Le ombre di Kafka
- Editoriale di K - Revue trans-européenne de philosophie et arts - numéro 1 - 2/2018, pp.5-10
Con una straordinaria intuizione, Giorgio Agamben ha identificato la “colpa” di Josef K., protagonista del Processo, nell’autocalunnia, nell’accusa che egli fa a sé stesso calunniandosi e che mette in moto il romanzo (G. Agamben, “K.”, in Id., Nudità, Roma, nottetempo, 2009). Un reato paradossale, in cui l’accusato sa di essere innocente, ma in cui, nel momento in cui si autoaccusa, diventa colpevole (di calunnia, appunto). Ma perché K. calunnia sé stesso? Secondo Agamben, nel Processo l’accusa è la chiamata in causa dell’essere del diritto, che è appunto accusa nella sua stessa essenza, dal momento che l’essere, una volta “accusato”, perde la sua innocenza, divenendo “cosa”, causa, oggetto di lite. È contro questa origine del diritto che si scaglia Kafka. Dall’autocalunnia discende infatti nel romanzo un processo in cui non solo in causa non è nulla di preciso, ma in cui ad essere chiamata in causa è la stessa chiamata in causa, l’essenza stessa del processo. Ma, a cosa punta l’autocalunnia di Josef K.? Qual è il movimento che Josef K. (e Kafka) punta a mettere in opera? La sottigliezza dell’autocalunnia consiste nel fatto che è essa è una strategia che mette in questione la stessa implicazione fondamentale dell’uomo nel diritto, tentando di disattivare e rendere inoperosa l’accusa, la chiamata in causa che il diritto rivolge all’essere. La calunnia che Josef K. fa nei confronti di sé stesso è in altri termini un modo di affermare la propria innocenza di fronte alla legge, un mezzo di difesa contro le autorità che minacciano continuamente l’esistenza, irretendola nella logica della colpa, nella dimensione di una legge che appare sempre come una lancinante e grottesca caricatura di una Legge originaria a cui non è possibile avere accesso. Ma, come Kafka sperimenta proprio attraverso la stesura del romanzo, si tratta di una strategia insufficiente, perché il diritto risponde a questo tentativo di destituzione trasformando in delitto la stessa chiamata in causa e facendo dell’autocalunnia, che doveva renderlo inoperoso, il proprio nuovo fondamento. La frase che conclude il Processo è la conferma dello scacco di questa strategia, radicale e fallimentare al tempo stesso, ma testimonia anche di uno spostamento radicale di prospettiva. “Come un cane!” disse, era come se la vergogna dovesse sopravvivergli». Le parole finali del romanzo in tutti i sensi centrale nell’opera di Kafka, non solo pongono in modo esemplare il dilemma adorniano della necessità/impossibilità di interpretare i testi dello scrittore praghese. Nel momento della condanna, che è anche esecuzione, Josef K., una delle incarnazioni più limpide dell’uomo della conoscenza alla ricerca della verità che attraversano l’opera di Kafka, diventa infatti (come un) animale, tentando, dopo il fallimento della sua strategia di destituzione del diritto, di sottrarsi alla presa della legge e alla colpa che essa genera.
Ma, come già avveniva nella Metamorfosi, questa trasformazione ha un residuo essenziale, la vergogna, che è l’unica cosa che sopravvive al confronto impari tra l’uomo che cerca la verità e la legge. Proprio per questo si può ipotizzare che in Kafka l’animale non sia semplicemente il senza coscienza hegeliano, e neanche l’animale nietzschiano che è identico con il proprio essere corpo ed istinto. L’animale kafkiano è un animale che ha già attraversato la colpa di essere umani, un animale che ridiventa animale comprendendo in sé tutta la disumanità dell’essere uomo, e, in particolare, dell’essere uomo della letteratura: il travaglio della solitudine, la lotta senza mandato e legittimazione da parte di una comunità che non riconosce più la funzione della letteratura, lo scempio di una vita vissuta solo in funzione della scrittura, un animale che si assume la colpa di non essere animale e di non essere più uomo. Nell’opera di Kafka si assiste forse allora anche ad un movimento di destituzione dell’idea di animalità “acefala”, desoggettivante, impiegabile in direzione biopolitica. La vergogna infatti sopravvive, è un residuo del diventare animale, un resto di una morte che non compie, non conclude. La stessa morte diventa così un compito infinito, come la scrittura, Come ha scritto Blanchot, Kafka «va verso il poter morire attraverso l’opera che scrive» (M. Blanchot, De Kafka à Kafka, Paris, Gallimard, 1981), perché l’opera è essa stessa un’esperienza (interminabile) della morte.
