Riflessione sul termine «antisionismo»
- di Vincent Présumey -
Proibire che ci si possa dichiarare «antisionisti», o associare l'antisionismo all'antisemitismo all'interno di una definizione normativa che abbia portata giuridica, è ovviamente una provocazione che non si rivolge all'antisemitismo, bensì alla libertà di espressione e alla libertà politica, e quindi dev'essere combattuta in quanto tale. Ma questo vorrebbe forse dire che non ci sia niente che debba essere chiarito per quel che riguarda la relazione antisionismo/antisemitismo? Certamente no.
Rivolgendosi soprattutto a quei militanti che si considerano anticapitalisti e rivoluzionari, le riflessioni che seguiranno intendono far saltare gli schemi di pensiero che vengono ritenuti dogmi, nel contesto di quello che è un terreno «scottante». Suggerendo però che anche quei compagni che soggettivamente detestano con la massima sincerità l'antisemitismo, sono tuttavia prigionieri di rappresentazioni che, in ultima analisi, lo rivelano; potrebbe anche offenderli. Ma si tratta di un male necessario. Stando così le cose, si richiede di fare attenzione, in quanto questo piccolo testo non parla dell'antisemitismo in quanto tale, ma di una questione ad esso connessa, e col quale ha a che fare.
In realtà, «antisionismo», «antisionisti» sono dei termini polisemici e ambigui. Innanzitutto, bisogna prima scartare anticipatamente quelli che sono i loro significati «deboli». Criticare la politica del governo israeliano, criticare a lungo termine, al di là del governo, la politica dello Stato israeliano, e denunciare in particolare l'occupazione della Cisgiordania, di Gerusalemme, il blocco della striscia di Gaza, e l'occupazione del Golan; ecco quelle che sono delle posizioni che vengono frequentemente definite come «antisioniste», ma che non lo sono necessariamente, in quanto vengono sostenute perfino sia dai sionisti di sinistra, dai sionisti moderati, e addirittura da quei sionisti che si collocano nella continuità con l'Israele precedente al 1967, e che rifiutano ogni logica relativa alla «grande Israele».
Ci sono altri sionisti che, al contrario, sono all'interno di una simile logica, e che ne hanno fatto - come Netanyahu, l'erede politico di Jabotinsky - un'opzione etno-religiosa ad orientamento segregazionista, se non peggio. Rispetto ai loro oppositori, questi ultimi sono degli «antisionisti», ma lo sono solo relativamente ad essi. Fa loro molto comodo che la critica di quella che è la loro politica razzista venga definita antisionista, o perfino «antisemita». E, fra parentesi, questo vale anche per coloro il cui «antisionismo» è effettivamente antisemita.
Va aggiunto che questo significato «debole» del termine - in realtà improprio - rimane anche quando le critiche e le rivendicazioni rivolte allo Stato di Israele si riferiscono a degli eventi precedenti al 1967, e che attengono ad una vera e propria uguaglianza di diritti per gli abitanti non ebrei di Israele, arabi o drusi, a partire dal riconoscimento della Nakba (espulsione in massa dei palestinesi arabi, musulmani o cristiani, avvenuta nel 1947), che comporta un diritto al risarcimento, se non al ritorno che va effettuato in condizioni da stabilire: si tratta di una rivendicazione democratica, analoga a quella dei discendenti dei tedeschi espulsi dai Sudeti, o dalla Silesia e dalla Pomerania, ed altrove nell'Europa centrale ed orientale, alla fine della seconda guerra mondiale. Tale rivendicazione democratica chiama sicuramente in causa dei caratteri strutturali dello Stato di Israele, ma non necessariamente la sua esistenza e, in questo senso, non è «antisionista».
