Invenzione, centralità e fine del lavoro
- di Michel Freyssenet -
Sebbene ci sembri inerente alla condizione umana, il lavoro appare essere non solo come una parola ed un concetto storicamente datato, ma anche come una realtà inventata, costruita nel 18° secolo europeo. Esso corrisponderebbe all'emergere sia del rapporto salariale che del lavoratore libero che vende la sua capacità di lavorare. La diffusione e l'egemonia progressiva di questo rapporto sociale, che si traduce nel fatto che è diventato la base ed il riferimento per percepire, pensare ed organizzare ogni altra attività, avrebbe avuto come conseguenza un'estensione del termine lavoro anche alle attività che non riguardano il rapporto salariale, come il «lavoro domestico», il «lavoro autonomo»... Ne sarebbe risultata una naturalizzazione del lavoro, da allora in poi percepito come una realtà universale esistente da sempre. Così come è avvenuto per l'economia, avremmo proiettato sul passato e sulle altre società questa realtà contemporanea, e che in origine era anche geograficamente circoscritta, che è il lavoro, anziché riconoscere quali sono state le condizioni storiche, e non necessarie, che lo hanno fatto emergere tre secoli fa. Non sarebbe stato nemmeno socialmente necessario fin dall'inizio, come è poi divenuto al giorno d'oggi in quanto condizione di accesso alle risorse necessarie alla vita nelle nostre società. Se la sua storicità implica un giorno in cui logicamente avverrà la sua scomparsa, ragionevolmente questo non può essere pronosticato in un avvenire immediato, in quanto ciò presuppone la marginalizzazione del rapporto sociale che lo ha fatto nascere.
Se da qualche tempo, nelle scienze sociali, viene usata volentieri l'espressione «invenzione di...», per indicare il carattere storico e localizzato del concetto di cui si parla, come per esempio il mercato o la disoccupazione, potrebbe apparire più azzardato utilizzarlo per il lavoro, poiché questo appare essere come consustanziale alla condizione umana. Eppure, tuttavia, la questione va esaminata.
Il lavoro ed il dominio economico a cui esso è collegato verrebbero definiti e delimitati , dopo l'eliminazione delle particolarità che essi rappresenterebbero in ciascuna delle società conosciute, per mezzo delle attività che contribuiscono alla riproduzione materiale della vita umana e sociale. Il lavoro sarebbe quel momento che consente all'uomo di ottenere, direttamente o indirettamente attraverso lo scambio o un equivalente generale, ciò che all'uomo è necessario per vivere nella società in cui si trova. L'economia come il lavoro esisterebbero in qualche modo, indipendentemente da ogni rapporto sociale per organizzarlo, dal momento che nel corso della storia, ed in seno a ciascuna società, potrebbero farlo attraverso dei rapporti sociali differenti. La riproduzione materiale, percepita dal nostro senso comune e dal pensiero economico - che esso sia d'ispirazione classica o marxista - come il minimo indispensabile ad ogni esistenza umana, l'attività economica ed il lavoro, e di conseguenza le relazioni sociali che le vengono attribuite, si trovano ad essere investita di una preminenza su quelle che sono tutte le altre attività, e su tutti gli altri rapporti sociali. Questa rappresentazione dell'economia e del lavoro, della loro universalità e della loro importanza in ogni società, attraverso le relazioni sociali che le avrebbero storicamente strutturate, diventa problematica per molteplici ragioni [*1].
1. - Il lavoro non è sempre esistito. È stato inventato
Sono due gli argomenti che lo suggeriscono: l'assenza del termine e del concetto di lavoro presso numerose società; l'obbligo a dover ammettere l'ipotesi dell'«homo faber» in modo da poter fondare l'universalità del lavoro.
1.1. - Solo le nostre società distinguono il lavoro dalle altre attività
La ricerca condotta da Marie-Noëlle Chamoux [*2] sulle realtà di cui sopra e sulle parole che in numerose società sono state tradotte con il termine «lavoro», risulta inquietante per una visione universalista del lavoro. Avviene che, o termine ed il concetto sono assenti, oppure confliggono coinvolgendo più parole e realtà, o i loro contrari non sono né il riposo né il tempo libero, oppure includono indissolubilmente ed esplicitamente degli atti magici o religiosi, oppure, arrivano perfino a non includere attività che sono tuttavia necessarie alla vita materiale, come la caccia... Il concetto di dolore, di sofferenza che d'altronde troviamo che in numerose società esso non presenta alcuna omogeneità, né per quel che riguarda la definizione, ne per quel che attiene alle attività in tal modo designate. La categoria di lavoro si rivela dunque difficilmente comprensibile empiricamente. Marie-Noëlle Chamoux pone perciò la domanda: si può dire che il lavoro esiste sono quando esso non viene né pensato né vissuto come tale?
Oggi, gli storici e gli antropologhi sembrano essere pressoché unanimi nel dire che l'economia, la produzione, il lavoro... così come non li intendiamo nella nostra società, sono dei concetti e dei domini che si sono chiaramente costituiti a partire dal 18° secolo in Europa, insieme alla differenziazione di un mercato capitalista all'interno del mercato che gli preesisteva. Prima, l'economia, la produzione, il lavoro erano, come dire, incastrati, mescolati alla politica e alla religione, oppure fusi con essi. Possiamo provare ad immaginare questo incastro dell'economia e del lavoro facendo riferimento, ad esempio, alla sfera familiare, così come la conosciamo oggi. Ci sono numerose attività che sono ancora indissolubilmente legate all'educazione, all'affetto, alla riproduzione materiale, alla sottomissione, alla gratitudine, ecc., dimensioni caratteristiche della sfera stessa e del rapporto sociale che costituisce tale sfera e la rende definibile. A partire da questa constatazione comune, gli orientamenti di ricerca divergono.
Karl Polanyi, riprendendo e sviluppando le osservazione precedentemente fatte da Karl Marx e da Max Weber, soprattutto sul carattere «non-segregato» degli aspetti economici rispetto agli altri aspetti della vita in tutte le società diverse dalla nostra [*3], concludeva che non esiste una definizione «concettuale» universale dell'economia. Ogni epoca conosce delle forme economiche distinte. D'altra parte, riteneva che si possono dare delle definizioni «sostanziali» dell'economia, della produzione e del lavoro che siano valide per tutte le società conosciute: vale a dire, l'attività necessaria alla vita materiale dell'uomo e della società. Ma quest'attività, distinta dalle altre o ben incastrata nelle altre, non è tuttavia per sua natura necessariamente determinante per le altre attività. Può avere, secondo le epoche, un peso assai variabile sulla vita sociale in generale. In quest'occasione, Karl Polanyi denuncia l'economicismo che secondo lui aveva invaso le scienze storiche e sociali.
