sabato 2 marzo 2019

Ossessioni

Jean-Paul Sartre manifestò fin da bambino la sua ossessione per Gustave Flaubert imparando a memoria le pagine finali di Madame Bovary. La sua ammirazione divenne astio quando, ormai adulto, riconobbe nel romanziere di Salammbô un esteta borghese, connivente con la classe cui apparteneva e che pure disprezzava. Volle vedere in Flaubert un avversario, il suo opposto intellettuale e politico; quell’opposto che, come è noto, tanto somiglia all’immagine restituita dallo specchio. Forse per questo Sartre accettò di inseguire l’ombra dell’altro scrittore in una magistrale biografia, di trattare il proprio contrario con l’empatia necessaria a comporre un ritratto che fosse anche un riflesso traviato di sé.
Chi era dunque Gustave Flaubert? L’idiota della famiglia, un bambino preda di lunghi stati d’assenza stuporosa, lo sguardo perso a inseguire miraggi? Oppure, per chi lo conobbe adolescente, l’istrionico attore mancato, il guitto maldestro gravato dalla dannazione di suscitare il riso? O forse l’incurabile nevrotico dell’epistolario, che accarezzava con la mente la corolla di tenebre delle sue malinconie, senza mai lasciarne sfiorire i petali? E come ha potuto divenire un genio quel bambino che i genitori e il fratello avevano destinato a una vita da ebete? Libro eretico e inclassificabile, ridefinizione dell’etica sartriana della libertà, cruciale incontro tra due giganti della letteratura francese, L’idiota della famiglia – cui si aggiunge oggi la penetrante prefazione di Massimo Recalcati – è un viaggio nel dedalo della psiche flaubertiana, nell’arte come via di fuga e rieducazione sentimentale, nell’anomalia claustrofobica della scrittura; ed è insieme un tentativo di chiarire in che modo la storia, la società, il contesto familiare – in una parola, l’Altro – diano forma alla vacillante sintesi di un individuo. Al fondo di tutto, un’unica, enorme domanda: che cosa si può sapere davvero di un uomo?

(dal risvolto di copertina di: Jean-Paul Sartre, "L’idiota della famiglia". Il Saggiatore. pagine: 1160 € 65,00)