E ciò in quanto il vero senso di «antisionista» - a differenza degli usi impropri del termine di cui abbiamo appena discusso - è la messa in discussione dell'esistenza di questo Stato, e quindi la prospettiva della sua distruzione assunta positivamente. Per un attivista che si consideri in maniera del tutto sincera come un rivoluzionario e come ostile all'antisemitismo, questa posizione può essere riassunta nel modo seguente: lo Stato israeliano è di natura particolare, non perché sia ebreo, ma in quanto impostato in maniera coloniale, e in controtendenza, nel momento in cui altrove è in corso la decolonizzazione. Basandosi sulla negazione dei diritti nazionali dei palestinesi, o perfino della loro esistenza, si è costituito in maniera predatoria e si perpetua continuando questo processo predatorio nei territori occupati, e sviluppando una logica sempre più militare, reazionaria, etnico-nazionalista, che contraddice sicuramente gli ideali affermati dal primo sionismo in quelle che erano le sue componenti maggioritarie, ma che inevitabilmente non poteva svilupparsi se non in questo modo. I suoi leader sono arrivati al punto di investire sull'antisemitismo e si sono alleati a correnti cristiane evangeliche nordamericane ultra-reazionarie e bellamente antisemite, che vorrebbero vedere tutti gli ebrei in Israele. Per tutte queste ragioni, questo Stato dev'essere distrutto, in favore di una repubblica palestinese laica e democratica, nella quale i discendenti dei coloni sionisti potranno liberamente diventare dei cittadini realmente liberi, poiché «un popolo che ne opprime un altro non può essere libero» (Marx).
L'«antisionismo», così come l'ho appena presentato, non è per niente maggioritario, ma un simile schema costituisce, in qualche modo, l'alibi di ogni antisionismo assai meno «puro»: anticolonialista, laico e democratico. Si tratta di un alibi, rafforzato dal fatto che un certo numero di ebrei condividono effettivamente queste posizioni, soprattutto all'interno della diaspora, una minoranza attiva di estrema sinistra.
Questa posizione, apparentemente impeccabile, pecca, tuttavia, su alcuni punti decisivi.
L'argomento che gli viene di solito opposto, merita di essere preso in considerazione, ma è però il più debole. È quello della cosiddetta «prescrizione». Il progetto sionista avrebbe dovuto essere denunciato in anticipo, così come avevano fatto i rivoluzionari ebrei, ivi compresi quei rivoluzionari ebrei che difendevano la costruzione di una nazione ebraica, ma extraterritoriale, vale a dire il «Bund», che venne distrutto prima da Hitler, soprattutto, e poi da Stalin; lasciando così campo aperto alle correnti sioniste. Ma ormai la cosa è fatta: questo Stato esiste, e se in generale i suoi abitanti hanno una forte mentalità colonialista, non sono principalmente dei coloni, ma ne sono gli abitanti, una popolazione mediorientale, la nazione ebraica-israeliana - la quale non è organicamente legata ad una nazione occidentale colonizzatrice che potrebbe servirle da «ritirata» in caso di espulsione, diversamente da come accadde per il «pieds-noirs» dell'Algeria francese, per esempio.
Visto sotto l'angolatura della «prescrizione», questo argomento è debole, dal momento che un'ingiustizia che perdura non ottiene una sua legittimità. Si potrebbe dire che se fossero aboliti gli Stati prodotti direttamente da un'impresa coloniale, ciò riguarderebbe tutti quelli delle due Americhe, così come dell'Australia e della Nuova Zelanda. Tuttavia, per quanto deplorevoli, i genocidi e gli shock microbici, pur lasciando una questione indigena reale, hanno reso i colonizzati, o coloro che si ritenevano tali, minoritari (senza sviluppo).
Questo argomento è più forte, considerato dal punto di vista dei diritti delle persone attuali. In quanto individui, i bambini nati da uno stupro non devono essere loro a pagare. Per riprendere un paragone fatto prima, i pronipoti dei coloni in Israele/Palestina, che sfuggirono al post-Olocausto in Europa, non devono pagare per il furto subito dagli avi dei colonizzati e degli espulsi, più di quanto non abbiano pagato i pronipoti dei contadini polacchi espulsi dall'esercito sovietico e reinsediati al posto dei contadini tedeschi, per questo furto, anche se, in tutti e due i casi, dev'essere presa in considerazione la questione democratica del risarcimento e del riconoscimento, o perfino del diritto a ritornare. Ma c'è di più: questi individui formano quello che, ci piaccia o meno, è un gruppo nazionale, formano questa nazione ebraico-israeliana se vogliamo chiamarla così (la quale è ben lungi dal raccogliere in sé tutte le identità ebraiche, ma questa è un'altra faccenda). Perciò, la distruzione del «loro» Stato può avere come bersaglio unicamente - anche se non lo si vuole - la loro esistenza nazionale.