Se questa traccia è giusta, se cioè l’animale che vive l’esperienza ignominiosa della morte degradante dell’ultima pagina del romanzo è in prima istanza lo scrittore (il Processo, per non parlare degli infiniti luoghi dell’opera kafkiana, delle lettere e dei diari, lo conferma in numerosi punti), si può ipotizzare che una spinta destituente in atto nell’opera di Kafka – minare l’essenza stessa del diritto, con tutte le sue premesse ontologiche, teologiche e politiche, attraverso un movimento di sottrazione – giunge ad uno scacco essenziale, che ha però il potere di aprire un orizzonte ulteriore e ancor più radicale, in cui cerca di muoversi l’opera dell’ultimo Kafka.
La vergogna che il romanzo secerne come suo ultimo resto è infatti sicuramente la vergogna di essere scrittore, la colpa della letteratura in quanto risultato della libidine oscena di un vizio solitario che desacralizza la vita trasformandola in immagine, in pagina perfetta (colpa di cui è monumentale testimonianza il carteggio di Kafka con Felice Bauer, che è la premessa della stesura del Processo). Ma, per il senso di orgoglio e ribellione in essa impliciti, essa esprime anche il senso di umiliazione di uno scrittore che non è riuscito a dimostrare al potere che amministra la vita che la via della letteratura conduce alla salvezza e alla conoscenza della verità. Incapace di accettare il potere di un’istituzione che si è costituita come un sistema impenetrabile di forme intransitive, nell’ultima scena del Processo Kafka rappresenta sicuramente l’esecuzione dell’uomo della letteratura, ma indica anche, proprio in quel senso di vergogna che va oltre la punizione dell’animale letterario, l’orizzonte di una diversa funzione dello scrittore che non si rassegna a cedere la letteratura al potere dell’apparato.
Fare il punto su questo nodo cruciale dell’opera di Kafka, che, a differenza di quanto a lungo proposto dalle diverse mitologie kafkiane, conosce una sua evoluzione interna molto precisa (c’è un Kafka della Metamorfosi, e uno, ad esempio, del Castello, che ha attraversato, facendosi carico appunto della colpa della scrittura, le aporie della cultura del suo tempo), significa – ancora oggi, dopo decenni di filologia kafkiana – porsi il problema di ricordare quante implicazioni abbia per Kafka l’essere scrittore, l’essere “uomo della letteratura”.
Come ha mostrato Giuliano Baioni (Kafka. Letteratura ed ebraismo, Torino, Einaudi, 1984), Kafka è diretto erede di quella cultura borghese dell’Ottocento romantico che attribuiva allo scrittore il preciso ruolo sociale di vittima sacrificale votata alle estasi di un martirio grazie al quale l’assoluto si rendeva visibile all’uomo nelle forme della poesia. Una concezione estetica, quella da cui muove la cultura giovanile dello scrittore, non ancora incardinata sulla crisi della parola e sulle sollecitazioni nietzschiane proprie delle prime avanguardie e quindi persino in ritardo rispetto ai risultati più avanzati della letteratura di inizio Novecento. È anche da questo “ritardo”, da questa radicale inattualità delle posizioni di partenza dello scrittore di una Praga in parte periferica rispetto ai centri culturali del tempo, che in Kafka germina la potenzialità di un’altra letteratura, che, nei suoi risultati estremi, destituisce di senso e funzione la dinamica innovatrice, tutta interna alla cultura borghese, delle avanguardie, aprendo una dimensione letteraria totalmente nuova.
Il perfezionismo della propria ricerca letteraria colloca Kafka in primissima fila tra i martiri ascetici della produttività borghese, tra quegli scrittori che oppongono al terrorismo della competizione di mercato il terrorismo speculare di una ricerca letteraria assoluta, come avviene ad esempio per Flaubert, lo scrittore che Kafka ha idolatrato e da cui ha tratto un’idea della letteratura come ascesi della produzione nella quale lo scrittore si isola completamente dal mondo per nutrire la letteratura con la propria vita, un’idea castratoria e narcisistica della letteratura che, in particolare nella cultura tedesca, ha fatto di Flaubert il padre dell’estetismo europeo, l’inventore di quella «macchina celibe» che è stata per Kafka la letteratura.