Maurice Godelier, nel suo libro "L'ideale e il materiale. Pensiero, economie, società" [Editori Riuniti, 1985], riprende la tesi polanyana della mescolanza dell'economia nel tessuto sociale di numerose società, ma senza condividerne le conclusioni. Egli scrive che questo consente, al contrario, di riesaminare il concetto marxista di relazione sociale di produzione, e di liberarlo da ogni riferimento ad una qualche società particolare, soprattutto alla nostra società, la quale ha autonomizzato l'economia. Questo ci permette soprattutto di comprendere, contrariamente a quanto viene affermato dallo stesso Polanyi, perché dei rapporti sociali ritenuti sovrastrutturali, come la parentela o come le relazioni politiche, abbiano potuto fondare ed organizzare l'intera società. La produzione viene inserita in queste relazioni e di conseguenza queste ultime svolgono la funzione di rapporti di produzione. Ciò grazie anche all'eccezione costituita dalla società capitalista occidentale, a partire dalla fine del 18° secolo, che ha fatto emergere l'economia e l'ha designata come tale, rendendo così possibile «comprendere l'importanza delle attività materiali e delle relazioni "economiche" nel movimento di produzione e di riproduzione delle società...» [*4]. Il fatto che le relazioni economiche una volta autonomizzate appaiano determinanti nella vita sociale, sarebbe la prova che le relazioni politiche e i rapporti simbolici su cui si reggono alcune società potevano farlo solo perché tali relazioni politiche e rapporti simbolici integravano anche le relazioni sociali di produzione. Il ragionamento seguito da Maurice Godelier [*5], diversamente da Karl Polanyi, riconduce perciò i rapporti sociali di produzione alle basi di ogni società.
Louis Dumont, da parte sua, propone di sviluppare la tesi polanyana fino a che non gli sembri arrivata alla sua fine logica: vale a dire, rinunciare definitivamente ad ogni economicismo, anche per quanto riguarda la nostra società, e «rifiutare fino all'ultimo la compartimentazione che la nostra società - ed essa sola - propone, e anziché cercare nell'economia il senso della totalità sociale - cosa alla quale Polanyi si è certamente opposto - cercare invece nella totalità sociale il senso di ciò che per noi è la nostra economia» [*6].
Infatti, molti antropologhi considerano che laddove la storia comincia, la cultura è già presente. La produzione è simbolica da cima a fondo. La società borghese, prima di essere un'economia, è innanzitutto una cultura. «Considerare come vantaggioso la scambio per entrambe le parti ha rappresentato un cambiamento fondamentale e ha segnalato l'accesso alla categoria economica» [*7].
Possono perciò essere distinti due grandi orientamenti. Per il primo orientamento, il rapporto capitale-lavoro ha reso autonome le attività che concorrono alla riproduzione materiale, e ha permesso così di definire l'economia in generale, a prescindere dalla sua forma capitalistica. Il lavoro sarebbe quindi sempre stato questa attività che consiste nell'utilizzare, nel padroneggiare, nel dominare la natura al fine di produrre tutto quello che è necessario all'uomo. Avremmo in questo modo una possibile definizione sostanziale possibile del lavoro, che ci permette di analizzare in ogni società questa forma di attività per mezzo di criteri comuni, e determinare quale ruolo avrebbe potuto svolgere nella strutturazione dei rapporti sociali. Mentre per Polanyi l'economia, il lavoro sarebbero strutturanti solamente nella nostra società, per Marx e per Godelier (1984), il rapporto capitale-lavoro avrebbe altresì rivelato il suo carattere fondante in tutte le società.
Per il secondo orientamento, una cultura, e finora una soltanto, la cultura borghese, ha inventato un dominio chiamato economico, la cui sostanza consiste della relazione che questa cultura ha generato e sviluppato tra gli individui. Pertanto, una definizione universale dell'economia è impossibile sia a livello concettuale che sostanzialmente. In questa prospettiva, il lavoro così come lo intendiamo oggi corrisponde all'emergere della relazione salariale e del lavoratore libero che vende la propria capacità lavorativa. La diffusione e l'egemonia progressiva di questa relazione sociale, la quale si traduce nel fatto che è diventata il riferimento per poter comprendere, pensare, organizzare tutta una serie di attività, avrebbe avuto come conseguenza un'estensione della parola lavoro a delle attività che non venivano designate come tali e che non rientrano nella relazione salariale, come «lavoro domestico» e come «lavoro autonomo». Ciò avrebbe prodotto una naturalizzazione del lavoro, che da allora in poi sarebbe stato percepito come una realtà universale da sempre esistita. Come è avvenuto per l'economia, questa realtà contemporanea che è il lavoro, all'origine geograficamente e culturalmente circoscritta, sarebbe stata proiettata sul passato e sulle altre società, anziché assumere come tali le condizioni storiche, e non necessarie, che l'avevano fatto emergere tre secoli fa. Un buon modo per poter andare avanti in tale dibattito, è quello di analizzare i presupposti delle due posizioni.
1.2. - Mantenere l'ipotesi dello sviluppo del lavoro e dell'economia a partire dalla relazione capitale-lavoro, e quindi della sua universalità, presuppone l'adozione di un materialismo naturalistico oggi insostenibile.
Dopo aver letto la sua Prefazione al Contributo alla Critica dell'Economia Politica nella quale Marx esponeva la sua distinzione tra i rapporti che fondano la società (infrastrutture) e le relazioni che la governano (sovrastrutture), un giornalista americano aveva obiettato a Karl Marx che la determinazione della vita sociale da parte dei rapporti sociali di produzione, non può essere posta come universale. La società antica e la società feudale, faceva notare, erano fondate su delle relazioni essenzialmente politiche. Marx gli rispondeva, in una nota ne Il Capitale, che, nel corso della decomposizione delle relazioni feudali, anche Don Chisciotte aveva dovuto trovare da bere e da mangiare. In altri termini, privi delle relazioni che, in alcune società, inglobano e allo stesso tempo mascherano quelle relazioni per mezzo delle quali viene assicurata la riproduzione materiale della società, gli uomini si trovano di fronte quelli che sono i loro primari obblighi fisici: nutrirsi. La determinazione da parte dell'economia, aveva perciò chiaramente origine dalle ineludibili necessità vitali.