Il riscatto dell’idiota: monsieur Flaubert siamo tutti noi
di Michele Mari

Fra i testi letterari che hanno attirato l'attenzione congiunta di teologi, filosofi, storici, storici dell'arte e psicologi, figura senz'altro, lungo una linea che va da Dante a Goethe, La tentazione di Sant'Antonio di Flaubert, libro che si offre a ogni tipo di curiosità già a partire dalla leggenda che lo vuole ossessivamente pensato e ossessivamente scritto e ritoccato dall'autore per circa trent'anni. Non è un caso che uno dei primi interpreti del testo sia stato Pavel Florenskij, matematico convertito presto agli studi teologici e filosofici e da quelli portato a indagini trasversali ed enciclopediche che ricordano alla lontana l'opera di Giambattista Vico. Mai finora tradotto nel mondo, Antonio del romanzo e Antonio della tradizione (1905) è un saggio puntiglioso - ora pubblicato da Edizioni degli Animali - che vuole liberare la figura del santo dalla meravigliosa rappresentazione flaubertiana, ritenuta tanto seducente quanto fuorviante. Sfrenato esteta, il Flaubert di Florenskij è come un bambino ingordo e angosciato che accumula eros ed eros e bellezza e bellezza per paura del "mostro", del vuoto assoluto che alligna sotto la forma: il suo estetismo sarebbe dunque solo il risvolto del suo nichilismo, e Antonio è semplicemente il vettore di questa transizione. Un vettore attivo però, perché le immagini (le "tentazioni") non gli giungono dall'esterno o da un improbabile diavolo, ma dalla sua stessa coscienza. Qui Florenskij incrocia psicologia e patristica, non senza concessioni all'acribia positivistica allora dominante in tutt'Europa, e probabilmente senza rendersi conto dell'ironia, cioè del nesso fatale fra positivismo e nichilismo. Ma se per Flaubert Dio è «illusione divinizzata», ne scende che le "tentazioni" di Antonio, lungi dall'essere diaboliche, saranno solo variazioni interne alla religione, e che l'unica vera tentazione cui conti resistere è l'idea che la verità (una verità inestetica) non esista. Qui, se mi è permesso, mi sembra che Florenskij pecchi di una certa ingenuità, perché lungi dall'essere scisso come Jekyll e Hyde («Flaubert esteta è sempre accompagnato dalla sua fedele ombra, dal suo sosia oscuro: Flaubert nichilista»), il grande stilista era perfettamente consapevoli di quello che faceva e scriveva in difesa della sua religione, l'arte: tanto più pura ed essenziale, cioè vera, quanto più sa farsi «ministra dell'illusione». Nessun vuoto, sotto la forma artistica, perché la bellezza della forma è la pienezza.
L'arte, dunque (l'essere artista, performativamente) è la sola salvezza. Quasi tutte le 1200 pagine della celebre biografia di Flaubert scritta da Sartre, L'idiota della famiglia, appena riedita dal Saggiatore, portano a questa conclusione. L'idiota, naturalmente, è il piccolo Gustave: non nel senso evangelico-dostoevskijano del termine, ma in quello lombrosiano di idiota-idiota. In perenne ritardo sui tempi di apprendimento, ottuso, torpido, tendente a forme auto-ipnotiche di letargo, sistematicamente passivo, spesso afasico per non dire muto, tutto imploso come «un fungo gonfio di noia» (come si definì egli stesso), il bambino era destinato nell'opinione della famiglia a rimanere un ebete per tutta la vita: e più questa opinione veniva tematizzata, più quel destino gli si stringeva addosso e più diventava probabile. Sartre ha buon gioco nell'adunare e collegare i dati dell'anamnesi: il fratello maggiore di Gustave, che si chiama Achille come il padre e che ne rappresentava l'investimento, era "il maschio", per cui Gustave, non essendo nato femmina come nei voti, era il figlio "sbagliato": tanto più attesa e amata dunque, quando alla fine arrivò, la piccola Caroline, omonima della madre. Schiacciato fra i due modelli, Gustave scelse la via più economica: opacizzarsi per scomparire; o, in altre parole, sottrarsi al mondo. Ma (e qui Sartre smette gli abiti del biografo e dello psicologo per indossare quelli del filosofo) poiché al mondo non si può sfuggire, per il semplice fatto che ne facciamo parte, e poiché la nostra individualità non si sviluppa mai a partire da un atto di libertà ma solo dialetticamente, attraverso l'interiorizzazione dell'Altro, ecco che il piccolo fungo, scoprendosi pieno delle parole dell'Altro («sarai un demente!», incominciò a servirsene come un prestigiatore per raccontarsi una storia diversa, una storia fatta di forme e di suoni e di invenzioni, una storia i cui protagonisti fossero la lingua e il ritmo. Nella sua introduzione Massimo Recalcati, per ricordare come anche Sartre sia nato come scrittore per un bisogno analogo, cita opportunamente un passo da Le parole: «Per aver scoperto il mondo attraverso il linguaggio, per molto tempo scambiai il linguaggio per il mondo. Esistere era possedere una denominazione depositata, da qualche parte, sopra le infinite Tavole del Verbo», professione di fede che Borges avrebbe sottoscritto. Dunque, l'esasperato estetismo di Flaubert, la sua proverbiale maniacalità nelle correzioni e nella stessa cura tipografica dei testi, il suo feticismo verbale, tutto questo, come in altri autori il manierismo o l'espressionismo, sono paradossalmente una forma di realismo, sono autenticità e necessità.
A questa luce, anche La tentazione di Sant'Antonio assume un significato diverso dal nichilismo "semplice" cui lo volle ridurre Florenskij. Per Sartre ciò che distingue Antonio, ciò che lo significa e rappresenta, non è la fede, ma la solitudine dell'anacoreta, una solitudine talmente desiderata da essere piacere e non privazione: è la "plenitudine" dell'artista, quella che Flaubert confessava di provare solo negando il mondo nella pratica (religiosa ed erotica insieme) della scrittura. E altro non è la tentazione del titolo se non l'impulso dell'artista a distruggere la propria opera, o (che è lo stesso) la percezione del nulla dietro alla sua bellezza: «Se adesso rileggiamo Il Saint Antoine, troveremo la tentazione che ci è sfuggita finora [...]: è la tentazione dell'artista, senza dubbio. Ma non attraverso i beni di questo mondo: attraverso il nulla. Di questa cortina di apparenze improvvisamente incendiata che cosa resterà? Niente. In tal caso quale sciocco progetto, farsi artista!»
Quello che Sartre non dice, però, è che il diavolo per vincere ha bisogno dell'eros, e che in questo caso l'eros, insieme all'ascesi, stava dalla parte del grande scrittore, da quando smise di essere un idiota.

Michele Mari - Pubblicato su Repubblica del 21/2/2019 -