Un racconto, tanto celebre quanto cruciale, come La colonia penale, dice però chiaramente come la macchina delle parole, il congegno traduttore delle metafore che è la letteratura, non funzioni più. La «macchina celibe» della Colonia penale rappresenta appunto questa funzione mortale della letteratura in un’epoca in cui il dolore dell’esistenza artistica non significa più, come accadeva nel passato, l’estasi e il martirio in nome della conoscenza. Nella sua funzione di macchina che traduce i disegni labirintici sia in parole leggibili sia in belle figure ornamentali, il congegno della Colonia penale sembra ad un primo sguardo la metafora di una letteratura che, sia pure al prezzo di un indicibile supplizio, garantisce quell’unità di bellezza e verità che è il punto di partenza della cultura estetica di Kafka. Ma nel racconto la macchina delle parole, il congegno traduttore delle metafore, non funziona più, o meglio, funziona solo per sé stessa, proprio perché l’esercizio della letteratura non è più la catarsi di una cerimonia sociale, ma può essere solo l’abominevole rito di una esecuzione solitaria. I presupposti poetologici di questa concezione della letteratura sono da ricercare in particolare in quel fenomeno della metamorfosi della metafora prodotto dalla complicità tra naturalismo e culto décadent della forma, essenziale per la letteratura tra l’Otto e il Novecento. Il naturalismo, inteso come compimento e superamento del realismo ottocentesco, tende ad annullare la parola nelle cose in nome di uno sperimentalismo scientifico che trasforma la scrittura, da forma di conoscenza, in puro procédé, con il risultato di affermare il principio tecnico di una mimesi che implica la catastrofe della funzione ermeneutica del linguaggio e l’instaurazione del dominio assoluto della forma. D’altronde, già con La metamorfosi Kafka aveva infatti registrato quell’evento catastrofico all’origine della letteratura moderna che è la metamorfosi della metafora. Concependo testi che sfidano il lettore a comprenderli su di un piano diverso da quello della semplice lettura, Kafka pone al lettore domande ineludibili che però costantemente spingono al di là dell’immagine, in direzione di un significato che sembra essere solo alluso o cifrato. Ma, se il lettore, con la sua domanda, inevitabilmente trasforma l’immagine in un simbolo e deve poi condurne la sua lettura come una interpretazione di simboli, ciò è dovuto al fatto che Kafka stesso ha vissuto queste sue immagini come degli oggetti metaforici totalmente negativi, ponendosi, come ha scritto già diversi anni fa franco Fortini (“Gli uomini di Kafka e la critica delle cose”, in Id., Verifica dei poteri, Milano, il Saggiatore, 1965), deliberatamente al di fuori del linguaggio poetico. Le immagini di Kafka non sono infatti forme catartiche, non istituiscono un rapporto che leghi l’orrore del significante alla liberazione di un qualsiasi significato. Non trovando all’interno del testo un senso che le trascenda, esse non rimandano, come pure fanno credere, ad una verità che stia al di là della loro bellezza fisica. Sono semplicemente presenti come materia metaforica, bella ma proprio per questo impermeabile a qualsiasi interpretazione, e il loro grado di verità è unicamente nella funzione che hanno di essere la causa di una domanda che induce il lettore a fabbricarsi, anche inconsapevolmente, una certa chiave della lettura e a compromettersi, in maniera spesso irreparabile, con un’interpretazione univoca e rassicurante. Il carattere «non estetico» della narrativa di Kafka risiede così nell’opacità delle sue immagini che hanno, per questo, molto dell’allegoria benjaminiana che, nel rifiutare la trasparenza del simbolo, è anti-catartica, non più estetica.
L’ambiguità istituzionale della letteratura si trasforma così in Kafka nel sistema di un prospettivismo totale nel quale la metafora-oggetto diventa la causa meccanica di infiniti modi della lettura che non investono solo gli attributi formali del testo o la sua collocazione storiografica, ma anche il problema, del tutto interno al testo, di un significante che sembra rimandare a un significato assente o inaccessibile. La metaforicità assoluta della poesia moderna, l’attività illimitata di una cultura semiotica che trasforma ogni cosa in segno e nel segno di un segno, è il modo in cui Kafka vive la cultura dell’età post-nietzschiana.