Non è inutile ricordare da dove provenga questa posizione naturale-materialista. Essa affonda le sue radici nelle prime opere filosofiche di Karl Marx. Reagendo contro l'idealismo e l'universalismo hegeliano, che avevano precedentemente condiviso, Marx ed Engels sottolineano ne L'Ideologia Tedesca che l'Uomo in Generale non esiste e che esistono solo quelli che sono degli individui concreti storici. « Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, idee, ecc., ma gli uomini reali, operanti, cosi come sono condizionati da un determinato sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni che vi corrispondono fino alle loro formazioni più estese. La coscienza non può mai essere qualche cosa di diverso dall’essere cosciente, e l’essere degli uomini è il processo reale della loro vita. Se nell’intera ideologia gli uomini e i loro rapporti appaiono capovolti come in una camera oscura, questo fenomeno deriva dal processo storico della loro vita, proprio come il capovolgimento degli oggetti sulla retina deriva dal loro immediato processo fisico. » [*8]. Quindi per « dissipare le fantasmagorie universaliste del pensiero e liberarsene», propongono un programma di lavoro volto a studiare gli uomini storici concreti, le relazioni che intrattengono fra di loro, le loro condizioni di vita, e i processi della vita reale. Per giustificare tale programma, sostengono tre argomenti. Un argomento metodologico: la vita materiale degli uomini concreti è verificabile in maniera puramente empirica. La sua analisi fornisce delle basi reali per la riflessione, a partire dalle quali si può fare astrazione solo per mezzo dell'immaginazione. Non sono dei dogmi. Un argomentazione importante se mira a denunciare l'oblio da parte del pensiero universalista di quelle che sono le condizioni di vita reale e le loro relazioni con le diverse correnti e forme di pensiero. Argomento tuttavia insufficiente per giustificare il primato che viene accordato alla vita materiale affinché essa comprenda le altre manifestazioni umane. È quindi possibile aggiungere un altro argomento storico: si può dimostrare che esiste un legame, nella storia umana, tra i diversi stadi dello sviluppo della divisione del lavoro e le forme di proprietà, vale a dire, i rapporti degli individui fra di loro. Logicamente questa correlazione, constatabile, che non implica che la produzione materiale sia altrettanto determinante, è seguita da una terza argomentazione, chiaramente naturalistica: » (...) dobbiamo cominciare col constatare il primo presupposto di ogni esistenza umana, e dunque di ogni storia, il presupposto cioè che per poter « fare storia » gli uomini devono essere in grado di vivere. « Ma il vivere implica prima di tutto il mangiare e bere, l'abitazione, il vestire e altro ancora. La prima azione storica è dunque la creazione dei mezzi per soddisfare questi bisogni la produzione della vita materiale stessa, e questa è precisamente un'azione storica, una condizione fondamentale di qualsiasi storia, che ancora oggi, come millenni addietro, deve essere compiuta ogni giorno e ogni ora semplicemente per mantenere in vita gli uomini.» [*9]. « Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione5 per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. » [*10]. Engels e Marx aggiungono che, assai rapidamente, si sviluppano altri bisogni e tutto un modo di vita. Rimane il fatto che fondano la preminenza dell'attività produttiva sull'«evidenza» dei bisogni vitali, evidenza che parte da un discorso sulle origini dell'uomo, essendo in realtà un discorso sulla proprietà dell'uomo alla sua origine.
Al giorno d'oggi, per poter affermare, rispetto ad ogni società, il carattere fondante della produzione materiale, bisogno condividere quest'ipotesi originale? Sembra di sì, dal momento che al di là di questi bisogni vitali che sarebbero primari, la produzione materiale è essa stessa un prodotto totalmente sociale e storico, allo stesso titolo di qualsiasi altra manifestazione umana. I presupposti dell'enunciato del «primo fatto storico», vale a dire la produzione di quei mezzi che permettono di soddisfare i bisogni legati al nutrimento, sono troppo numerosi e incerti per poter essere considerati oggi. Infatti, avrebbe dovuto essere necessario che, solo fra tutte le specie animali, il pre-uomo non avesse più trovato, nel suo eco-sistema, da bere e da mangiare. Avrebbe dovuto essere necessario che fosse stata questa necessità, e non un'altra, ad essere diventata una costrizione assoluta, che avesse innescato l'invenzione e la riflessione umana, ed il primo rapporto sociale. Avrebbe dovuto essere necessario che il ricorrere ad un mezzo «artificiale» per l'acquisizione del nutrimento fosse stato proprio dell'uomo, cosa che, come sappiamo, non è avvenuto, ecc. In breve, non sarebbe più possibile fondare una tesi così gravida di conseguenze teoriche e pratiche, come quella dei rapporti sociali di produzione che si troverebbero alla base di ogni società, sulla fragile ipotesi dell'homo faber. Possiamo ragionevolmente postulare che un essere sociale «completo», libero da ogni primitivismo, le cui condizioni di esistenza stessa sono quindi quelle di una società, di una lingua, della trasmissione delle conoscenze, delle ragioni per vivere e per morire... piuttosto che il bere ed il mangiare, per non parlare della altre condizioni naturali o culturali, altrettanto essenziali, ma che noi ignoriamo dal momento che di esse non abbiamo notizie.
Si viene allora riportati alla posizione di Louis Dumont ed a dover ricercare nella «totalità sociale» di ciascuna società le ragioni della suddivisione e della designazione del sociale che in tale posizione si osserva? Oltre che in tal modo si viene rimandati a dover costruire per ciascuna società una «totalità» impossibile da fissare e «risolvere», bisognerebbe anche rappresentare la società come un organismo, dotato di un unico principio di esistenza, di ordine e di regolamentazione, che darebbe un senso a ciascuna delle sue parti. Anziché tentare di costruire una simile «totalità», sarebbe più prudente ed euristicamente più fecondo partire prima dalla constatazione dell'esistenza dei rapporti sociali, storicamente dati, con una logica propria; rapporti sociali agiti, attualizzati e trasformabili da parte degli attori sociali che ciascuno di questi rapporti istituiscono; che coesistono o si articolano fra di loro; e creano dei campi sociali, la cui designazione ed i cui confini si trasformano, in funzione del luogo e dell'importanza che questi rapporti acquistano, gli uni in rapporto agli altri. Curiosamente, Marx ci dà l'occasione e la possibilità di intraprendere questa strada e pensare il concetto del rapporto sociale liberato da ogni determinazione «sostanziale», contrariamente a quanto egli sostiene altrove al fine di fondare il carattere fondamentale dei rapporti sociali di produzione.
