sabato 22 settembre 2018

Aperture

abbecedario

(immagine: Benton Murdoch Spruance - The People Work - Night, 1937, Litografia)

Capitalismo, società aperta?
- Abbecedario critico -
di Anselm Jappe

Il capitalismo ha sempre mirato a presentarsi come una forma di «apertura». Il suo discorso rigurgita di metafore a proposito dell'aperto. Bisogna aprire dei nuovi mercati e rendere così accessibili gli ultimi territori che non sono ancora sufficientemente collegati ai centri capitalisti. Si cercano dei dipendenti che abbiano una mentalità aperta, e bisogna evitare soprattutto quelle realtà che si chiudono su sé stesse. La rivoluzione scientifica del XVII secolo, una delle basi storiche del capitalismo, è stata definita come il passaggio dal «mondo chiuso all'universo infinito», ed il colonialismo è stato descritto come l'apertura degli europei verso il resto del mondo. Le città hanno abbattuto le loro mura, e le frontiere, quelle doganali e le altre, poco a poco sono state abolite. Essere aperti alle novità, è la condizione sine qua non per partecipare alla società capitalista, e l'auto-definizione preferita del capitalismo è quella di «società aperta», lanciata da Karl Popper.

Questa apertura a qualsiasi prezzo corrisponde davvero alla realtà? Sarebbe facile rispondere ricordando quei numerosi fatti storici e contemporanei che ci dicono il contrario. La nascita del capitalismo si è basata sul confinamento e sulla reclusione di una parte della popolazione nei manicomi e nelle prigioni, nelle fabbriche e nelle case di lavoro. Al giorno d'oggi, esistono alcune frontiere che sono più chiuse che mai, e non solo quelle fra gli Stati. Ai migranti, i paesi ricchi appaiono come un mondo chiuso su sé stesso: si parla della «fortezza Europa». Al posto delle mura medievali che circondano le città, troviamo dei muri ben più lunghi fra alcuni paesi, ma anche fra i differenti quartieri di una città. Il capitalismo è certamente una società dinamica, legata al progresso, alla crescita, alle novità, al cambiamento, e persino alle «rivoluzioni», con una sorprendente capacità di trarre beneficio dai suoi nemici, nei confronti dei quali si mostra, a lungo termine, assai aperta. Molti degli oppositori del capitalismo si sono anch'essi definiti come «progressisti» ed hanno definito il capitalismo come «conservatore» e «reazionario», che resiste ad ogni cambiamento e che rimane immobile. Si sono sbagliati, e di molto; hanno confuso il capitalismo con i compromessi che esso, nelle sue prime fasi, ha dovuto fare con le logiche feudali del vecchio regime, nonché con una certa tendenza, che riemerge sempre fra le élite, a vivere di rendita. Ma la sua logica profonda è quella dell'accumulazione incessante di capitale, quella del «sempre più», e per arrivarci, bisogna rivoluzionare continuamente sia la produzione che la circolazione. Il cambiamento instancabile e senza posa risiede quindi nella natura stessa del capitalismo, mostrando una tendenza all'accelerazione sempre più in aumento. Ecco perché ha bisogno, a tutti i livelli, di persone che mostrino una mentalità talmente aperta da essere sempre pronti a dimenticare quello che hanno fatto il giorno prima, in modo da poterlo sostituire con un altro approccio. Infatti, la «flessibilità» è diventata la qualità più ricercata al fine di avere successo nella vita capitalistica.

Quello che i portavoce di una simile logica hanno rimproverato, e continuano a rimproverare, a tutti quelli, come i contadini e le popolazioni extra-europee, che non partecipano abbastanza a questa marcia in avanti, è la loro mentalità «arcaica», «immobile», «chiusa». E se questi non vogliono aprirsi, allora li si obbliga: tutta la lunga storia della colonizzazione esterna ed interna attuata attraverso la logica capitalista, è consistita nell'apertura forzata, per mezzo della violenza o della persuasione, di quelle realtà «chiuse» che bastavano a sé stesse e che preferivano l'auto-sussistenza al mercato globale, il pesce pescato davanti casa ai pesci surgelati, il bar del villaggio alla televisione, i pascoli comunali al lavoro in fabbrica, l'accoglienza in famiglia alla casa di riposo,la festa di quartiere alla discoteca, gli oggetti durevoli all'obsolescenza programmata, l'allattamento al seno al latte Nestlé.

C'è anche un altro scheletro nell'armadio: il capitalismo è indissociabile dall'estensione delle proprietà privata in dei settori sempre nuovi e dall'abolizione di tutte le forme precedenti di proprietà collettiva. Quando i prati «aperti» vengono venduti e lottizzati e recintati (uno degli elementi essenziali per la nascita del capitalismo), quando l'acqua diventa proprietà di una compagnia privata, quando delle piante e dei geni vengono brevettati e viene vietato agli agricoltori di utilizzare le loro proprie sementi, vuol dire che ci troviamo in una situazione che è esattamente il contrario di quell'apertura sempre proclamata. Senza contare il fatto che la mancanza di rispetto nei confronti delle «recinzioni» può facilmente condurre gli individui verso una forma molto diretta di «reclusione».

Comunque, c'è ancora un altro livello, più astratto e più fondamentale, nel quale l'apertura di cui si vanta il capitalismo smentisce sé stessa. Un'apertura, che se non vuole essere fine a sé stessa, deve sfociare in un cambiamento qualitativo. Ora, se l'ordine capitalistico è fondato sul cambiamento perpetuo, allo stesso tempo esso consiste in un eterno ritorno dello stesso. Non si scambia un valore d'uso contro un altro valore d'uso, nella loro infinita diversità, per soddisfare bisogni e desideri, seppure molto differenziati. Si scambiano semplicemente delle quantità di valore di mercato, creato dal lato astratto del lavoro, il quale è sempre uguale a sé stesso, in quanto consiste di mero tempo di lavoro. Tali quantità di valore vengono rappresentate nel denaro, di cui si conosce l'indifferenza rispetto alla qualità: si tratta di pura quantità. Si investono cento euro per prelevarne centodieci; la produzione di valori d'uso e la soddisfazione dei bisogni non sono altro che una tappa intermedia, del tutto subordinata alla crescita del valore di mercato. All'inizio e alla fine del processo produttivo, ritroviamo sempre la stessa cosa: il valore sotto la sua forma di denaro, e le differenze non sono altro che quantitative. Questo processo può essere descritto come «tautologico».

Non accadrà niente di nuovo, solo più dello stesso (e non sempre). L'apertura di cui si vanta il capitalismo ricade perciò nel circolo chiuso, nel circolo vizioso, nella ripetizione: ancora una volta, la vecchia dialettica ha mostrato la sua utilità.

- Anselm Jappe - Articolo apparso sulla rivista Esprit n°445, giugno 2018, pp.61-63.

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

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