In questa fase della nostra esposizione, riferirsi ad un paragone può essere illuminante.
Cronologicamente parlando, è esistito uno Stato che ha avuto una costruzione coloniale, perfino ultra-coloniale se vogliamo, che è stato anch'esso costruito «fuori tempo», relativamente alla decolonizzazione che si verificava altrove, e rispetto alla quale costituiva un'enorme baluardo di resistenza. Si tratta del Sudafrica. In quanto Stato dell'apartheid, che veniva teorizzato e cristallizzato ad un livello superiore rispetto alle misure analoghe che esistevano in Israele, il Sudafrica doveva essere «distrutto». Ma così non fu: l'apartheid venne abolito, nel momento stesso in cui cadde il muro di Berlino, grazie al rapporto di forza imposto dalla popolazione nera, maggioritaria, e grazie al sostegno di cui beneficiare nel continente africano e altrove. Questa abolizione però non ha regolato le questioni sociali ed inestricabilmente «razziali» eridate dall'apartheid, ma oggi vede la lotta di classe svilupparsi nel contesto sudafricano, e non nella prospettiva della distruzione di quello Stato, cosa cui in un modo o in un altro si accompagnerebbe l'espulsione o il rimodellamento dei gruppi etno-nazionali privilegiati, bianchi anglofoni e afrikaners. Il fatto che gli antagonismi e le discriminazioni razziali non vengano cancellate e che rivivano sotto nuove forme non attenua, bensì rafforza che sia interessante constatare che il cumulo delle rivendicazioni di uguaglianza per tutti con le richieste per un'emancipazione dei neri, ha fatto sì che non significasse «distruzione del Sudafrica» o «i bianchi a mare». Per questo, ciò ha significato una trasformazione profonda dello Stato che, del resto, è incompleto e incompiuto. La stessa cosa, sotto forme diverse, vale per tutti i paesi africani che rientrano nella sfera diretta di influenza del Sudafrica, uno dei quali fra l'altro (nel corso di questo processo, ma nel 1979) ha cambiato il suo nome da Rhodesia in Zimabwe. Se trasferiamo queste riflessioni su Israele, ciò significa che la realizzazione di tutte le rivendicazioni democratiche summenzionate non hanno corrisposto alla «distruzione dello Stato d'Israele», ma ad una sua fondamentale trasformazione strutturale.
Solo che questa fondamentale trasformazione strutturale non implica la dimensione secondo cui viene attaccata, in maniera fatale da grandi masse, con lo slogan di «distruzione dello Stato d'Israele», vale a dire la distruzione del gruppo nazionale ebraico-israeliano che si identifica con quello Stato. Al contrario, come elemento chiave, comporta il riconoscimento del diritto all'autodeterminazione dei palestinesi. Quindi, la formazione di uno Stato palestinese. Perciò, non si tratta di «distruggere» Israele, ma di imporgli quella fondamentale trasformazione strutturale cui corrisponderebbe questo ricononoscimento e questa prossimità reale. Si tratta di un'esigenza realmente «di transizione», nel senso di una rivendicazione che porta più lontano ciò che viene detto nel corso di un primo approccio. Poiché la prossimità di due Stati laici e democratici potrebbe davvero portare ad una loro federazione, alla loro confederazione, perfino alla loro fusione, un modello per tutta la regione...
Ovviamente è beninteso che la «distruzione di Israele» cementifichi i cittadini ebraico-israeliani in una logica da bunker coloniale, se non peggio. E questo mi porta ad affrontare due punti decisivi che devono portarci a condannare come politicamente reazionaria la posizione «antisionista» che si riassume nella formula della «distruzione dello Stato d'Isralele» (in cui la «Palestina unica, laica e democratica» dimostra di essere nient'altro che una copertura, un abito elegante ed una maschera avvenente).