2. - Il rapporto capitale-lavoro ed il lavoro che questo rapporto ha storicamente generato, non solo concettualmente collegati alla produzione materiale
Nelle sue ricerche sul lavoro produttivo ed il lavoro improduttivo, Marx mostra come questa distinzione abbia senso solo in rapporto ad una forma sociale di accumulazione. Riprendendo la tesi di Adam Smith, e difendendola contro J.B. Say ed il post-classici, egli mostra che la definizione di lavoratore produttivo in quanto produttore di valore d'uso non sia di interesse scientifico, dal momento che lo è ogni persona a partire dal fatto che il prodotto materiale o immateriale della sua attività trova un utilizzo qualunque, anche di fantasia. Il fine della produzione capitalista non è la produzione di valori d'uso o di merci in quanto tali, bensì la riproduzione del vecchio valore e la creazione di plusvalore, per cui il lavoro produttivo è dunque quello che viene scambiato con il capitale, mentre il lavoro improduttivo è quello che viene scambiato con il reddito, qualunque sia la sua forma (salario, profitto, rendita, imposte, ecc.). Tuttavia, Marx si differenzia da Adam Smith su un punto importante. Per Smith, il lavoro produttivo del capitale corrisponde alla produzione di beni materiali sotto forma di merci, ed il lavoro improduttivo ai «servizi», definiti come scambio da uomo a uomo. Per cui fonda la distinzione produttivo-improduttivo non solo sul rapporto tra lavoro e capitale, ma anche su una differenza nella natura dell'attività. Introduce una seconda determinazione: quella della materialità del prodotto. Al contrario, Marx mostra che se è vero che il lavoro produttivo del capitale produce più spesso dei beni materiali, la sua definizione non ha niente a che vedere con il suo contenuto concreto, ma essa designa esclusivamente un rapporto sociale, al punto che una persona impegnata nella medesima attività - ad esempio la cucina - sarà produttivo o improduttivo dal punto di vista del capitale a seconda che egli venda la sua capacità lavorativa ad un ristorante o ad un privato, a seconda perciò che la sua capacità lavorativa venga scambiata contro del capitale al fine di metterlo in valore oppure contro del reddito per soddisfare una domanda del detentore di quel reddito. Un professore sarà produttivo (dal punto di vista del capitale) se sarà un dipendente di una scuola privata a fine di lucro, e sarà improduttivo di capitale se darà lezioni private in una famiglia o se sarà il dipendente del Ministero della Pubblica Istruzione. Se Marx arriva a dire che la caratteristica del « lavoratore produttivo, vale a dire del lavoratore produttore di capitale, è quella per cui il suo lavoro si realizza in delle merci, nella ricchezza materiale», egli sta parlando delle merci nel senso del valore di scambio, e designa così «un'esistenza fittizia, puramente sociale della merce, assolutamente distinta dalla sua realtà fisica; [...] qui l'illusione proviene dal fatto che una relazione sociale si presenta sotto forma di oggetto » [*11].
Denaturalizzando completamente il concetto di relazione capitale-lavoro, considerandolo come una relazione puramente sociale, mostrando che non è legata alla produzione materiale, Marx rende quindi questo «rapporto sociale di produzione» come storicamente datato, come una relazione la cui predominanza sulle altre relazioni sociale non può più provenire da delle attività che servono alla riproduzione materiale della società. Sembra che egli non sia mai arrivato ad una simile conclusione. Pertanto, continua a seguire logicamente quella che è la sua analisi del lavoro produttivo del capitale. Ed essa è, come si vede, in contraddizione con il naturalismo materialista della Ideologia Tedesca [*12]. Oggi come in passato, è impossibile riuscire a dare una definizione sostanziale di che cosa sia il lavoro, vale a dire, definirlo a partire dalla natura delle attività che esso è chiamato a raggruppare in base alla loro utilità. Nelle nostre società, la medesima attività può essere lavorativa come non lavorativa. La sua natura non dipende affatto da che essa avvenga o meno nell'ambito di uno dei tre rapporti sociali che al giorno d'oggi ci fanno parlare di lavoro: il rapporto salariale, il rapporto di mercato (non in tutti i casi) e la relazione domestica (questa la innesca, ma non è così dappertutto). Va notato, infine, che un numero crescente di attività, considerate come non rilevanti economicamente e come non lavorative, lo sono diventate con la diffusione della relazione salariale ed in particolare della relazione capitale-lavoro.
Una determinata attività può essere lavorativa o non lavorativa, a seconda del momento in cui viene svolto: giardiniere, autista, cucinare, costruire, cantare... Una stessa attività può essere contemporaneamente lavorativa e non. Pertanto, una persona che sta con i propri figli, in cambio di una remunerazione, controlla allo stesso tempo anche i figli degli altri. Di un'attività, potremo quindi dire che essa è un lavoro solo se specifichiamo sotto quale rapporto sociale viene effettuata. E al giorno d'oggi ci sono solo tre relazioni sociali che ci fanno parlare di lavoro: la relazione salariale, quella di mercato, e la relazione domestica.
L'utilità non ci permette di stabilire quali sono i confini tra il lavoro e le altre attività, non più di quanto faccia la natura dell'attività stessa. Anche se vi aggiungiamo la qualifica di «sociale», l'utilità eccede ampiamente quelle che sono tutte le attività comunemente classificate sotto il termine di lavoro. Le relazioni sociali che oggi rendono lavoro quelle che sono alcune attività, non sono più legate ad un particolare dominio del sociale. Esse possono coinvolgere delle attività assai diverse fra loro, alcune delle quali, numerose, non fanno parte di ciò che viene comunemente denominato come produzione, o campo economico.
