnico ed economico, nel quale vedono, senza semplicemente deificarlo o condannarlo, una precondizione - che si supererà da sé sola - per una società liberata: «La vittoria dell'economia autonoma dev'essere, nello stesso tempo, la sua sconfitta. Le forze che ha scatenato sopprimono la necessità economica che è stata la base immutabile delle società antiche.» (Sds, § 51). Lo sviluppo delle forze produttive ha raggiunto un grado tale, a partire dal quale l'umanità ha potuto lasciarsi alle spalle ciò che Adorno chiama «la cieca autoconservazione» e che i situazionisti chiamano «sopravvivenza», in modo da passare finalmente alla vera vita [*14]. Solo i rapporti di produzione - l'ordine sociale - lo impediscono: secondo Adorno, «la terra, a seconda dello stato delle forze produttive, ora, qui, potrebbe essere immediatamente il paradiso» (TE, 51), mentre in realtà sta diventando una «prigione a cielo aperto» [*15]. I rapporti di produzione basati sullo scambio condannano la società a continuare a sottomettersi agli imperativi della sopravvivenza, creando - come dice il situazionista Vaneigem - «un mondo dove la garanzia di non morire di fame si ottiene in cambio del rischio di morire di noia» [*16]. La riduzione alla pura "sopravvivenza" va intesa anche in un senso più ampio, come una subordinazione del contenuto della vita a dei presunti bisogni esterni: un esempio di ciò è l'atteggiamento degli urbanisti per cui rifiutano ogni proposta relativa a un'architettura diversa, sostenendo che «bisogna avere un tetto sopra la testa» e che è necessario costruire rapidamente una grande quantità di abitazioni (IS, 6/7). Nel 1963, i situazionisti scrivevano: «Il vecchio schema della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, non deve certo essere più inteso come una condanna automatica e a breve termine della produzione capitalista, nel senso di stagnazione e di incapacità di un ulteriore sviluppo. Tale contraddizione va intesa assai più come la condanna - la cui esecuzione deve ancora essere tentata con le armi rimanenti - dello sviluppo meschino, e allo stesso tempo pericoloso, a cui conduce l'autoregolazione di tale produzione, rispetto a quello che potrebbe essere un grandioso sviluppo possibile.» (IS, 8/7). L'economia e i suoi organizzatori hanno svolto una funzione utile per liberare la società dalla «pressione naturale», mentre ora si tratta di liberarsi da tale liberatore (SdS, § 40). Sono le attuali gerarchie sociali a garantire la sopravvivenza per perpetuarrsi, e che, allo stesso tempo, impediscono che si viva. Adorno,da parte sua, scrive che «nel subordinare tutta la vita alle esigenze della sua conservazione, la minoranza che comanda garantisce anche, insieme alla propria sicurezza, la perpetuazione del tutto» (DI, 47). Tutta la "Dialettica dell'Illuminismo" si basa sul fatto che la ratio non ha potuto mostrare tutto il suo potenziale di liberazione, poiché si è trovata minacciata fin dall'inizio dalle forze irresistibili della natura, ponendosi come unico obiettivo quello di combatterle e dominarle il più possibile. Questa lotta continua anche quando la sopravvivenza fisica degli esseri umani non è più in pericolo e allora infligge loro nuove mutilazioni che non sono più di natura naturale ma sociale:«Ma quanto più il processo di autoconservazione si realizza attraverso la divisione borghese del lavoro, tanto più questo processo esige l'autoalienazione degli individui che devono conformare corpo e anima alle esigenze dell'apparato tecnico» (DI, 45). Di per sé, la gigantesca accumulazione di mezzi non è sufficiente a rendere la vita più ricca. «Un'umanità che non dovesse più conoscere la privazione intuirebbe che c'è qualcosa di delirante ed infruttuoso in tutti i procedimenti utilizzati fino ad allora per sfuggire alla privazione, e che riproducono su scala amplificata, accanto alla ricchezza, anche la privazione» [*17]. In senso analogo, Debord scrive: «Se non c'è nessuno al di là della sopravvivenza aumentata, nessun punto dove potrebbe terminare la sua crescita, è perché non è essa stessa al di là della privazione, ma è la privazione stessa divenuta più ricca.» (Sds, § 44). La critica al cieco automatismo delle leggi economiche, e la richiesta che la società sottoponga l'uso delle sue risorse a decisioni consapevoli portano entrambi gli autori a ricorrere perfino alle stesse citazioni: «Nel momento in cui la società scopre di dipendere dall'economia, l'economia, di fatto, dipende dalla società [...]. Laddove c'era l'es economico, deve venire l'io.» (Sds, § 52), scrive Debord, mentre Adorno attribuisce una consapevolezza simile all'arte: «Ciò che era Es deve diventare Io, ci dice la nuova arte con Freud» [*18]. Tutta l'estetica di Adorno si basa sul fatto che anche nell'arte si incontra la contraddizione tra il potenziale delle forze produttive e il loro uso effettivo. Si può parlare anche di forze produttive estetiche, dal momento che anche l'arte è una forma di dominio sugli oggetti, sulla natura. Non lascia gli oggetti così come sono, ma li sottopone a una trasformazione, per la quale fa uso di alcune procedure e tecniche che sono state elaborate e perfezionate poco a poco. Ciò è ancora più vero per l'arte moderna, che non si limita a copiare la realtà, ma la ristruttura interamente secondo le proprie regole; basta pensare alla pittura cubista o astratta, o, nella letteratura moderna, alla sospensione delle leggi tradizionali dell'esperienza. Nell'arte, il dominio sugli oggetti non serve ad assoggettare la natura bensì, al contrario, a restituirle i suoi diritti: «L'arte realizza un'intima revisione del dominio della natura, dominando le forme che la dominano» (TE, 184). L'arte, «antitesi sociale della società» (TE, 18), propone alla società esempi di un possibile uso dei suoi mezzi, in una relazione con la realtà che non sia di dominio o di violenza: «Esistendo, le opere d’arte postulano l’esistenza di un non esistente e in tal modo entrano in conflitto con il suo reale non-esserci.» (TE, 83). Mentre la produzione materiale è diretta solo alla crescita quantitativa, l'arte, nella sua "irrazionalità", deve rappresentare i fini qualitativi - come la felicità dell'individuo - che il razionalismo delle scienze considera "irrazionali" (TE, 64: Paralipomena, pp. 430, 489). Con la sua "inutilità" e la sua volontà di essere solo per sé stessa, e di sottrarsi allo scambio universale, l'opera d'arte libera la natura dalla sua condizione di semplice mezzo o strumento: «Non è per il suo contenuto particolare, ma solo per l'insostituibilità della sua stessa esistenza che l'opera d'arte lascia in sospeso la realtà empirica in quanto complesso funzionale astratto e universale» (TE, 180). Non si tratta necessariamente di un processo cosciente. Basta che l'arte segua le proprie leggi di sviluppo - ed è proprio in questo che consisteva la radicalizzazione delle avanguardie - in modo che riproduca, al suo interno, il grado di sviluppo delle forze produttive extra-estetiche, senza essere sottoposta alle restrizioni derivanti dai rapporti di produzione (TE, 71). Un'arte le cui tecniche sono al di sotto dello stato di sviluppo delle forze produttive artistiche raggiunto in un dato momento è, pertanto, "reazionaria", poiché non può rappresentare la complessità dei problemi attuali. È questa è una delle ragioni per cui Adorno condanna il jazz, ma allo stesso tempo si applica, per esempio, al "realismo socialista". L'arte formalista, al contrario, esprime, al di là di ogni contenuto "politico", l'evoluzione della società e le sue contraddizioni. «La campagna contro il formalismo ignora che la forma che si dà al contenuto è essa stessa un contenuto sedimentato» (TE, 193). «Nel "come" del modo di dipingere possono depositarsi esperienze incomparabilmente piú profonde, anche socialmente piú rilevanti, che in ritratti fedeli di generali ed eroi della rivoluzione.» (TE, 200).