Innanzitutto, se è assolutamente vero che lo Stato d'Israele è di natura coloniale, e quindi razzista, tendenzialmente etno-nazionalista e segregazionista, possiede tuttavia quella che è e rimane una specificità assoluta, che lo distingue radicalmente dal Sudafrica di prima del 1990, o dalle altre costruzioni coloniali, dal momento che la sua origine consiste nell'essere un fenomeno che ne ha fatto un rifugio per dei gruppi perseguitati.
Tutto questo non conferisce alcuna legittimità alla predazione e alla repressione dei palestinesi. Tuttavia, rimane un dato imprescindibile, che ha avuto il suo culmine nell'arrivo dei rifugiati sfuggiti alla Shoah, e più precisamente dalla fuga dell'Europa centrale ed orientale che era stata resa inabitabile per quelli che erano sopravvissuti, ma, contrariamente a quel che per lo più si pensa, un tale dato di fatto era presente prima, ed ha continuato ad esserlo dopo, e lo è ora. Ovviamente, la Shoah è il punto centrale che lo rende ancora più imprescindibile, ma la cosa non si riduce a questo.
Prima della Shoah, il termine «patria nazionale» significava rifugio, ed il sionismo, in quanto movimento nazionale, è stato una reazione all'antisemitismo (e non deroga alla regola secondo cui la più parte dei fenomeni di costruzione nazionale sono legati alla reazione contro un'oppressione: e questo è anche il caso della nazione palestinese, costituita come reazione all'oppressione israeliana).
Dopo la Shoah e dopo la proclamazione di Israele, praticamente, tutti i paesi arabi tranne il Marocco e la Tunisia hanno messo in atto un'epurazione etnica, aperta o mascherata, che fa sì che i sefarditi si rifugiassero in Israele. Questo è stato anche il caso dei Falascià etiopi, degli ebrei dell'Unione Sovietica, e successivamente della Russia, la cui migrazione, soprattutto dopo il 1991, assume un aspetto economico, compiendo una svolta che tuttavia non cancella la sua dimensione di «rifugio», in quella che ne è la percezione da parte dei suoi attori. Questa costruzione, che avviene attraverso migrazioni successive, pone altresì dei problemi di «integrazione», se non addirittura di razzismo, all'interno del gruppo ebraico-israeliano, la cui coesione esige ancor più la mentalità di bunker coloniale.
La persistenza dell'antisemitismo è un fenomeno mondiale che non è direttamente legato all'esistenza di Israele, ma tale esistenza rende permanente il carattere di rifugio per quel che riguarda il territorio di quello Stato. E questo, che ci piaccia o meno, è una cosa che dev'essere presa in considerazione.
In relazione alla trasformazione democratica strutturale e fondamentale di cui si è parlato, essa ha come conseguenza che se anche un giorno dovesse arrivare perfino a nascere una Palestina/Israele laica e democratica ... non facendo seguito alla «distruzione di Israele», ma attraverso una transizione ai due Stati, ciò implicherebbe che avrebbe ancora questa sua specificità di essere un rifugio per gli ebrei; salvo considerare che, dopo tutto, una Palestina/Israele laica e democratica non sarebbe né più né meno utopica della fine dell'antisemitismo, a livello globale, nel quadro di trasformazioni rivoluzionarie così tanto necessarie.