Nel frammento Delle similitudini, Kafka definisce l’imperativo della metafora come un «Va’ dall’altra parte», che forse vuol dire: «sii tu stesso una metafora», «vivi la tua vita nella metafora». Se questo è vero, il dovere di seguire l’imperativo della similitudine diventa il dovere di distruggere la letteratura. L’ethos flaubertiano della costruzione dell’oggetto estetico assoluto deve fare posto a quello della sua distruzione secondo la tecnica dell’interpretazione, di cui Kafka ha dato un modello esemplare nell’esegesi della parabola del Processo, in cui fa letteralmente a pezzi una pagina di “bella letteratura”, creando una nuova forma di letteratura che nega il principio della propria autonomia. Se questa dialettica tra costruzione del testo e sua necessaria distruzione per mezzo dell’interpretazione sarà la legge che informa l’opera tarda dello scrittore, in cui Kafka intenderà la propria esistenza come un processo esegetico ininterrotto e la propria opera come «una nuova dottrina esoterica, una Cabbala», ciò avviene perché nella fase del Processo egli ha rappresentato la catastrofe più clamorosa della letteratura proprio là dove la letteratura stessa celebrava il suo trionfo.
Accanto al Kafka che ha avuto il coraggio di concepire gli orrori della Metamorfosi e della Colonia penale c’è tuttavia anche il Kafka che si è proposto di redimere la letteratura dalla sua mostruosa intraducibilità perseguendo costantemente, al prezzo della sua stessa vita, un testo che, se non poteva sperare di contenere la verità, doveva almeno rappresentare una continua proiezione verso l’al di là dell’immagine, un assalto al confine nel senso di un assalto al concetto stesso di confine. La similitudine di cui si serve la letteratura può essere tutt’al più un rinvio allusivo ad una verità in ogni caso inaccessibile, ma non può in nessun modo esercitare la funzione della metafora piena e significante. Come ha scritto ancora Blanchot, la scrittura diventa così in Kafka una macchina che scrive sé stessa, una danza, una eterogenesi dei fini, un flusso in cui lo scrittore stesso, il soggetto creatore della cultura estetica di ascendenza romantica, attraversando la letteratura precedente, scompare, per riemergere in una dimensione nuova, nel deserto in cui iniziare quell’assalto al confine estremo che è al centro dell’opera dell’ultimo Kafka. La fine del simbolico, e il problema della verità che con questa catastrofe si spalanca, prende le mosse da questo cortocircuito: la cosa non è mai la cosa, ma sempre il segno di un altro da sé, che però non è un simbolo decifrabile, ma semplicemente un oggetto simbolico, cioè, di nuovo una cosa. È proprio per questa radicale ambiguità che l’opera di Kafka si rivela essere il caso estremo di uno sperimentalismo che, a differenza da quanto perseguito dalle avanguardie, non ha per oggetto la struttura formale dell’opera, ma la vita stessa del suo produttore, che letteralmente si distrugge per obbedire al comandamento della similitudine. In un mondo in cui la parola poetica non è più un segno che sta metaforicamente in luogo di qualcosa d’altro, la parola è la cosa, come Gregor Samsa è uno scarafaggio, e la bellezza diviene il regno di un terrore intransitivo. Mancando sia la causa che il fine della metamorfosi, l’immagine dell’insetto non è più nemmeno un’immagine, ma un corpo metaforico negativo che indica l’assenza del significato con una forza di persuasione illimitata. La letteratura, che in questo modo si è trasformata in un’istanza terroristica, è solo bella e, nel momento in cui non può più rappresentare un altro da sé, è anche solo corpo. In questa sua orrida fisicità, la poesia di Kafka può quindi riflettere pienamente gli automatismi formali del mondo moderno. Come ha scritto Benjamin, «anche Kafka è uno che viene sognato; coloro che lo sognano, sono le masse» (W. Benjamin, Gesammelte Schriften, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1977, vol. II/III).