Per esempio, il rapporto capitale-lavoro, se esteso, si estende sempre più a delle attività considerate ieri fuori dalla sfera economica: il tempo libero, lo sport, la politica, la religione, i simboli, la scienza, l'arte, la filosofia, la polizia, ecc.. All'origine, non riguardava le attività essenziali per la vita materiale. In certi paesi, esso ha sottomesso l'attività agricola tardivamente. I suoi limiti variabili nel tempo e nello spazio, i tentativi spesso vani di contenere l'espansionismo in nome della presunta «nobiltà» intrinseca di questa o di quella attività, dimostrano che si tratta di un rapporto indifferente alla natura delle attività che esso organizza. Si comincia, ad esempio, a discutere oggi per sapere sotto quale relazione sociale (il dono, l'indennizzo, l'acquisto o il salario) si verificherà in futuro, in un dato numero di casi, tutta quanta o parte della riproduzione umana, allo stesso modo in cui si parla dell'«accompagnamento» dei morenti. La relazione capitale-lavoro è quindi un rapporto sociale suscettibile di diffondersi in ogni tipo di attività. Per sua natura, nessuna attività, a priori, può sfuggire a questo. È questa estensione, che supera tutte le frontiere finora stabilite nelle nostre società fra i vari tipi di attività umane, che conferma il carattere puramente sociale e storico dell'economia e del lavoro.
Da questo punto di vista, si può dire che il lavoro diventa sempre più centrale: sia perché è per la maggior parte delle persone la forma obbligata di attività per poter accedere alle risorse materiali ed immateriali necessarie per vivere nelle nostre società, sia perché diventa sempre più la forma di realizzazione delle attività umane a prescindere dalla loro natura. Oggi, sapere se non devono essere stabiliti dei limiti - questione che alcuni pongono in termini di mercificazione dei rapporti umani - è una questione che riguarda la società.
Dal momento che solamente uno dei rapporti sociali cosiddetti di produzione conosciuti - vale a dire il rapporto capitale-lavoro - non è concettualmente legato alla riproduzione materiale della vita nella società, ecco che diviene impossibile farne il criterio per definire la preminenza delle relazioni sociali di produzione in generale rispetto agli altri rapporti sociali. Ciò invalida la possibilità di costruire un concetto universale di relazione sociale di produzione, e ci porta a considerare il rapporto capitale-lavoro come un rapporto «totalmente sociale», vale a dire, come un rapporto che non appartiene ad un particolare dominio di attività che esisterebbe al di fuori di sé stesso; che non riguarda una particolare categoria di relazioni sociali; che è unico come tutti i rapporti sociali; che è in grado di organizzare la quasi totalità della vita sociale, come sembra sia avvenuto nella storia con altre relazioni sociali; e che, infine, non presenta una dimensione che prevarrebbe sulle altre, come lo dimostra l'analisi stessa del rapporto capitale-lavoro, essendo questa relazione tanto politica e simbolica quanto economica. Il lavoro sarebbe una pura costruzione sociale senza alcun legame con delle esigenze naturali? Come fare a capire che un rapporto sociale possa prevalere storicamente su degli altri rapporti, e perfino egemonizzare ed omogeneizzare tutto il sociale, se non traendone questa capacità di controllo delle attività «vitali» della società considerate? In effetti, è difficile pensare che non si tratti delle condizioni necessarie alla riproduzione di qualsiasi società e della specie umana, e che conterebbero solo le condizioni specifiche a ciascuna società. Ma queste condizioni generali sono molteplici: ovviamente magiare, bere, eventualmente vestirsi ed alloggiare, ma anche procreare, respirare, comunicare, essere riconosciuti, muoversi, non essere uccisi, e molte altre condizioni note o ignote. Queste condizioni «vitali» diventano tali, e vengono percepite come tali, solo a partire dal momento in cui esse non sono più date naturalmente o socialmente a tutti, o al più grande numero di persone. Ciò perché alcune di queste condizioni sono risibili, come respirare, dal momento che finora l'aria, benché di qualità variabile, rimane direttamente accessibile a tutti. Tuttavia, questo esempio ha il merito di ricordare il carattere sociale e storico di quelle che sono le condizioni per la riproduzione della vita nella società. Esse acquisiscono lo status di condizioni solo se diventano oggetto di una scarsità naturale, di un'appropriazione sociale, o di una restrizione collettiva. Pertanto, si può pensare che la riproduzione materiale ed il lavoro, in quanto attività votata a tale riproduzione votata, potrebbero non essere stati socialmente importanti, o fondanti, qualora altre condizioni altrettanto essenziali per la vita sociale, o per la vita di questa o di quella società, fossero state oggetto preferenziale dell'appropriazione o del controllo sociale.
In una simile prospettiva, ogni rapporto sociale avrebbe il proprio valore, la propria economia, la sua razionalità, la sua forma di distribuzione e di divisione delle attività che esso regola, i suoi principi tecnici... che potrebbero diventare quelli di una società, se questo rapporto sociale dovesse arrivare a prevalere storicamente sugli altri rapporti sociali. Una società non sarebbe mai arrivata ad essere una totalità, rispetto alla quale ciascuna delle sue «parti» sarebbe divenuta comprensibile, ma avrebbe dato vita ad un insieme di possibili rapporti sociali in tensione fra di loro, l'uno con gli altri, che creano socialmente uno o più bisogni vitali, e governano l'accesso a tali risorse.
Si potrebbe perciò azzardare l'ipotesi secondo cui una relazione sociale diventa importante allorché essa trasforma determinate risorse naturali o culturali in una sfida sociale, in condizioni non garantite della vita in società, attraverso la differenziazione ed il controllo, e che diventa fondamentale quando arriva ad essere la strada obbligatoria per poter accedere a quelle che sono diventate la risorse materiali ed immateriali (di ogni tipo e natura) necessarie alla vita nella società che stiamo considerando. L'economia ed il lavoro, perciò, esisterebbero e sarebbero importanti solo nella nostra società. Questi manterrebbero il loro carattere centrale di quelle che sono le manifestazioni e le designazioni naturalizzate di una relazione sociale che, regolando alcune condizioni generali necessarie alla vita nella società, insieme alle condizioni particolari proprie delle nostre società, è diventata egemonica.