Anche Debord fa uso del concetto di «forze produttive estetiche», basandosi sul parallelismo con le forze produttive extra-estetiche della difesa dell'evoluzione formalista dell'arte fino al 1930, il cui risultato storico è stato il "superamento" dell'arte. Allo stesso modo di Adorno, egli vede nell'arte una rappresentazione delle potenzialità della società: «Ciò che si chiama cultura riflette, ma anche prefigura, in una società data, le possibilità di organizzare la vita» [*19]. E, come Adorno, Debord afferma che esiste un legame tra la liberazione di queste potenzialità nell'arte e nella società: «Anche nella sfera della cultura, ci troviamo bloccati in certi rapporti di produzione che contraddicono il necessario sviluppo delle forze produttive. Dobbiamo combattere tali relazioni tradizionali» [*20]. Nel campo delle forze produttive estetiche, si è effettivamente prodotto uno sviluppo rapido e inesorabile in cui ogni scoperta, una volta fatta, rende inutile ripeterla. Intorno al 1955, su Potlatch, il bollettino del gruppo di Debord, si afferma che dopo Malévitch la pittura astratta ha solo sfondato delle porte già aperte (p. 187), e che il cinema ha esaurito tutte le sue possibilità di innovazione (p. 124), e che la poesia onomatopeica, da un lato, e quella neoclassica, dall'altro, indicano la fine della poesia stessa (p. 182). Questa «evoluzione vertiginosamente accelerata gira ormai a vuoto» (p. 155),vale a dire, lo sviluppo delle forze produttive estetiche è arrivato alla sua conclusione perché il parallelo dispiegarsi delle forze produttive extra-estetiche ha superato una soglia decisiva, creando la possibilità di una società non più interamente dedita al lavoro produttivo, una società che avrebbe avuto il tempo e i mezzi per "giocare" e abbandonarsi alle "passioni". L'arte, in quanto mera rappresentazione di tale possibile uso dei mezzi, l'arte in quanto succedaneo delle passioni, sarebbe, pertanto, superata. Così come il progresso delle scienze ha reso superflua la religione, l'arte dimostra di essere, nel suo continuo progresso, una forma limitata dell'esistenza umana [*21]. Debord non mostra troppa sfiducia nei confronti dello sviluppo delle forze produttive in quanto tali: per lui, ciò che è decisivo non è il contenuto delle nuove tecniche, ma piuttosto chi le usa e come. Identifica il dominio della natura con la libertà [*22], dal momento che essa consente di ampliare l'attività del soggetto: la sua critica è diretta contro l'arretratezza delle sovrastrutture, dalla morale all'arte, rispetto a tale sviluppo, considerando anacronistica non solo l'arte tradizionale ma l'arte stessa come forma di organizzazione dei desideri umani. La funzione che l'arte aveva in passato, e che non può più svolgere, consiste quindi nel contribuire all'adattamento della vita alla situazione delle forze produttive. In Adorno, invece, queste considerazioni sono complicate dal duplice aspetto che egli attribuisce alle forze produttive. La sua critica non si limita al subordinare le forze produttive ai rapporti di produzione, come fa la tradizionale critica marxista, né all'autonomizzazione della produzione materiale come una sfera separata: l'economia, che è il tema centrale di Debord. Per Adorno, ogni produzione materiale, in quanto dominio della natura, è una forma particolare di dominio in generale, e come tale non può essere portatrice di libertà. Il dominio sulla natura è sempre stato per lui una liberazione degli esseri umani da quella che è la loro dipendenza dalla natura, mentre che allo stesso tempo venivano introdotte nuove forme di dipendenza. Adorno evidenzia a volte uno, a volte l'altro di questi due aspetti. Nella Dialettica dell'illuminismo, le procedure quantitative della scienza e della tecnica in quanto tali sono viste come reificazione, mentre nel 1966 scrive - alludendo forse all'heideggeriano «pensare la tecnica», allora di moda - che la tendenza al totalitarismo «non può essere attribuita alla tecnica in quanto tale, la quale non è altro che una forma di forza produttiva umana, un braccio allungato, anche nelle macchine cibernetiche, ed è pertanto un semplice momento nella dialettica delle forze produttive e dei rapporti di produzione: non è una terza entità dotata di un'indipendenza demoniaca» [*23]. in quello stesso anno scrive: «La reificazione e la coscienza reificata hanno prodotto, con la nascita delle scienze naturali, anche la possibilità di un mondo senza alcuna privazione» (DN, 193). Riguardo a questo secolo, secondo Adorno, non si può parlare di un'opposizione tra forze produttive e rapporti di produzione: essendo sostanzialmente omogenee come forme di dominio, entrambe hanno finito per fondersi in un unico «blocco». La nazionalizzazione dell'economia e l'«integrazione» del proletariato sono state le tappe decisive di questo processo. In tale situazione - tornando alla problematica estetica - l'arte non deve limitarsi a seguire le forze produttive, ma deve anche criticare quelli che sono i loro aspetti «alienanti». Se per Adorno l'arte continua a essere capace di resistere all'«alienazione», mentre invece secondo Debord ha perso tale capacità, ciò è dovuto in gran parte al fatto che Debord per "alienazione" intende l'alienazione della soggettività. Per Adorno, al contrario, è proprio la soggettività stessa che può facilmente diventare alienazione, e nelle sue opere successive si mostra scettico riguardo al concetto di «alienazione». Il concetto di «alienazione», così come lo intende Debord, è fortemente influenzato dalla nozione di «reificazione» sviluppata da G. Lukács in "Storia e coscienza di classe". Per Lukács, la reificazione è la forma fenomenica del feticismo della merce, il quale attribuisce alla merce, vista come cosa sensibile e banale, le proprietà delle relazioni umane che presiedono alla sua produzione. L'estensione della merce, e del suo feticismo, alla totalità della vita sociale dà luogo a un'attività umana che è di fatto processo e flusso, come se fosse un insieme di cose che, indipendenti da ogni potere umano, seguono solo le loro proprie leggi. Non c'è problema moderno che in definitiva non si riferisca all'«enigma della struttura della merce»  [*24]. Dalla frammentazione dei processi produttivi, che sembrano svilupparsi indipendentemente dai lavoratori, alla struttura fondamentale del pensiero borghese, con la sua opposizione tra soggetto e oggetto, tutto porta gli esseri umani a contemplare passivamente la realtà nella forma di «cose», «fatti» e «leggi». Quarant'anni prima di Debord, Lukács aveva caratterizzato questa condizione dell'essere umano come dello «spettatore» [*25]. Com'è noto, Lukács finì per prendere le distanze da queste teorie, considerando che esse ripetevano l'errore hegeliano di concepire ogni oggettualità come alienazione. Debord non ignora il problema: più volte, distingue tra oggettivazione e alienazione; per esempio quando oppone il tempo, che è «l'alienazione necessaria, come sottolineava Hegel, il mezzo per mezzo del quale il soggetto si realizza perdendosi», all'«alienazione dominante», che lui chiama «spaziale» e che «separa alla radice il soggetto e l'attività che essa gli sottrae» (SdS, § 161). Ma anche così, in alcuni aspetti della sua critica dello spettacolo, sembra resuscitare l'esigenza del soggetto-oggetto, identico nella forma, della «vita» interpretata come fluente, a fronte dello spettacolo visto come «stato coagulato» (SdS, § 35) e come «congelamento visibile della vita» (SdA, § 170). Non sorprende perciò che la sua critica della merce si trasformi a volte in una critica delle «cose» che dominano gli esseri umani. Né Debord né il Lukács di "Storia e coscienza di classe" dubitano che possa esistere una soggettività «sana», non reificata, che collocano nel proletariato, e la cui definizione oscilla tra le categorie sociologiche e quelle filosofiche. Per quanto l'ideologia borghese o lo spettacolo minaccino dall'esterno questa soggettività, essa rimane, in linea di principio, capace di resistere ai loro attacchi [*26].

