lunedì 3 settembre 2018

Il rosso della rabbia e la dolceamara invincibile belva

Guidorizzi

Le passioni colorano emotivamente l’esistenza e vengono vissute come un’esperienza travolgente. La Grecia antica ha riconosciuto la loro importanza e le ha rese protagoniste dei poemi epici e delle tragedie. L’ira, l’amore, l’odio, la paura, il desiderio sono tra le grandi passioni che dominano Achille, Edipo, Medea e gli altri eroi cantati da Omero, dai tragici e dai lirici greci. Sono moti della psiche ambivalenti, ma viverli – e a maggior ragione osservarli in scena, provando pietà e terrore – favorisce la conoscenza delle sfere più nascoste della mente. Concepite come forze che si impossessano dell’anima, le passioni erano subite dagli eroi del mito che le incarnavano. Furono però variamente considerate: ora come effetto dell’intervento divino, ora come sintomo di un conflitto interiore dell’individuo, ora come ostacolo al predominio della ragione sull’irrazionalità. Giulio Guidorizzi passa in rassegna alcuni dei più affascinanti miti greci per scoprire quale significato quelle passioni possano avere tuttora o come ne sia mutata l’interpretazione, a partire da alcune diventate emblematiche, come quella di Edipo riletta dalla psicoanalisi.

(dal risvolto di copertina di: Giulio Guidorizzi: I colori dell'anima. I Greci e le passioni, Raffaello Cortina)

Ira, vendetta, amore, pietà: la civiltà è fatta di passioni
- di Giuseppe Conte -

Gli antichi Greci, che senza nessun supporto tecnologico giunsero a sviluppare una conoscenza così profonda delle cose da inventare filosofia, storiografia, tragedia e infine l'idea di democrazia, mostrarono verso le passioni un atteggiamento ambivalente. Da una parte le videro con Plutarco come cicatrici e lividi dell'anima, come macchie da cui era necessario che ciascuna anima si purificasse: le macchie scure erano effetto della avarizia e della cupidigia, quelle rosse della crudeltà e della ferocia, quelle gialle della sottomissione al piacere, quelle violacee della malvagità e dell'invidia. La loro filosofia, dal Platone della Repubblica e da Aristotele sino agli epicurei e agli stoici, condannava le passioni: Platone giunse anche ad espellere dalla sua comunità ideale la forma d'arte in cui esse più liberamente si esprimono, che è la poesia. E dall'altra parte le divinità del loro politeismo, per la prima e unica volta nella storia della nostra civiltà, esprimevano e glorificavano tutte le passioni, le più sublimi ma anche le più violente, quelle che oggi fanno inorridire i modesti cultori della correttezza politica delle università americane, dove è stato persino proposto di mettere le braghette a eroi e eroine delle Metamorfosi di Ovidio.
Per capire come i Greci concepirono le passioni, può oggi fare da guida il saggio di Giulio Guidorizzi, I colori dell'anima. I Greci e le passioni (Raffaello Cortina, pagg. 238, euro 19). L'Iliade, e in misura minore l'Odissea, hanno come rumore di fondo quello delle più travolgenti passioni. A cominciare dall'ira (ménin), parola con cui comincia il poema omerico dove giganteggia Achille, capace di sentire le passioni nella loro forma più elementare e dirompente: l'ira da una parte, che lo porta a fronteggiare il capo supremo Agamennone, a coprirsi di cenere la testa e a sfigurarsi il volto alla morte di Patroclo, a straziare orrendamente il cadavere di Ettore, ma dall'altra parte la sofferenza, il pianto, la pietà, con la quale riceverà il vecchio Priamo nella sua tenda e gli restituirà la salma del figlio. Tutto è gigantesco in Achille: le passioni in lui non sono un semplice stato d'animo, ma un soffio vitale, simile a quello che percorre dalle origini la materia dell'universo. Ulisse, al suo confronto, ha passioni più sottili, che devono confrontarsi con la parte razionale di se stesso. Ma anche lui, «il molto accorto», l'eroe paziente e dalla mente astuta, prova la potenza dell'ira quando la notte prima della vendetta sui Proci li vede banchettare e giacere con le ancelle della sua reggia di Itaca, e la dolcezza della pietà e del pianto, quando ritrova il padre Laerte.
Agli eroi omerici, estranei a ogni interiorità, succedono quelli della tragedia, che sono tratti dallo stesso materiale mitologico di Omero, ma prendono una diversa consistenza, più auto-consapevole, vivendo dentro di sé una lotta aspra tra la libertà e la necessità, tra gli impulsi individuali e la legge. Sono molti personaggi femminili a incarnare le passioni più distruttive: odio, vendetta, gelosia, terrore. Proprio quelle da cui Aristotele sostiene che bisogna liberarsi, attribuendo alla tragedia una funzione catartica. Pensiamo a Medea, che arriva a uccidere i figli per vendicarsi dell'abbandono di Giasone, a Clitennestra, che sacrifica il marito Agamennone, a Fedra, accecata dall'amore per Ippolito, a Antigone, che contrappone la legge primigenia del sangue a quella della sua città e della storia.
Ma l'eroe in cui le passioni più si affollano è Edipo: in lui vediamo ira, aggressività, volontà di potere, voluttà di annientamento e auto annientamento: anche se la sua passione più forte, e la più nuova, è per lui quella della conoscenza, l'ansia e la brama di sapere. Con essa ha risolto l'enigma della Sfinge. Invece è proprio nel buio del non sapere che ha ucciso Laio, suo padre, e che si è unito incestuosamente con Giocasta, sua madre. Quel buio lo dà ai suoi occhi accecandosi con una fibbia della veste di Giocasta suicida. Si punisce, ma tutto il male che ha commesso lo ha commesso senza saperlo, è innanzi tutto una vittima: e in lui la potenza dell'inconscio diventa coscienza.
La passione più oscura e travolgente, sin dalle origini dell'universo, è per i Greci quella di Eros, che nasce da Chaos, vortice primigenio della materia che non ha ancora forma. Poi, come racconta Esiodo nella Teogonia, vengono la Terra, Gea, e il Cielo, Urano, congiunti dalla incommensurabile energia erotica del loro coito. Il delitto cosmico di Crono, che vive chiuso nelle viscere di Gea sinché lei gli chiede di evirare il padre, schiude tutte le diverse forme che la vita prende sul pianeta: e dal fallo di Urano gettato in mare, dal suo seme e dalla spuma nasce Afrodite, la dea della generazione, della rinascita primaverile e dell'amore. È Afrodite, «tessitrice di inganni», che spinge Elena ad abbandonare la famiglia per seguire Paride, obbedendo a quella «dolceamara invincibile belva» che secondo Saffo è l'amore. A cui, nel Fedro e nel Simposio, anche Platone paga il suo tributo, riconoscendogli quella potenza, oscura, vivificante, meravigliosa, vicina alla follia, che i poeti non hanno mai smesso di cantare.

Giuseppe Conte - Pubblicato sul Giornale del 29/11/2017

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