3. - La diffusione della relazione capitale-lavoro e l'universalizzazione naturalista del lavoro
Se così fosse, come ha potuto diffondersi questo termine, fino a designare anche delle attività che non vengono svolte sotto questa relazione sociale? Per fare questo, bisogna comprendere due generalizzazioni: quella del lavoro dipendente e quella del lavoro salariato, e più in generale quella del lavoro. Sembra che i termini di salario, di salariati e di lavoro salariato, dipendente, siano stati estesi posteriormente a delle situazioni alle quali non corrispondevano affatto: per esempio, il dipendente di una casa o di una collettività che vende i propri servizi in cambio di un reddito, e non di capitale, e che viene pagato sotto forma di uno stipendio; i funzionari, questi «servitori dello Stato», i cui emolumenti costituiscono la retribuzione della funzione sociale che essi svolgono per conto della collettività. E infatti, malgrado l'omogeneizzazione giuridica delle condizioni lavorative, il tipo di rapporto non è lo stesso. La subordinazione non è dello stesso tipo, e l'incertezza della relazione sociale non ha la medesima forma, a seconda del rapporto salariale che consideriamo. In questo caso, il fine del datore di lavoro non è né l'arricchimento personale né l'accumulazione del capitale. Il datore di lavoro elargisce il suo reddito per ottenere i servizi che desidera, o perché vengano adempiute quelle funzioni che gli sono stati assegnati dalla collettività, senza alcuna intenzione o speranza di recuperare la sua spesa. Il fine è quello della soddisfazione per il servizio che viene svolto. Se è possibile ottenerla, e se la cosa avviene effettivamente ad intervalli più o meno regolari, in particolar modo da parte della collettività (Stato, comuni, associazioni, istituzioni...), ecco che allora viene ricercata una migliore efficacia a costi inferiori attraverso delle «riforme» o dei «contratti», a partire dalla pressione politica di tutti, o parte, di quelli che pagano le tasse o i contributi, e che desiderano vedere diminuire il loro continuo aumento per dei motivi, e non a causa della necessità di riprodurre il capitale. Le modalità e le conseguenze della subordinazione salariale, così come quelle relative all'incertezza inerente a questo tipo di rapporto sociale, non sono le stesse per i dipendenti e per i datori di lavoro.
4. - Oggi, il lavoro è diventato centrale perché la relazione sociale che ha creato si è diffusa in tutte le attività, e perché tale rapporto è «totalmente sociale»
Com'è noto, la relazione capitale-lavoro viene da tempo percepita, considerata, come se fosse un semplice rapporto commerciale: imprenditori e lavoratori comprano e vendono del lavoro a prezzo di mercato. Ci sono voluti numerosi dibattiti, numerosi conflitti, per tutto il 19° secolo affinché i salariati riconoscessero e facessero riconoscere che si trattava di un rapporto specifico che doveva essere oggetto di una legislazione speciale, separata dagli altri diritti, per lo più commerciali. Non si trattava di un semplice malinteso, o di un mezzo che avevano i datori di lavoro di evitare ogni responsabilità, soprattutto in caso di incidente. In realtà, si trattava di forme ambigue molto diffuse: l'outsourcing a domicilio e le equipe di lavoro mobile dirette da un capo-squadra. Da allora in poi, è stato riconosciuto che il contratto di lavoro non è uno scambio fra pari e uguali. Ma esso cela la subordinazione del salariato all'autorità del datore di lavoro, ma allo stesso tempo contiene in sé un'irriducibile incertezza, che è la seconda caratteristica di questa relazione. Quello che al momento dell'assunzione tutti considerano come venduto o comprato, viene messo quotidianamente in discussione nel rapporto di lavoro.
In realtà, cosa nasconde una vendita della capacità di lavorare? Si tratta di mettere a disposizione, da parte del salariato, tutto insieme, la sua energia, la sua esperienza, la sua intelligenza, le sue motivazioni, la sua dedizione, la sua immaginazione? Oppure, come testimonia la storia, si tratta di un conflitto costante circa tutto ciò che ciascuno può esigere dall'altro, vale a dire, circa la natura di quella che è la rispettiva libertà, e del salariato e del datore di lavoro. L'entità di ciò che si considera aver venduto, e ciò che l'altro ritiene di avere acquistato, non differisce solo a partire da un diverso apprezzamento di ciò che viene giudicato come vendibile e acquistabile: la dedizione, la fedeltà, ne fanno parte? La motivazione, l'immaginazione, l'intelligenza, fino a che punto ne fanno parte? La definizione precisa di lavoro non attiene solo ad una tendenza del datore di lavoro che si esercita sotto la forma della prescrizione, ma è anche una domanda del salariato, il quale, sotto un'altra forma, vuole stabilire dei limiti rispetto a ciò che si può esigere da lui.
Il rapporto capitale-lavoro richiede la «libertà» da parte dei lavoratori di vendere la propria capacità di lavorare, e, da parte dei detentori di capitale, di acquistarla. Queste due libertà non sono né sostanze naturali, né elementi permanenti non soggetti a limiti o ad alterazione. Del resto, non tutti ne «godono». Il bambino, nella sua maggioranza, la donna, fino a poco tempo fa, ed ancora oggi, in molti paesi, devono avere l'autorizzazione del padre o del marito per poter vendere il loro lavoro in cambio di un salario, e non sempre dispongono, di fatto o per legge, del denaro derivante dalla vendita della loro capacità di lavoro. Queste «libertà» si trovano in una situazione di costante ridefinizione e delimitazione, sia nella legge che nella pratica. I dibattiti ed i conflitti riguardanti la durata del lavoro non si limitano solo alle divergenze a proposito della qualità e del ritmo della vita necessario o accettabile alla luce di quelli che sono gli imperativi «economici», e tenuto conto delle esigenze della riproduzione delle capacità lavorative, ma si riferiscono allo status «politico» di lavoratore «libero». Com'è noto, per esistere, il rapporto capitale-lavoro ha implicato anche il fatto che esso abbia dovuto essere considerato moralmente accettabile; il che ci porta a considerare che la somma degli interessi egoisti possa concorrere, contribuire, a quello che è l'interesse ed il benessere generale. E a dire il vero, il processo di moralizzazione del capitalismo rimane tuttora aperto. Il rilancio del liberismo economico si è accompagnato ad un discorso non solo sulla sua efficacia, ma anche sul fatto che sarebbe anche il più giusto.