Al contrario, per Adorno ciò che aliena il soggetto rispetto al suo mondo è proprio il «soggettivismo», la propensione che il soggetto ha a «divorare» l'oggetto (DN, 31). Soggetto e oggetto non formano una dualità ultima e insuperabile, né possono essere ridotti a un'unità come avviene con «l'essere», ma piuttosto si costituiscono a vicenda (DN, 176). Tuttavia, le mediazioni oggettive del soggetto sono più importanti delle mediazioni soggettive dell'oggetto [*27], poiché il soggetto continua sempre a essere una forma dell'essenza dell'oggetto; o, per dirlo in termini più concreti: la natura può esistere senza l'uomo, ma l'uomo non può esistere senza la natura. Per Adorno, il soggetto-oggetto di Lukács è un caso estremo di «filosofia dell'identità», le cui categorie sono i mezzi con cui il soggetto cerca di appropriarsi del mondo. L'oggetto viene identificato attraverso le categorie stabilite dall'oggetto, e in tal modo l'identità dell'oggetto, la sua qualità di «individuum ineffabile», si perde, mentre l'oggetto si riduce all'identità con il soggetto. Il «pensiero identificante» riconosce una cosa a partire dal fatto che la vede come esemplare di una specie; ma in questo modo trova nella cosa solo ciò che il pensiero stesso ha introdotto in essa, e non può mai conoscere la vera identità dell'oggetto. L'oggettività «buona», la quale restituisce autonomia agli oggetti, si oppone all'oggettività effettivamente «reificante», la quale trasforma l'essere umano in una cosa e il prodotto del lavoro in una merce-feticcio. È l'identità posta dal soggetto, ciò che priva l'uomo moderno della sua «identità»: «Il principio di identità assoluta è in sé stesso contraddittorio. Perpetua la non-identità in quanto oppressa e danneggiata» (DN, 316). In un mondo in cui ogni oggetto è uguale al soggetto, il soggetto diventa un mero oggetto, una cosa tra le cose. La negazione dell'identità degli oggetti, a favore dell'identità del soggetto che ovunque pretende di trovare se stesso, viene messa in relazione da Adorno, sebbene un po' vagamente, con il principio di equivalenza, con il lavoro astratto e con il valore di scambio. La reificazione realmente esistente è il risultato dell'avversione all'oggetto in generale, allo stesso modo in cui l'alienazione deriva dalla repressione del diverso e dell'estraneo: «Se il diverso non fosse più bandito, avremmo solo alienazione» (DN, 173 o 175), laddove invece il soggetto attuale «si sente assolutamente minacciato, da ogni minimo residuo del/della non identico/a [...] e questo perché la sua aspirazione è il tutto» (DN, 185). Nel passato, non esisteva unità tra soggetto e oggetto - l'essere umano non si allontanava dalla sua «essenza» o da un em-si (DN, 190-193) - né si tratta di aspirare alla realizzazione di un'«unità indifferenziata di soggetto e oggetto», quanto piuttosto a una «comunicazione del differenziato» [*28]. Non bisogna dimenticare, però, che tali osservazioni si riferiscono a filosofie quali l'esistenzialismo. Difficilmente potrebbero essere applicate ai situazionisti che criticano lo spettacolo proprio perché esso nega ai soggetti la possibilità di perdersi nel flusso degli eventi: «L'alienazione sociale sormontabile è giustamente quella che ha impedito e pietrificato le possibilità e i rischi dell'alienazione vivente nel tempo» (SdS, § 161). Ora possiamo capire meglio perché Adorno difende l'arte: la considera capace di contribuire al superamento del soggetto dominante. Solo nell'arte può avvenire una «riconciliazione» tra soggetto e oggetto. Nell'arte, il soggetto è la forza produttiva principale (TE, 62. 253); e solo nell'arte - ad esempio, nella musica romantica - il soggetto può svilupparsi liberamente e padroneggiare il suo materiale senza violarlo; che significa sempre, in definitiva, violare sé stesso. In tal modo, l'arte è la «tenutaria» della «vera vita» [*29], di una vita liberata «dalla fatica, dal fare progetti, dall'imporre la propria volontà, dal soggiogare», laddove «il non fare nulla, come un animale, galleggiando sull'acqua e guardando serenamente il cielo [...] potrebbe sostituire il lavoro, il fare, la realizzazione» [*30]. La vera prassi dell'arte consiste in questa non-praxis, in questo rifiuto degli utilizzi strumentali e della così tanto lodata «comunicazione», nella quale Adorno vede la semplice conferma reciproca dei soggetti empirici nel loro essere-così. Il vero soggetto dell'arte non deve essere né l'artista né il fruitore, ma l'arte stessa insieme a quello che parla attraverso di essa: «La comunicazione è l'adattamento dello spirito all'utile, mediante il quale si somma alla merce» (TE, 102). Rimbaud, il prototipo delle avanguardie, è stato per Adorno «il primo artista straordinario a rifiutare la comunicazione» (Paralipomena, p. 469). «L'arte non arriva più agli esseri umani, se non attraverso lo shock che colpisce quello che l'ideologia pseudo-scientifica chiama comunicazione; da parte sua, l'arte conserva la sua integrità solo dove non si presta al gioco della comunicazione» (Paralipomena, p. 476). Per Debord, al contrario, l'arte aveva come missione intensificare l'attività del soggetto e servire come mezzo per la sua comunicazione. Tale comunicazione esisteva in condizioni simili a quelle della democrazia greca; condizioni la cui dissoluzione ha portato all'«attuale perdita delle condizioni di comunicazione in generale» (SdS, § 189). L'evoluzione dell'arte moderna riflette tale dissoluzione. Lo spettacolo viene definito come «rappresentazione indipendente» (SdS, § 18) e come «la comunicazione dell'incomunicabile» (SdS, § 192). Nel 1963, la rivista "lnternationale Situationniste" afferma perentoriamente che «dove c'è comunicazione non c'è Stato» (IS, s/30), e Debord scrive, già nel 1958, che «bisogna sottomettere ogni forma di pseudo-comunicazione a una distruzione radicale, in modo da poter arrivare un giorno a una comunicazione reale e diretta» (IS, 1/21); un compito questo che non spetta all'arte, ma a una rivoluzione che abbracci e comprenda i contenuti dell'arte. Vale la pena ricordare che Adorno e Debord differiscono non tanto su ciò che considerano di per sé desiderabile, quanto su ciò che considerano effettivamente possibile in quel momento storico. Entrambi convengono nel criticare il fatto che la razionalità della società sia stata relegata nella sfera separata della cultura. Adorno parla della «colpa in cui (la cultura) incorre isolandosi come sfera particolare dello spirito senza realizzarsi nell'organizzazione della società» [*31]. Adorno ammette anche, in termini assai generali, che «in un'umanità pacificata, l'arte cesserebbe di esistere» [*32] e che «non è impensabile che l'umanità una volta realizzata non abbia più alcun bisogno di una cultura immanente e autoreferenziale» (Paralipomena, p. 474). Tuttavia, questa è solo una possibilità remota; e sebbene egli riconosca che l'arte non è altro che la rappresentazione di qualcosa che manca (TE, 10), e insiste sul fatto che, attualmente, non c'è rimedio a una simile mancanza: ci si deve pertanto limitare solo a metterla in evidenza. «Chi vuole abolire l'arte, si fa sostenitore dell'illusione secondo cui la porta aperta su un cambiamento decisivo non si sia chiusa» (TE, 328). E ciò che vale per l'arte vale anche per la filosofia: «La filosofia, che prima sembrava superata, è invece ancora viva perché ha permesso che passasse il momento della sua realizzazione» (DN, 11). Di per sé, nemmeno la rivoluzione gli sembra impossibile, ma al momento solo priva di attualità: «Il proletariato a cui (Marx) si rivolgeva non si era ancora integrato: era chiaramente ridotto in povertà, mentre, d'altra parte, il potere sociale non disponeva ancora dei mezzi per assicurargli una vittoria schiacciante nell'ora della verità» [*33]. Nel 1920, tuttavia, una certa speranza nella rivoluzione era appropriata; Adorno si riferisce alla «violenza che, per un breve periodo, cinquant'anni fa poteva ancora sembrare giustificata a chi nutriva una speranza illusoria e troppo astratta in una trasformazione totale» [*34]. Adorno non ritiene che l'arte sia qualcosa di così tanto «elevato» da porsi come obiettivo la felicità dell'individuo; come Debord, anche lui vede nell'arte una «promessa di felicità» [*35], ma, a differenza di Debord, non crede che una simile promessa possa essere direttamente mantenuta, quanto piuttosto che sia possibile «essere fedeli ad essa solo infrangendola, per non tradirla» (Paralipomena, p. 461). Nel trattare l'arte che va dal 1850 al 1930, Debord condivide le affermazioni di Adorno circa il valore della pura negatività; ma, al contrario, per il periodo attuale, considera possibile passare alla positività perché, anche se non c'è stato un effettivo miglioramento della situazione sociale, si sono create le condizioni per farlo. Adorno, al contrario, parte dall'impossibilità attuale di una tale riconciliazione, e dalla necessità di accontentarsi di quella che è una sua evocazione nelle grandi opere d'arte. Ci troviamo così di fronte a due interpretazioni opposte delle possibilità e dei limiti della modernità. Nel 1963, l'editoriale del numero 8 dell'lnternationale Situationniste si riferisce ottimisticamente ai «nuovi movimenti di protesta»; in quello stesso anno, Adorno parla di «un momento storico in cui la prassi sembra non possa essere praticata da nessuna parte» [*36]. I situazionisti potevano credere nella possibilità di un «superamento dell'arte», perché anni prima del maggio 1968 già si aspettavano una rivoluzione di quel genere.

