Saremo sempre schiavi dei miti
- di Alberto Manguel -
Gli dei e gli eroi dell’antica Grecia alimentano ancora la nostra vita quotidiana. Nei modi di dire (“tallone d’Achille”), nella musica pop (Venus degli Shocking Blue), nei titoli dei giornali (“L’Odissea della Nato”), negli epiteti rivolti ai personaggi famosi (“l’Adone della moda”), nel gergo psicologico o politico («essere narcisisti», «affrontare una fatica di Ercole»), negli eufemismi (“il regno di Poseidone”), nei toponimi (“Champs Elysées”), in astronomia (i nomi dei corpi celesti), nelle insegne dei negozi e nei marchi (“Hotel Mercure”): in tutti questi campi la mitologia contraddistingue il modo in cui nominiamo il mondo. Forse non sappiamo esattamente chi sia Medusa, ma comprendiamo l’espressione francese être medusé. Può sfuggirci la trama esatta della tragedia di Edipo, ma nel “complesso di Edipo” coniato da Freud riscontriamo una precisa descrizione del figlio mammone della vicina di casa. Possiamo ignorare chi fossero i Titani e le loro imprese, ma siamo concordi nel pensare che una nave battezzata Titanic dovesse essere gigantesca. In qualche modo, i miti greci restano presenti nella nostra lingua e nel pensiero anche oggi, nonostante l’incessante perdita di prestigio dell’atto intellettuale. Le nostre scuole possono non richiedere più uno studio del mondo antico, ma l’immaginario collettivo rifiuta di rinunciare alla presenza di ciò che la nostra fantasia ancestrale ha immaginato per noi. Come società possiamo anche aver deciso di inseguire il benessere materiale e il profitto economico sopra ogni altra cosa, di fare del linguaggio univoco della propaganda una virtù, e di dar più valore all’istantaneità dell’informazione rispetto a ciò che richiede riflessione prolungata, ma immediatamente al di fuori delle mura che abbiamo eretto per difenderci dalla complessità e dall’ambiguità, antiche storie di amore e vendetta, di nascite straordinarie e terribili morti, di metamorfosi e fondazioni, di maledizioni e ricerche continuano a ossessionarci. I classici del mondo antico greco e romano (tra gli altri) ci hanno donato non solo una raccolta di racconti ben conosciuti, originati da remote fantasie poetiche, il complesso intreccio delle imprese di dei ed eroi che nutre l’immaginario collettivo. Né si tratta di una semplicistica traduzione delle prime esperienze degli eventi naturali compiute dall’umanità. L’insieme dei classici è diventato un tentativo coerente di riprodurre, attraverso una logica poetica, l’osservazione di una corrispondenza tra gli eventi naturali e quelli della società in cui viviamo, un poderoso sistema di pensiero, una sapienza che Giambattista Vico ha definito «non ragionata ed astratta qual è questa degli addottrinati, ma sentita ed immaginata quale dovett’essere di tai primi uomini». Il pensiero classico è una forma di pensiero sociale. Secondo Robert Graves, prima delle invasioni elleniche agli albori del secondo millennio avanti Cristo, l’Europa non aveva molteplici divinità, ma adorava un’immortale e onnipotente Grande Dea comune, che sovrintendeva al cambio delle stagioni, alla crescita delle messi e al miracolo della nascita. Le divinità maschili importate dagli invasori vennero via via ammesse nel regno dell’unica dea femminile e, attraverso varie fasi, si moltiplicarono e trasformarono nella variegata comunità di dei e dee che finirono per prendere dimora sul Monte Olimpo. Iniziando a narrare le loro storie nel IX secolo a.C., Omero presentò ai greci (e a tutte le generazioni a venire) una versione poetica del risultato di quelle lunghe relazioni che derivava da una visione “europea” del mondo, e contribuì a sua volta a definirla. E questa, nel suo senso più profondo (anche se gli antropologi odierni rifiutano questa idea), è universale. Il mito di Antigone serve a dar ragione della tragedia della guerra non solo nell’antica Grecia, ma anche nella Francia occupata, in Iraq, in Afghanistan e nell’ex Jugoslavia, grazie alla rappresentazione delle sue svariate versioni, da Sofocle a Hölderlin, a Cocteau ad Anouilh. Il mito di Ulisse ci parla di tutti i nostri viaggi, dalla ricerca di una casa al cammino infinito dell’esule – da Omero al Troilo e Cressida di Shakespeare, al celebre sonetto di Du Bellay, a Omeros di Derek Walcott fino, soprattutto, all’Ulisse di Joyce – ma anche del bisogno di cercare nuove imprese, nel mito reinventato da Dante e ripreso da Tennyson e Nikos Kazantzakis. Il mito della famiglia degli Atrìdi pervade il teatro di Atene con la sua summa del nostro destino umano e riecheggia senza fine quando si leggono le diverse versioni di Ifigenia di Goethe, Il lutto si addice ad Elettra di Eugene O’Neill, Le mosche di Sartre, Cassandra di Christa Wolf e La riunione di famiglia di T.S. Eliot. Raymond Queneau ha affermato, nella prefazione a Bouvard e Pécuchet che «ogni capolavoro letterario è un’Iliade oppure un’Odissea». Ogni cultura e ogni era dona ai racconti classici una particolare importanza o valore, li deride o li sublima, li disseziona o li ricostruisce. Anche quando una cultura volta loro le spalle, essi rifiutano di sparire e aleggiano sull’immaginario del subconscio con le loro narrazioni implacabili.
- Alberto Manguel. Pubblicato su Repubblica del 12/6/2019 -
2 commenti:
Non amo i miti e non per presunzione. Non li amo perché siamo tutti poveri esseri umani. Non credo a nessuno e a nessuno mi affido.
Amo i miti proprio perché solo grazie ad essi, con i loro dei umani, riesco a sopportare la "povertà" degli uomini. Forse perché nel fondo del mio cuore nemmeno a loro credo, né tanto meno a loro mi affido.
Posta un commento