In secondo luogo, il tema della «distruzione dello Stato d'Israele» è condiviso anche da molti antisemiti e, nel settore mediorientale, viene sostenuto dall'Iran, da Hezbollah, da Hamas (cosa che non impedisce a quest'ultimo di essere oggettivamente sempre più alleato di Israele), e teoricamente è anche uno degli obiettivi di Bashar al-Assad (che ha massacrato molti più palestinesi di quanto abbia fatto Israele), ed è quindi fra i primi punti di un programma cosiddetto «antimperialista», e di fatto ultra-reazionario, di rimodellamento della regione. Una simile «distruzione» potrebbe anche essere accompagnata dall'epurazione etnica, dall'espulsione o dal massacro del gruppo nazionale ebraico-israeliano, la quale andrebbe di pari passo con dei massacri simili a quelli avvenuti in Siria, o come quelli avvenuti in Iraq, Turchia, Iran, che hanno preso di mira i curdi (per soprammercato, nel XX secolo, in Medio Oriente, si è già verificato un doppio genocidio che non è stato riconosciuto da nessuno dei regimi che sostengono di «combattere Israele», vale a dire di quello commesso contro gli armeni e gli assiri, o caldei, avvenuto nel corso della prima guerra imperialista mondiale). Pertanto, l'eventuale espulsione degli ebrei-israeliani, nella probabile eventualità storica della sua attuazione, non si annuncerebbe come una qualche sorta di sfortunata deviazione, che pareggerebbe costi e benefici, vista nel contesto di una vittoria antimperialista - simile a quello che è stato l'esodo dei «pieds-noirs» nel 1962 - ma piuttosto come il culmine di una regressione generalizzata.
Attenersi ad una «Palestina laica e democratica», mentre si nasconde la polvere di questa triste eventualità sotto il tappeto della rubrica delle inevitabili spese accessorie, dal momento che non sarebbe possibile fare una frittata senza rompere le uova, finisce per essere in realtà una posizione irresponsabile, in quanto reazionaria. A questo si aggiunge che l'espulsione-esodo dei pied-noir (come quella degli Harki e degli ebrei d'Algeria, quest'ultimi verso Israele) non è stata il necessario risultato di una vittoria democratica della nazione algerina sull'imperialismo francese, ma bensì l'infelice conseguenza del suo ritardo e delle politiche di entrambi, e che i suoi effetti reazionari sono pesanti (non serve per questo ricordare quanto gli debba l'impresa politica del clan della famiglia Le Pen). Ancora più terribili sarebbero gli effetti reazionari, su scala mondiale, di una «distruzione dello Stato d'Israele» nell'unica modalità realistica del suo verificarsi come espulsione e come massacro! I rivoluzionari seri, ai loro tempi, hanno potuto giocare il ruolo di Cassandre per quel che riguardava il progetto sionista. Oggi invece, nella nostra epoca, sono obbligati a giocare il ruolo di chi denuncia il progetto antisionista. E un tale ruolo, non porta in alcun modo ad aderire e ad unirsi al sionismo contemporaneo, o a coprire la repressione antipalestinese. Al contrario!
Ecco quali mi sembrano essere i due argomenti centrali che invalidano, da un punto di vista proletario, democratico, rivoluzionario, l'«antisionismo». Questi argomenti non rendono gli «antisionisti» - dei quali si sta discutendo qui la posizione - antisemiti, ma devono portarli a capire il perché a volte possono essere scambiati per tali, e perché sulla base delle loro posizione si assumono dei seri rischi di essere confusi e mescolati.
Ci sono ancora due considerazioni che si rendono necessarie: Chiunque osservi un po' il mondo in generale, e gli ambienti militanti, vecchi o giovani che siano, tradizionali del nostro vecchio mondo, a lungo andare, non può non essere colpito dalla dimensione compulsiva, ossessiva, irrazionale, che ha preso il nome di questione israelo-palestinese. Se venisse colta razionalmente come quella questione di oppressione nazionale che effettivamente è, sarebbe oggetto di campagne di difesa, di solidarietà, e messa in relazione con altre questioni analoghe come, per esempio, quella dei curdi. Ma non è così: essa viene colta come se si trattasse di una questione identitaria, per la quale bisogna infiammarsi. E non sto parlando affatto solo dei «giovani delle banlieue», i quali, in realtà, sono i primi a parlarne in maniera spontanea. Quante migliaia di militanti di sinistra ci sono in Europa, che hanno, per i loro sentimenti e per le loro azioni di solidarietà internazionale, solo delle assai vaghe nozioni geografiche, e ignorano il genocidio commesso in Ruanda contro i Tutsi, e che non sanno niente della Siria, identificando il nemico con alcuni paesi, come gli Stati Uniti e Israele, per l'appunto, e non si chiedono mai per quale motivo bisogni sempre manifestare preferibilmente, se non esclusivamente (e senza alcun risultato apparente!), a favore di alcuni territori di piccola taglia, perfino quando negli ultimi ottant'anni, la dittatura siriana o la monarchia giordana sono stati i più grandi massacratori di palestinesi?