Queste divergenze non sono dovute solo a una diversa valutazione degli eventi degli anni '50 e '60, ma anche a differenze più profonde nella concezione del processo storico. I rispettivi concetti di scambio e alienazione determinano il ritmo che i due autori attribuiscono al cambiamento storico. Per Debord, come per Lukács, l'alienazione risiede nel predominio della merce sulla vita sociale; ed è quindi legata al capitalismo industriale, e le sue origini non risalgono a molto prima degli ultimi duecento anni [*37]. All'interno di tale periodo, gli eventuali cambiamenti avvenuti da un decennio all'altro sono, ovviamente, di notevole importanza. I cambiamenti che avvengono in un secolo, al contrario, hanno poco peso agli occhi di Adorno, il quale misura gli eventi con il regolo della «priorità dell'oggetto» e dell'«identità». Per lui, «scambio» non significa in primo luogo lo scambio di merci contenenti lavoro astratto - origine del predominio, nella sfera sociale, del valore di scambio sul valore d'uso - bensì uno «scambio in generale» sovra-storico che coincide con tutta la ratio occidentale e il cui precedente è il sacrificio, attraverso cui l'uomo ha cercato di congratularsi con gli dei per mezzo di offerte che presto sono diventate puramente simboliche: questo elemento di inganno nel sacrificio prefigura l'inganno dello scambio. Il baratto, secondo Adorno, è «ingiusto» poiché sopprime la qualità e l'individualità, e questo assai prima che prenda la forma dell'appropriazione del surplus di lavoro, nello scambio ineguale tra forza lavoro e salario. Lo scambio e la ratio occidentale coincidono nel ridurre la molteplicità del mondo a mere quantità distinte di una sostanza indifferenziata, sia essa lo spirito, il lavoro astratto, i numeri della matematica o la materia senza qualità della scienza. Assai spesso si ha come l'impressione che, in Adorno, le specificità delle epoche storiche scompaiano davanti all'azione di certi principi invariabili - quali il dominio e lo scambio - che esistono dall'inizio della storia. La Dialettica dell'Illuminismo colloca l'origine dei concetti identificativi in un passato piuttosto remoto. Se «i riti dello sciamano erano rivolti al vento, alla pioggia, al serpente cosmico o al diavolo dell'inferno, e non a oggetti o individui» (DI, 22), la divisione tra la cosa e il suo concetto si presenta già nel periodo animista, con la distinzione tra l'albero nella sua presenza fisica e lo spirito che lo abita (DI, 29). La logica nasce dai primi rapporti di subordinazione gerarchica (DI, 36), e con un identico «Io» attraverso il tempo inizia l'identificazione delle cose mediante la loro classificazione in specie. «L'unità è la parola d'ordine, da Parmenide a Russell. Si continua ad esigere la distruzione degli dei e delle qualità» (DI, 20): e ciò significa che, oggi come nei tempi presocratici, continua a operare la stessa «illustrazione». A Adorno, doveva sembrare poco meno che impossibile liberarsi dalla reificazione, visto che essa gli appariva radicata nelle strutture più profonde della società, e tuttavia si rifiutava di assumerla come se fosse una costante antropologica o ontologica: «Solo con la non verità si può risospingere la reificazione nell’essere e nella storia dell’essere, affinché si compianga e si consacri come destino ciò che l’autoriflessione e la prassi da essa innescata sarebbero forse in grado di cambiare.» (DN, 95). Il muro che separa il soggetto dall'oggetto non è un muro ontologico, bensì un prodotto della storia che può essere superato sul piano storico: « Se non venisse più sottratta a nessun uomo una parte del suo lavoro vivo, si raggiungerebbe l’identità razionale e la società oltrepasserebbe il pensiero identificante.» (DN, 150). Tuttavia, nonostante tali affermazioni, rimane poco chiaro come sia possibile liberarsi dalla reificazione se, secondo Adorno, essa si trova persino nelle strutture del linguaggio: nella copula «è», il principio di identità si trova già nascosto nella forma dell'identificazione di una cosa che avviene attraverso la sua identificazione con qualcos'altro che non è (DN, 104-108, 151). Nella proposizione predicativa, l'oggetto in questione è determinato attraverso la riduzione a un «semplice esempio del suo tipo o genere» (DN, 149). Se il «sé identico» contiene già la società di classe [*38], se il pensiero in generale è «complice» dell'ideologia (DN, 151), allora trovare una «via d'uscita» sembra un compito piuttosto laborioso. Di conseguenza, Adorno pone al di fuori della storia concreta ciò che si deve aspettare per il futuro: uno «stato di riconciliazione», che egli stesso paragona allo «stato di salvezza» religioso (TE, 16). Alle volte, Adorno sembra insinuare che intorno al 1848 la rivoluzione e la realizzazione della filosofia fossero effettivamente possibili; poi la fusione di forze produttive e relazioni di produzione ha privato lo sviluppo delle forze produttive di ogni potenziale di progresso, e ha reso impossibile ogni prospettiva rivoluzionaria, fino a scatenare una sorta di antropogenesi regressiva. Da allora, c'è stato solo un progresso nell'arte: «Il fatto che l'arte, secondo Hegel, sia stata un tempo