martedì 24 maggio 2022

Interferenze !!

Le lettere di questo stupefacente epistolario sono in gran parte indirizzate ad Allen Ginsberg, Jack Kerouac, Paul Bowles e pochi altri, uniti dalla convinzione di essere destinati a qualcosa di grandioso, e guidati dallo stesso Burroughs, guru sui generis e artefice di un «lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi». Seguiremo così el hombre invisible – come lo avevano soprannominato gli arabi – per i vicoli di Tangeri, lo vedremo sperimentare, fino al limite, ogni tipo di droga e cercare ovunque strumenti per scardinare «il film fraudolento» della realtà. Come un ricercatore folle chiuso nel suo laboratorio, che coincide con il cosiddetto mondo, Burroughs si espone a tutti i virus, a partire dalla parola, ma sonda anche altre vie, meglio se astruse e pericolose: dall’orgone di Wilhelm Reich alla dream machine di Brion Gysin, dal mitico yage amazzonico a Scientology. E riesce a sopravvivere. Il racconto di amori, amicizie, avventure esotiche ilari e turpi, prigionie, ricoveri, e perfino dell’uccisione accidentale della moglie, documenta inoltre la nascita di quella singolare forma narrativa che verrà poi identificata con Pasto nudo, dove Burroughs trasforma le sue ossessioni, quasi sempre di carattere sessuale, in brani di una musica verbale distorta, acida, aliena. Rivolgendo il suo occhio clinico in primo luogo verso se stesso, Burroughs coglie anche manie e fobie americane, dal dopoguerra a oggi, patite sulla propria pelle e restituite con gli interessi alla comunità – e l’autoritratto disegnato dalle lettere si rivela così un’impietosa radiografia del suo paese.

(dal risvolto di copertina di: William S. Burroughs, "Il mio passato è un fiume malvagio. Lettere 1946-1973". Adelphi, € 24,00 )


Racconto epistolare di vite stupefacenti
- di Raffaele Liucci -

«Credo che gli Usa si stiano trasformando in uno stato di polizia di stampo socialista non troppo diverso dalla Russia»; «Credimi, socialismo e comunismo sono sinonimi ed entrambi sono il male assoluto, e lo Stato assistenziale è il cavallo di Troia». Siamo alla vigilia del Natale 1949, a Città del Messico. Chi scrive al poeta Allen Ginsberg non è un reazionario anticomunista musclé, ma William S. Burroughs (1914-1997), uno dei padri della Beat Generation, il movimento politico-culturale che farà di tutto per smascherare l’ipocrisia del sogno americano. Anticonformista anarcoide, pecora nera di una agiata famiglia di Saint Louis nota per la produzione di macchine calcolatrici, Burroughs era ossessionato «dalle interferenze» dello Stato «negli affari di ogni singolo cittadino», come spiegherà qualche giorno più tardi allo scrittore Jack Kerouac. Per fortuna il Messico, dove si era trasferito in fuga da un mandato di cattura per traffico di stupefacenti, era libero dalla «tirannia piagnucolosa formata da burocrati, assistenti sociali, psichiatri e rappresentanti sindacali». È in Messico che Burroughs inizia a lavorare alla Scimmia sulla schiena, in cui racconta con linguaggio freddo e analitico la storia della sua tossicodipendenza e i tanti personaggi macabri e stravaganti incrociati negli anni. Se Ginsberg lo trova un memoir autoassolutorio, lui replica: «Non giustifico niente con nessuno. Di fatto il libro è l’unico racconto veritiero che abbia letto sui veri orrori della droga». Uscito nel 1953 sotto lo pseudonimo di William Lee, resterà una delle sue rare opere non sperimentali, scritte con linguaggio piano e scorrevole. Nel frattempo, aveva dovuto lasciare precipitosamente il buen retiro messicano, dopo aver ucciso la moglie sparandole per sbaglio alla testa mentre giocavano a Guglielmo Tell durante una festa alcolica. «Senza la morte di Joan», spiegherà in seguito, «io non sarei mai diventato uno scrittore», trasfigurando sulla carta i propri demoni.