Non capiscono niente ma sanno una cosa, e questa cosa è che in un posto che si chiama «Gaza» i bambini soffrono (cosa che è vera), e che in quel posto almeno si capisce chi sia gentile e chi cattivo. Come si spiega questo strano fenomeno psico-politico di massa? Mi sembra evidente che decenni di eredità stalinista, uniti a secoli e secoli di eredità cristiana, non possono essere estranei a tutto questo.
Perciò, i nostri coraggiosi militanti sarebbero degli antisemiti? Se l'antisemitismo fosse esplicito, sarebbero contrari. Ma il loro comportamento semi-cosciente rivela in parte quelli che sono dei fantasmi, insieme a delle rappresentazioni che costituiscono l'antisemitismo. E tutto ciò non per «stupidità», ma perché le condizioni della produzione e dello scambio, sotto il capitalismo, alimentano questo genere di rappresentazioni feticistiche (cosa che qui non intendo sviluppare). Quanti di questi militanti si definiscono, fieramente, se non con orgoglio, «anticapitalisti, antimperialisti, anticolonialisti, antirazzisti» ... e, «antisionisti» ?
Perché «antisionisti», oltre a tutto il resto? E non - non saprei - «antifranchisti», contro la monarchia spagnola, o antinucleari, o qualche altra cosa? Perché, quando ci sono milioni di Uiguri che si trovano nei campi di concentramento, quando ci sono i Rohingya che vengono massacrati, quando ... ecc., ecc. ... questa fissazione su una, ed una sola questione nazionale, che, territorialmente e demograficamente parlando, non è di gran lunga né la più importante né la più terribile, perché è stata eretta, in un accesso di fissazione universale, a simbolo del Male radicale, incarnando l'infelicità del mondo, fino al punto di sostituirsi ad esso? Non è forse strano? Perché questa compulsione ad affermarsi - nelle strade di Parigi, di Londra o di Berlino, e nelle aule di Columbia o di Boston - come «antisionisti», senza che d'altronde, a rigore, questo possa apportare niente alle legittime aspirazioni dei bambini di Gaza? Per chiarire ulteriormente quale sia il punto, anche se mi sembra che non ce ne sia più bisogno, ma che va detto, perché è vero:
sapete quando è apparso massicciamente, per la prima volta, il termine «antisionista» (a parte alcuni utilizzi assai circostanziali, soprattutto da parte del Bund nelle lotte politiche interne al mondo ebraico, e tranne anche da parte dei religiosi ebrei antisionisti)? Andate a rivedere il film di Kosta Gravas, La Confessione [L'aveau. 1970], e avrete la risposta: sono i torturatori stalinisti a dire alle loro vittime che a farlo sarebbero stati i «sionisti», per non dire «ebrei». Il termine compare, accanto a quello di «anti-cosmopolita», durante il processo Slansky (Praga, 1952), e poi nella caccia agli «assassini in camice bianco» (Mosca, 1953). La sua retorica sostituisce, e di fatto impedisce, il proseguimento di un discorso razionale contro l'istituzione dello Stato d'Israele, contro le sue modalità e contro la sua politica, vista nell'ambito del registro democratico ed anticoloniale.
Va notato anche che «antisionista» può anche essere inteso, e quindi compreso da alcuni, come «nemico di Sion», essendo «Sion» il luogo satanico evocato nel famoso falso, e modello di tutte le teorie del complotto, costituito da "I Protocolli dei Savi di Sion". L'utilizzo di antisionista è innanzitutto antisemita e stalinista, ed è solo in seguito che il termine viene ripreso, con tutto ciò che porta in sé senza rendersene conto, per significare la difesa della causa palestinese.
- Vincent Présumey - Pubblicato su Solitudes Intangibles il 22/2/2019 -
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