il grado adeguato dello sviluppo dello spirito, e che non lo sia più (e questo è ciò che pensa anche Debord), manifesta una fiducia, nel progresso reale della coscienza della libertà, che è stata amaramente delusa. Se è valido il teorema di Hegel sull'arte in quanto coscienza della miseria, allora tale teorema non è nemmeno superato» (TE, 274). La ricaduta nella barbarie e la vittoria definitiva del totalitarismo sono, per Adorno, pericoli sempre presenti; la funzione positiva dell'arte consiste nel rappresentare almeno la possibilità di un mondo diverso, di un libero sviluppo delle forze produttive. L'arte appare, pertanto, come il male minore: «oggi, la possibilità abortita dell'altro si è ridotta a impedire, nonostante tutto, la catastrofe» (DN, 321). Adorno constata una certa invariabilità delle avanguardie: per lui, Beckett ha più o meno la stessa funzione di Baudelaire; e ciò è dovuto all'inalterata persistenza della situazione descritta, vale a dire della modernità. Adorno concepisce l'arte moderna non solo come una tappa storica, ma anche come una specie di categoria dello spirito: cosa che egli stesso ammette quando afferma che l'arte moderna tende a rappresentare l'industria solo mettendola tra parentesi, e che, «Per quel che concerne questo aspetto della modernità le cose sono cambiate così poco come per quel che concerne il fatto dell’industrializzazione in quanto decisiva per il processo vitale dell’uomo; ciò conferisce provvisoriamente al concetto estetico di modernità la sua strana invarianza» (TE, 53). Come conseguenza di questa «strana invarianza», «l'arte moderna appare storicamente come qualcosa di qualitativo, come una differenza rispetto a dei modelli superati; per questo non è puramente temporale: il che ci aiuta anche a spiegare che, da un lato, ha acquisito dei tratti invariabili che vengono spesso criticati, e che, dall'altro, non può essere liquidata come qualcosa di superata» (Paralipomena, p. 404). I situazionisti distinguono una fase attiva e critica della decomposizione formalista dell'arte tradizionale, da un'altra fase che è di vuota ripetizione dello stesso processo. Adorno deve rifiutare una simile distinzione, poiché presuppone una mutazione positiva della società che non ha avuto luogo. Tuttavia, anche Adorno sembra dubitare della continuità dell'arte moderna e, in sua difesa, fa sempre ricorso agli stessi nomi: in primo luogo Kafka e Schönberg, e poi Joyce, Proust, Valéry, Wedekind, Trakl, Borchardt, Klee, Kandinsky, Masson e Picasso; la sua filosofia della musica si basa quasi esclusivamente sulla Scuola di Vienna (Webern, Berg). Quando Adorno parla di «modernità», si riferisce, di fatto, all'arte di quel periodo che va dal 1910 al 1930 - soprattutto all'espressionismo - vale a dire, allo stesso periodo che, per i situazionisti, rappresenta il culmine e la fine dell'arte. Gli artisti e le tendenze artistiche che vennero alla luce dopo la seconda guerra mondiale, a eccezione di Beckett e di pochi altri, non vengono tenuti in gran considerazione in confronto ai situazionisti. Nonostante egli abbia avuto l'opportunità, per ventiquattro anni, di osservare gli artisti del dopoguerra, o li omette - come fa con Yves Klein, Pollock o Fluxus - o li condanna - come fa con l'happening (TE, 140). Il compositore Pierre Boulez ricorda che, negli anni '50, la sua generazione di compositori vedeva Adorno come il rappresentante di un movimento estetico del passato; Adorno, a sua volta, aveva seri dubbi su quella nuova generazione, e scrisse a proposito del«l'invecchiamento della nuova musica» [*39]. E Adorno attacca anche il fenomeno che Debord aveva chiamato la distruzione «bollente» di alcune strutture già decomposte, che viene attuata «al fine, tuttavia, di trarne qualche beneficio» [*40]: «Quando la possibilità di un'innovazione si è esaurita, ed esse continuano a venire perseguite secondo una linea che le ripete, allora bisogna che l'innovazione cambi rotta» (TE, 38). Per Adorno, non c'è alcun dubbio che lo sviluppo delle forze produttive sociali sia arrivato a un punto in cui si riduce a essere un fine in sé. Difficilmente si comprende, quindi, perché una situazione di tale immobilismo, durata un secolo intero, non debba portare finalmente anche a un'analoga immobilita delle forze produttive estetiche. Queste possono continuare la loro evoluzione per un certo tempo, anche in assenza di un progresso parallelo della società nel suo insieme, ma prima o poi quel processo troverà un limite. In effetti, Adorno era assai consapevole della grave crisi dell'arte moderna, e metteva in dubbio il significato di molti degli esperimenti artistici degli anni '50 e '60. Non c'è contraddizione tra questo e il fatto che egli difendesse appassionatamente Beckett, che i situazionisti a loro volta citano, ma al contrario, come un esempio dell'artista che si adagia con compiacenza nel vuoto, dal momento che Adorno descrive Beckett come una fase finale dell'arte, piuttosto che come prova della sua vitalità. Vista a partire da oggi, la differenza di criterio sembra perciò ridursi alla questione di sapere se gli «ultimi artisti» debbano essere situati negli anni '30 o negli anni '50.