Infine, attraverso l'atto di vendita della sua capacità lavorativa, il salariato riconosce all'acquirente la legittimità - per quanto concessa temporaneamente, parzialmente, e nell'ambiguità - dell'autorità che verrà esercitata su di lui. Affinché il rapporto capitale-lavoro si riproduca, questo riconoscimento dev'essere riconfermato quotidianamente nell'atto lavorativo. Il salariato accetta di alienare la propria «libertà» di lavoratore «libero» per tutto il tempo di lavoro, e accetta di limitare i suoi diritti di cittadino che del resto sono suoi solo al di fuori del tempo e dello spazio dell'impresa che lo impiega.
Il secondo modo, consiste nell'intervenire su quello che è il concetto di processo di produzione, degli strumenti e delle macchine, dell'organizzazione del lavoro e delle forme di cooperazione fra salariati, in modo che tali dispositivi delimitino l'attività o si impongano, per quanto possibile, su coloro che dovranno utilizzarli, essendo impossibile un inquadramento ed un prescrizione assoluta. In questo modo, una parte essenziale dell'intelligenza del lavoro viene quindi a trovarsi sotto l'autorità del datore di lavoro, e muta così di fatto di contenuto e di forma. La distribuzione del lavoro tra gli specialisti viene perciò sostituita dalla divisione dell'intelligenza del lavoro. Quest'ultima, in linea di principio, viene a delimitare la varietà delle forme tecniche di produzione, di organizzazione del lavoro, di regolamentazione, di strutturazione, di classificazione e di formazione della manodopera osservata. L'intervento del datore di lavoro nella progettazione del processo di produzione, è osservabile fin dalle origini della relazione salariale, facendo sì che la costituzione di un gruppo o di più gruppi di salariati aiutino a svolgere questo compito.
5. - Il lavoro sta perdendo la centralità acquisita? Esso non è più alla base del legame sociale?
Nel dibattito attuale riguardo la perdita di centralità da parte del lavoro, si possono distinguere almeno tre posizioni che portano a delle conclusioni pratiche assai diverse. Per alcuni, oggi, il lavoro cambia natura e dev'essere visto come un'attività che consente a ciascuno di dimostrare le proprie capacità. Per altri, il lavoro non è più, se mai lo è stato, l'unica fonte di ricchezza, e non è più economicamente centrale. Infine, per i terzi, con le nuove tecnologie, i guadagni di produttività sono tali che in futuro non sarà più possibile dare lavoro a tutti. Si tratta di un'opportunità che consente di praticare un'ampia divisione del lavoro, e permette ad un enorme numero di persone di potersi dedicare ad attività di libera scelta.
Stranamente, i primi riducono il loro campo di visione, rappresentando il lavoro come un'attività vincolata, prescritta, imposta, senza autonomia, in poche parole, il lavoro taylorista, nel modo in cui esso è stato abusivamente descritto e generalizzato. Constatando che questo lavoro si trova sul punto di essere rimpiazzato da un'attività di sorveglianza, di intervento e di comunicazione, che può dare luogo ad iniziativa ed invenzione (cosa che corrisponde più ad un'affermazione o ad un desiderio che ad osservazione e analisi) [*13], essi concludono che è emersa una nuova realtà che non merita più il nome di lavoro, nella misura in cui permetterebbe l'auto-realizzazione di sé. Il recupero del termine «mestiere», per cercare di designarlo, è sintomatico di tale posizione.
Per i secondi, la teoria del valore basata sul lavoro è teoricamente e praticamente invalidata. Il lavoro non è più l'elemento fondamentale o esclusivo della produzione di valore. Il rendimento economico non sarebbe più direttamente legato al lavoro, al suo volume, alla sua qualità, alla sua organizzazione nelle fabbriche, ma piuttosto alla gestione della produzione, all'organizzazione della progettazione, alla relazione con la clientela... Come se il lavoro si limitasse solo a quello della fabbrica, come se i lavoratori fossero indifferenti, ad esempio, al fatto che la produzione avvenga a raffica, ininterrottamente, oppure secondo il «just-in-time», come se queste differenti modalità non costituissero una modellazione del lavoro, come se l'emergere di nuove forme di progettazione, gestione ed organizzazione non corrispondessero a dei momenti, a delle congiunture, a delle fasi del rapporto salariale.
Per gli ultimi, il lavoro salariale capitalista è fondamentalmente e definitivamente obbligato. È inutile sperare di trasformarlo in un mezzo di realizzazione. È consigliabile piuttosto utilizzare al massimo quelle che sono le potenzialità di riduzione dei tempi e dedicarsi a che ciascuno possa impegnarsi in attività sociali e culturali di sua scelta, e quindi far emergere altre relazioni sociali. In primo luogo, tutto ciò presuppone un aumento della produttività che diventi sempre più importante di quella dei potenziali concorrenti, in modo da non dover rimettere in discussione la continua riduzione del tempo di lavoro; in secondo luogo, un divieto al capitale di investire in delle nuove attività sociali, che rivelerebbero di fatto un potenziale mercato; infine, un'autorità politica forte che disponga a sufficienza di mezzi per garantire a tutti una parte di lavoro socialmente necessario che è rimasto, o di un reddito di esistenza, in modo da operare le riconversioni periodicamente indotte dai cambiamenti di produzione, di tecnologia e di organizzazione. Supponendo che queste condizioni possano essere soddisfatte, esse potrebbero esserlo solo in alcuni insiemi geo-politici. Benché marginalizzato in termini di tempo, in questi insiemi, il lavoro rimarrebbe la condizione di esistenza e di supremazia, vale a dire, rimarrebbe di fatto centrale, dal momento che dovrebbe essere oggetto di ogni attenzione.
Se si analizza il lavoro come un'invenzione storica, cosa che abbiamo cercato di fare qui, ecco che allora siamo portati a pensare che non siamo affatto vicini a vedere la fine della sua centralità. Infatti, affinché il lavoro non sia più centrale, e la società si strutturi a partire da altri rapporti sociali, bisogna che la vendita della capacità lavorativa di ciascuno, o quella del prodotto del suo lavoro, per quanto parziale, non sia più il prerequisito per poter accedere a quelle che sono storicamente diventati i presupposti della vita stessa nella nostra società. Sarebbe inoltre anche necessario che il capitale non fosse più in grado di investire quelli che sono tutti i domini, vecchi o nuovi, della vita sociale, così come fa irresistibilmente, malgrado le battute di arresto che gli vengono imposte temporaneamente qui o là, dal momento che il movimento di espansione in dei nuovi campi è una delle condizioni della sua riproduzione.