«Burroughs non conosce noia», osserva Ottavio Fatica nella postfazione a questo epistolario, che raccoglie soprattutto lettere indirizzate agli altri due santoni della Beat Generation, ossia i già citati Allen Ginsberg (il più impegnato politicamente, del quale diventerà anche amante) e Jack Kerouac (il più talentuoso). Ma ci sono anche Brion Gysin (artista poliedrico, inventore della Dream Machine, una lampada rotante psichedelica) e Truman Capote (destinatario di una lettera feroce). Forse la maggior opera di Burroughs è stata proprio la sua vita raminga e convulsa, interamente dedita – per dirla con Rimbaud – a un «lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi». Da un lato la droga, della quale fu sin dalla giovinezza un consumatore metodico, come può esserlo un ricercatore che si inietta un virus per osservarne i risultati; dall’altro il sesso, vissuto liberamente in un’epoca in cui gli omosessuali non erano ancora usciti dalle catacombe (nelle sue lettere, molti crudi episodi al riguardo). Dopo il Messico, è la volta del Sud America, fra Colombia e Perù, dove Burroughs organizza una spedizione nella giungla amazzonica alla ricerca dello yage, il leggendario allucinogeno dai poteri telepatici. «Non è paragonabile a nient’altro», confessa a Ginsberg: «Non è la sferzata chimica della coca, l’orribile lucida stasi asessuata della roba, l’incubo vegetale del peyote, o l’ilare stupidità dell’erba. È un folle e soverchiante stupro dei sensi» (il loro romanzo epistolare ’lisergico’ sarà raccolto nel volumetto Le lettere dello yage, 1963, ora disponibile, come tutti i principali titoli di Burroughs, per i tipi di Adelphi). Altrettanto conturbanti sono i luoghi varcati. Lima è «una città di spazi aperti, terreni coperti di merda e parchi enormi, avvoltoi in cerchio nel cielo violaceo e ragazzini che sputano sangue nelle strade».

Nel 1954 Burroughs approda a Tangeri, «il polso sintomatico del mondo», «l’unico posto che mi fa venir voglia di restare invece di essere da un’altra parte», scrive a Ginsberg e Kerouac. Città di rinnegati ed espatriati, dove tutto era permesso, Burroughs vi si aggira come un «uomo invisibile» (così viene soprannominato dalla gente locale). Conosce Paul Bowles (autore del Tè nel deserto, da cui Bertolucci trarrà nel 1990 l’omonimo film), Timothy Leary (lo psicologo di Harvard, guru dell’Lsd) e Brion Gysin, che lo introdurrà al cut-up narrativo, una sorta di montaggio casuale di testi dalla provenienza più disparata. Sono gli anni del travagliato laboratorio del Pasto nudo, pubblicato a Parigi nel 1959, il suo libro più celebre. «La forma del romanzo», preannuncia nel 1954 a Kerouac, «è del tutto inadeguata a esprimere quel che voglio dire». Infatti ne uscirà un libro impossibile, paranoico, scandaloso, racconto stralunato dell’inferno di un tossicomane. Ma anche – ha osservato Fernanda Pivano – «spietata, sadica satira di qualsiasi genere di totalitarismo». Giudicato da Bobi Bazlen, in un parere per Einaudi, «assolutamente impubblicabile» per la sua «sfilza ininterrotta di oscenità», in Italia uscirà nel 1964 con SugarCo. Gli anni Sessanta segnano il ritorno in Occidente, fra Parigi, Stati Uniti e Londra, dove grazie a un medico riesce a disintossicarsi dalla droga, la sua musa. Nel 1973 si stabilisce a New York, andando a vivere in un appartamento senza finestre, soprannominato «il bunker». I suoi libri, pur non vendutissimi, hanno esercitato grande influenza su artisti come David Bowie, Lou Reed e Patti Smith. Quando, nel 1983, il «fuorilegge della letteratura» è ammesso all’American Academy of Arts and Letters, lui commenta al vetriolo: «Quella gente vent’anni fa andava dicendo che il posto più adatto per me era la galera. Adesso vanno fieri che io appartenga al loro gruppo. Non li ho mai ascoltati prima e non gli darò certo retta adesso». Dopo aver trascorso una vita «stupefacente», Burroughs si spegne il 2 agosto 1997, per infarto, alla bella età di 83 anni. Viene sepolto insieme alla sua «38 special» a canna corta, che di notte teneva sotto il cuscino.

- Raffaele Liucci - Pubblicato su Domenica del 17/4/2022 -

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