Nel 1952, Debord, a vent'anni, presenta il suo film Hurlements en faveur de Sade [*41]. Nel corso della prima mezz'ora, lo schermo rimane alternativamente bianco e nero, mentre si può udire un collage fatto di diversi testi: poi gli ultimi ventiquattro minuti immergono gli spettatori nel buio e nel silenzio più totale [*42]. È curioso come in questo film troviamo tutto ciò che Adorno loda nell'arte moderna, e in particolare in Beckett: l'assenza di comunicazione, l'inganno deliberato delle aspettative del pubblico, che si aspetta che l'opera «attenui l'alienazione» per poi metterlo davanti, al contrario, con un massimo di reificazione (TE, 225) e, infine, la fedeltà al «divieto delle immagini». Il film manteneva, inoltre, il colore raccomandato da Adorno: «Per sussistere in mezzo agli aspetti più estremi e oscuri della realtà, le opere d'arte, che non vogliono vendersi come consolazione, devono corrispondervi. Oggi, arte radicale significa arte oscura, il cui colore fondamentale è il nero» (TE, 60). Eppure è proprio qui che diventa evidente tutta la differenza tra Debord e Adorno. Per Debord, che non peccava certo di eccessiva modestia, con il suo film era stato raggiunto il punto estremo della negazione nell'arte, cui avrebbe dovuto seguire una nuova positività, cosa impossibile per Adorno: «La negazione può essere convertita in piacere, ma non in positività» (TE, 60). Nel 1963, l'Internationale Situationniste scrive, riferendosi al film di Debord, che «l'azione reale dell'avanguardia negativa» non era un'«avanguardia di pura assenza, ma era sempre una messa in scena dello scandalo dell'assenza con lo scopo di chiamare ad una presenza desiderata» (IS, 8/19). Nello stesso articolo, si considera un successo il fatto che alla prima il pubblico si sia infuriato e che prima della fine abbia interrotto la proiezione del film, rifiutando così il  proprio ruolo di consumatore, e allontanandosi quindi dalla logica dell'opera d'arte. I situazionisti rifiutano, in quanto «neodadaismo», quasi tutta la produzione artistica dei loro contemporanei, e la accusano di «adagiarsi sul nulla» [*43], e di essere «un'arte apologetica del bidone della spazzatura» (IS, 9/41). Alla domanda se, nel frattempo, negli ultimi decenni siano state prodotte opere di valore, sia Adorno che Debord rispondono solo con delle semplici affermazioni che sono al limite dell'opinione personale. «La nascita di ogni autentica opera d'arte contraddice l'affermazione che essa non avrebbe potuto più nascere» (TE, 328 ), dice Adorno, mentre Debord assicura, nel suo prologo alla riedizione di Potlatch, che «il giudizio di Potlatch riguardo la fine dell'arte moderna, poteva sembrare troppo esagerato per il pensiero del 1954. Oggi si sa [...] che dal 1954 in poi non è apparso da nessuna parte un solo artista di vero interesse» [*44]. Più fruttuoso sembra essere il confronto sul piano teorico. C'è senza dubbio una certa dose di scetticismo sull'affermazione di Debord, secondo cui la realizzazione diretta delle passioni è in ogni caso preferibile alla loro trasfigurazione artistica; la sua visione ottimistica dell'epoca, circa la possibilità di passare alla «vita reale», è molto meno convincente oggi di quanto lo fosse negli anni '60. Allo stesso tempo, però, non si può negare la situazione aporetica in cui si trova l'arte, come viene sottolineato da Debord, e la cui portata Adorno sembra aver sottovalutato. La logica evolutiva dell'arte moderna è stata quella di un'escalation inarrestabile, e ha portato rapidamente a quegli estremi come la pagina bianca di Mallarmé, il quadrato bianco su sfondo bianco di Malévitch, la poesia onomatopeica e Finnegan's Wake. Adorno lo esprime commentando che, dopo aver visto un'opera teatrale di Beckett, si perde interesse per qualsiasi altra opera meno radicale (TE, 35). In questo modo, non si può più inventare nulla di nuovo nello stesso senso, né si può tornare indietro. Nel trascorrere di questo secolo, il mondo non ha di certo recuperato il «senso» e la «rappresentabilità» che costituivano il contenuto dell'arte tradizionale, e la cui scomparsa era il tema delle avanguardie. La relazione che l'arte moderna ha con lo svolgimento della logica del valore di scambio, era ambigua sotto più di un aspetto. D'altra parte, l'arte moderna ha registrato in maniera negativa la dissoluzione dei modi di vita, delle comunità tradizionali e dei loro modi di comunicazione che hanno avuto luogo dalla seconda metà del secolo scorso. Lo shock dell'«incomprensibilità» voleva evidenziare tale scomparsa. Anche prima delle avanguardie in senso stretto, la nostalgia di una perduta «autenticità» della vita era diventata un tema centrale nell'arte. Dall'altro lato, l'arte vedeva in una tale dissoluzione anche una liberazione di nuove possibilità, e un accesso a orizzonti inesplorati di vita e di esperienza; celebrava un processo che, di fatto, consisteva nella decomposizione delle formazioni sociali pre-borghesi e nella liberazione dell'individualità astratta dai vincoli pre-moderni. A differenza del movimento operaio, l'arte non identificava questi vincoli solo con lo sfruttamento e con l'oppressione politica, ma vedeva inclusi in