Sebbene farlo, abbia qualcosa di un po' ridicolo, possiamo rischiare qualche ragionamento. Per fare in modo che il lavoro non sia più centrale, ci dovrebbe essere un riflusso della relazione capitale-lavoro a causa del dinamismo di un'altra relazione sociale che alla fine lo soppianterebbe; allo stesso modo in cui egli stesso lo ha fatto, e continua a farlo, riuscendo ad essere più più efficace su quel terreno da cui trae la sua forza di espansione, vale a dire, sulla capacità di orientare la domanda verso quelli che sono i nuovi beni che esso produce, qualora si ammetta che la libertà politica e la libera scelta rimangono delle conquiste storiche. Il che è come dire che abbiamo ancora qualche difficoltà ad immaginare il processo.
Conclusione
Sebbene ci sembri inerente alla condizione umana, il lavoro appare quindi, non solo come una parola ed un concetto storicamente datato, ma anche come una realtà inventata, costruita a partire dal 18° secolo europeo. Esso corrisponderebbe all'emergere del rapporto salariale e del libero lavoratore che vende la sua capacità lavorativa. La diffusione e la progressiva egemonia di tale rapporto sociale, che si traduce nel fatto che è diventato il riferimento per percepire, pensare, organizzare qualsiasi altra attività, e avrebbe avuto come conseguenza un'estensione del termine di lavoro anche alle attività che non sono soggette alla relazione salariale, come il «lavoro domestico», il «lavoro autonomo»... Ne sarebbe risultata una naturalizzazione del lavoro, da allora in poi percepito come una realtà universale da sempre esistita. Come è avvenuto per l'economia, avremmo proiettato sul passato e su delle altre società questa realtà contemporanea, ed in origine geograficamente circoscritta, che è il lavoro, anziché rendersi conto delle condizioni storiche e non necessarie che lo hanno fatto emergere tre secoli fa. Né tantomeno sarebbe stato socialmente centrale fin dall'inizio, come lo è diventato al giorno d'oggi essendo la condizione di accesso alle risorse necessarie per la vita nelle nostre società. Per quanto, la sua storicità implichi logicamente che un giorno avrà luogo la sua scomparsa, in un avvenire immediato essa non può essere ragionevolmente prevista, dal momento che presuppone la marginalizzazione della relazione sociale che l'ha fatta nascere.
- Michel Freyssenet, directeur de recherche au CNRS. -
- Pubblicato il 20 aprile 2018 su Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme -
NOTE:
[*1] - Questo articolo riprende e sviluppa un insieme di testi pubblicati a partire dal 1987: «Le concept de rapport social peut-il fonder une autre conception de l’objectivité et une autre conception du social» in Freyssenet, M., Magri S.(eds), «Les rapports sociaux et leurs enjeux», CSU, Paris, volume 1, 1989, pp 9- 23, et “Le rapport capital-travail et l’économique” in volume 2, 1990, pp 5-16. “L’invention du travail” in Futur Antérieur, 1993/2, pp 17-26. “Historicité et centralité” in Bidet J., Texier, J., La crise du Travail, PUF, Paris, 1995, pp 227-244.
[*2] - Chamoux M-N. “Société avec et sans concept de travail: remarques anthropologiques”, in Freyssenet, M., “Les énigmes du travail”, Sociologie du Travail, n° hors-série, octobre 1994.
[*3] - Polanyi K., La grande trasformazione. Einaudi.
[*4] - Maurice Godelier - "L'ideale e il materiale. Pensiero, economie, società ". Editori Riuniti.
[*5] - Da allora, la posizione di Maurice Godelier si è evoluta, come viene spiegato nella prefazione a “Transformation de la nature et rapports sociaux” in Michel Freyssenet et Suzanna Magri (eds) Les rapports sociaux et leurs enjeux. CSU. Paris. tome 2. 1990. p19-20. Riprendendo un suo testo, “L’oeuvre de Marx” pubblicato in “Le marxisme analytique anglo-saxon”, Actuel Marx, n°7, septembre 1990, egli scrive: «Quando, per esempio, in una società tribale, i rapporti di parentela funzionano anche all'interno come rapporti di produzione, quindi allo stesso tempo sia come infrastruttura che come sovrastruttura, bisogna allora spiegare perché... (Tuttavia), l'antropologia sociale finora non ha mai scoperto un rapporto diretto, di causalità, tra un modo di produzione ed un modo di filiazione e di alleanza. Infatti, se i rapporti di parentela non dipendono direttamente, nel loro apparire, da un modo di produzione, ciò è perché esse hanno le loro funzioni proprie e posseggono - e questo è un paradosso solo in apparenza - una base materiale indipendente: i rapporti biologici tra i sessi e tra le generazioni, condizioni materiali della produzione di nuovi individui, ai quali le regole della filiazione e dell'alleanza dei diversi sistemi di parentela conferiscono un senso e degli usi sociali... Pertanto, l'ipotesi centrale di Marx, che fa dei modi materiali e sociali di produzione il fondamento generale della vita sociale, non viene confermata. Ma conserva una capacità più limitata, eppure sempre impressionante, per poter spiegare il funzionamento e l'evoluzione delle società».
[*6] - Prefazione di Louis Dumont al libro di Karl Polanyi, "La grande transformation". Gallimard. Paris. 1983, p XXVI.
[*7] - Louis Dumont. "Homo aequalis". Gallimard. Paris. 1985. p. 45
[*8] - Engels F., Marx K., "L'ideologia tedesca". Editori Riuniti. p.50
[*9] - ivi, p.57.
[*10] - ivi, p.45.
[*11] - Marx K., "Storia delle teorie economiche". Einaudi.
[*12] - Oggi, bisognerebbe riprendere dall'opera scientifica di Marx questo sforzo, reperibile nei suoi scritti e sempre più visibile, via via e nella misura in cui egli si rimette a lavorare sulle sue stesse proprie analisi, della denaturalizzazione e della storicizzazione dei concetti e delle realtà che sono per noi ordinarie, sforzo che siamo ben lontani dall'avere perseguito, ivi compresi coloro i quali hanno denunciato e denunciano il materialismo di Marx, come è testimoniato dalla convinzione largamente condivisa da ogni genere di corrente filosofica e politica secondo cui il lavoro è inerente alla condizione umana.
[*13] - Freyssenet M., “Processus et formes sociales d’automatisation. Le paradigme sociologique”, Sociologie du travail, 1992/4, pp 469-496.
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