essi anche la famiglia, la morale, la vita quotidiana, e persino le strutture della percezione e del pensiero. Ma l'arte, come il movimento operaio, non poteva decifrare questo processo di dissoluzione nel senso di una vittoria della monade monetaria astratta, ma credeva [*45] di riconoscere in esso l'inizio di una dissoluzione generale della società borghese, che comprendeva anche lo Stato e il denaro; anziché vederlo come una vittoria delle forme borghesi più avanzate, quali lo Stato e il denaro, sui residui pre-borghesi. E fu così che l'arte moderna preparò inconsapevolmente la strada al completo trionfo della soggettività strutturata dal valore di scambio sulle forme pre-borghesi, e che confuse con l'essenza della società capitalista. Lo sconvolgimento delle sovrastrutture tradizionali - dalla morale sessuale all'aspetto delle città - sembrava all'arte moderna una conseguenza necessaria della rivoluzione delle forme di produzione: una conseguenza a cui la borghesia, tuttavia, si opponeva al fine di conservare il suo potere, e che l'arte tuttavia credeva erroneamente di dover rivendicare. "La destruction fut ma Béatrice" di Mallarmé, divenne realtà in un modo assai diverso da quello che il poeta poteva immaginare. La società capitalista stessa si è fatta carico dell'opera di dissoluzione richiesta dai suoi critici: in effetti, l'apertura di nuove vie e l'abbandono delle forme tradizionali hanno avuto luogo, non per liberare la vita degli individui da coercizioni arcaiche e asfissianti, ma per eliminare tutti gli ostacoli alla trasformazione totale del mondo in merce. La decomposizione delle forme artistiche viene allora resa interamente isomorfa allo stato reale del mondo e non può più produrre alcun effetto shock. L'insensatezza e l'afasia delle opere di Beckett, l'incomprensibilità e l'irrazionalismo non rappresentano più altro che una parte integrante e indistinta dell'ambiente circostante: il loro effetto non è più critico ma apologetico. L'«irrazionalismo» delle avanguardie era soprattutto una protesta contro una «razionalità» falsa e meschina che imprigionava il potenziale umano prefigurato nell'immaginario e nell'inconscio. Ma che senso può avere oggi questo irrazionalismo artistico, quando l'irrazionalismo dell'organizzazione sociale è in piena mostra, e non cerca più nemmeno di nascondersi? Adorno non sembra aver riflettuto fino alle sue ultime conseguenze su tale cambiamento delle condizioni sociali. La sua analisi del lavoro negativo dell'arte formalista rimane valida per le avanguardie storiche, ma non riesce a cogliere ciò che è in gioco oggi. Lukács aveva ingiustamente criticato le avanguardie del suo tempo. Seppure osservava la coincidenza della dissoluzione delle forme artistiche e sociali, egli vedeva nella dissoluzione artistica una semplice apologia del sociale, e non capiva la sua funzione critica. Per un ironico scherzo del destino, tuttavia, il suo verdetto contro gli originali si applica abbastanza bene anche alle tendenze che negli ultimi decenni si sono presentate come se fossero gli eredi di quelle avanguardie. I criteri necessari oggi, non sono certo quelli di Lukács, dato che non si può più parlare di un ritorno alle forme presunte «corrette» dell'epoca pre-borghese. Al contrario, sono stati gli esponenti più consapevoli delle avanguardie i primi a riconoscere che la continuazione del loro compito critico richiedeva una revisione. Quando ad André Breton fu chiesto, in un'intervista del 1948, se i surrealisti del 1925, nel loro desiderio di turbare la pace borghese, non avessero addirittura esaltato la bomba atomica, egli rispose: «In "La lampe dans l'horloge" [...] vedrete che mi sono espresso senza mezzi termini su questo cambiamento fondamentale: l'aspirazione lirica alla fine del mondo e la sua rappresentazione in relazione alle nuove circostanze» [*46]. Nel 1951, in poche e concise parole, Breton esprimeva il cambiamento decisivo che era avvenuto in meno di trent'anni e che da allora - potremmo aggiungere - non aveva cessato di estendersi all'infinito: «In Francia, per esempio, lo spirito si trovava allora minacciato di paralisi, mentre oggi è minacciato di dissoluzione» [*47]. I situazionisti furono i continuatori di tale autocritica dell'avanguardia. La critica di Debord ai surrealisti è, precisamente, in relazione al loro irrazionalismo, il quale serve solo alla società esistente, ed egli pertanto insiste sulla necessità di «rendere il mondo più razionale, cosa che è la prima condizione per renderlo più eccitante» [*48]. Se, nel 1932, i surrealisti avevano presentato le «ricerche sperimentali su certe possibilità di abbellimento irrazionale di una città», da parte sua il gruppo lirico di Debord elabora, nel 1956, un divertente «progetto di abbellimento razionale della città di Parigi» [*49].
La stagnazione e la mancanza di prospettive dell'arte moderna, corrispondono alla stagnazione e alla mancanza di prospettive della società delle merci, la quale ha ormai esaurito tutte le sue risorse. La gloria della prima è passata insieme alla gloria della seconda. Non sarà più soltanto l'arte a decidere se l'arte ha un futuro, e in che cosa consiste questo futuro.

- Anselm Jappe - Pubblicato, in tedesco su Krisis, nº 15, 1995 e in spagnolo su  Mania, nº 1, 1995 -


NOTE:

1 - Le idee dell'Internazionale Situazionista non sono sempre identiche a quelle di Debord; qui vengono citati solo i punti in cui coincidono.

2 - Per "economia" si intende qui, naturalmente, non la produzione materiale come tale, ma piuttosto la sua organizzazione in quanto sfera separata a cui il resto della vita è subordinato. Bisogna notare che questo processo è piuttosto la conseguenza e la forma fenomenica della vittoria della forma-valore nella misura in cui è pura vita sociale.

3  - I riferimenti ai testi più citati sono fatti attraverso delle sigle: SdS = Debord, La società dello spettacolo (1967); IS = International Situationniste, rivista del gruppo omonimo (1958-1969); TE = Adorno, Teoria Estetica, 1970; DI = Horkheimer/Adorno, Dialettica dell'Illuminismo (1947); DN = Adorno, Dialettica Negativa (1966).

4 - Negli ultimi anni, un più ampio uso giornalistico ha diffuso l'espressione "società dello spettacolo" per riferirsi alla tirannia della televisione e a fenomeni simili; mentre invece Debord stesso considera i media solo come la manifestazione superficiale più opprimente dello spettacolo (SdS & 24). Per Debord, la struttura generale di tutte le società esistenti è "spettacolare", comprese quelle dell'Est (una tesi particolarmente audace nel 1967).

5 -  Adorno, Stichwörte (1969), Suhrkamp, Frankfurt, 1989, p. 161.

6 - Adorno, Soziologische Schriften (1972), Suhrkamp, Frankfurt, 1979, p. 13 sq.

7 - Dialettica dell'Illuminismo, ed. al. cit.

8 - Adorno era già giunto a questa conclusione negli anni '30; cfr. Dissonanzen in Ges.Schr., 14, p. 24 sq.

9 - Nessun libro di Adorno è stato tradotto in francese prima del 1974; anno in cui la teoria situazionista era già stata elaborata. Al contrario, sembra che Adorno non abbia avuto la possibilità di conoscere i testi di Debord.

10 - Debord, "Prefazione alla quarta edizione italiana" de La société du spectacle, Champ Libre, Paris, 1979, p. 38.

11 - Adorno, Eingriffe, Suhrkamp, 1963, pp. 69, 74 sq.

12 - Adorno, Ohne Leitbild, Suhrkamp, 1967, 1973, p. 70.

13 - Ivi, p. 68.

14 - Adorno, Primen (1955), Suhrkamp, 1976, p. 30.

15 - Paralipomena: insieme di appunti preliminari per la Teoria estetica che non fu incorporato nell'ultima stesura dell'opera che, come è noto, rimase incompiuta alla morte dell'autore (il testo non compare nella versione spagnola, sebbene sia presente in quella francese - Klincksieck, Parigi, 1989 - e italiana - Einaudi, Torino, 1977. Nota dalla traduzione spagnola).

16 - Raoul Vaneigen, Traité du savoir-vivre à l'usage des jeunes générations, Gallimard, Paris, 1967, p. 8.

17 - Adorno, Minima moralia (1951), Suhrkamp, 1989, p. 207 sq

18 - Adorno, Noten zur Literatur, Suhrkamp, 1974, 1989, p. 444.

19 - Debord, Rapport sur la construction de situations, Parigi, 1957; riprodotto in G. Berréby (ed.), Documents relatifs à la fondation de l' Internationale Situationniste, ed. Allia, Parigi, 1985, p. 607.

20 - Potlatch 1954- 1957, bulletin d'information du groupe français de l' Internationale lettriste, reimp. Ed. Gérard Lebovici, Parigi, 1985, p. 237.

21 - Potlatch, ibid., p. 237.

22  - Per esempio, in Rapport..., op. cit.

23 - Soziologische Schriften, op. cit.

24 - György Lukács, Geschichte und Klassenbeiwusstsein (1923), Luchterchand Neuwied, 1968, p. 237.

25 - Ibidem, p. 118.

26 - Non consideriamo qui, né nel resto dell'articolo, le opinioni parzialmente distinte che Debord esprime nei suoi recenti "Commentaires sur Ia société du spectacle" (1988), Gallimard, Parigi, 1992.

27 - Stichwörte, op. cit.

28 - Ibid. p. 153.

29 - Per esempio, in Noten..., op. cit. p. 126.

30 - Minima Moralia, op. cit.

31 - Stichwörte, op. cit.

32 - Adorno, Philosophie der neuen Musik, Europäische Verlagsanstalt, Frankfurt, 1958, p. 22.

33 - Eingriffe, op. cit.

34 - Stichwörte, op. cit.

35 - Potlatch, op. cit.

36 - Eingriffe, op. cit.

37 - Questo non implica necessariamente una valutazione positiva delle società precedenti che avevano conosciuto altre forme di alienazione.

38 - Stichwörte, op. cit.

39 - In Le Débat n° 50, maggio-agosto 1988, p. 259.

40 - Potlatch, op. cit.

41 - Script in Debord, Oeuvres cinématographiques completes, Champ Libre, Paris, 1978.

42 - Vista la data, si può considerare questo film come un passo importante nella radicalizzazione dell'arte moderna. Debord afferma che il pittore Yves Klein vide la proiezione del film e si ispirò ad esso per la sua successiva pittura monocromatica (Debord, Considérations sur l' assassinat de Gérard Lebovici, ed. Lebovici, Parigi, 1985, p. 46).

43 - Rapporto, op. cit.

44 - Potlatch, op. cit.

45 - A volte esplicitamente, come nel caso dei dadaisti, dei surrealisti, dei futuristi e dei costruttivisti russi; in altri casi, implicitamente.

46 - André Breton, Entretiens, Gallimard, Parigi, 1969, p. 271.

47 - Ibidem, p. 218.

48 - Rapporto, op. cit.

49 - Potlatch, op. cit.

Fonte: Guy Debord

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