In tal senso Kafka è anti-heideggeriano: se si impegna in una lotta mortale per riportare su di un piano umano la natura ingannevolmente trascendente della colpa, ciò avviene perché il suo fine è di gettare le premesse di una rivoluzione, di una comunità a venire. Come hanno chiarito in modo definitivo Deleuze e Guattari, in Kafka tutto è politica, tutto è collettivo, dal conflitto che oppone padri e figli, che non è edipico, ma rappresenta il germe di un programma politico, al fatto che le sue enunciazioni, il suo “stile” inconfondibilmente individuale, trapassi in enunciazione collettiva, perché la letteratura viene ad assumere su di sé questa funzione, divenendo potenzialmente rivoluzionaria (G. Deleuze-F. Guattari, Kafka. Pour une littérature mineure, Paris, Les Éditions de Minuit, 1975). La macchina letteraria anticipa la macchina rivoluzionaria a venire proprio perché in essa non c’è una sola parola che sia ideologia. Dal momento che essa solo può soddisfare le condizioni di un’enunciazione collettiva che, nell’ambito di una letteratura minore, non sono presenti in alcun luogo, questa letteratura diventa affare del popolo. Se, come detto, per un certo periodo, Kafka ha pensato secondo le tradizionali categorie della cultura estetica in cui si è formato (incluso le coppie autore ed eroe, narratore e personaggio, sognatore e sognato), l’evoluzione della sua opera consiste nella rinuncia al principio del narratore e del rifiuto di una letteratura d’autore o di maestri. Gli ultimi racconti testimoniano questo processo chiaramente, da Josephine la cantante-topo che rinuncia all’esercizio individuale del canto per fondersi nel collettivo della moltitudine della sua gente, al passaggio dall’animale individuato alla muta collettiva dei sette cani musicanti delle Indagini di un cane, in cui i pensieri del solitario ricercatore tendono al legarsi all’espressione collettiva della specie canina, anche se questa collettività non è più o non è ancora data. Nell’opera tarda dello scrittore praghese, il soggetto si scioglie in quelli che Deleuze e Guattari definiscono “concatenamenti collettivi d’enunciazione”, che la scrittura esprime nelle condizioni in cui esistono soltanto come potenze diaboliche (come in Un medico di campagna) o come forze rivoluzionarie a venire. La solitudine dello scrittore, il vuoto che si crea dopo che egli ha vampirizzato la propria vita per la letteratura, sono le premesse per l’apertura a tutto ciò che attraversa la storia. La parabola letteraria di Kafka dice, in altri termini, che la letteratura, intesa come costruzione estetica che conferisce senso alla realtà, ha fallito la prova della storia, uscendone distrutta, o trasformata in un’altra letteratura. La storia, mai come in questo caso, non è una categoria astratta, ma è concretamente la Grande Guerra, intesa come evento epocale che segna la spaccatura irreversibile tra verità e realtà dei fatti storici. Nella sua natura erratica, l’opera di Kafka è non solo l’allegoria di ciò che la Grande Guerra significa per la cultura europea, ma ne è anche una delle poche espressioni (insieme al Proust di Deleuze, l’ “altro Kafka”, l’altro scrittore di guerra) capaci di rappresentarne, proprio in virtù di quanto detto sopra, l’irrapresentabilità. In altri termini, la questione a cui cerca di dare risposta l’impossibile lotta contro il confine condotta da Kafka dopo la conclusione del Processo è: cosa può/deve essere la letteratura nell’epoca dopo la fine della Storia? Dopo le carneficine della prima guerra della tecnica, dopo la distruzione dell’umanità dell’uomo avvenuta nelle trincee del primo conflitto mondiale, la verità non è più attingibile né da una letteratura realistica o simbolistica, né dalla sua negazione speculare, una letteratura d’avanguardia. In uno dei suoi ultimi racconti, La tana, Kafka ha invece saputo tradurre l’irrappresentabile della Grande Guerra in una costruzione metaforica assoluta in cui, senza dire nulla della guerra come fatto storico o come esperienza, la nudità del soggetto post-bellico traspare in tutta la claustrofobica logica autoreferenziale della sua costruzione. L’animale post-umano protagonista del racconto, che ovviamente è ancora una volta anche lo scrittore, prigioniero dell’interminabile attività di costruzione della sua opera, rivela in modo chiaro come la potenza destituente della scrittura kafkiana emerga proprio perché non sono i protagonisti delle sue opere ad incarnarla. Al contrario, come quasi tutte le figure kafkiane, esso non sa stare nell’aperto, non sopporta l’idea che l’interpretazione-costruzione non sia più una pratica per accedere alla verità o fondare un centro (M. Cacciari, Icone della legge, Milano, Adelphi, 1985). Sono invece le situazioni – i testi – a tradurre in immagine la dimensione destituente in cui si trova a vivere l’uomo post-kafkiano. Il mondo del testo è traduzione allegorica del mondo destituito di qualsiasi fondamento, in cui si muove un “eroe” che non può accettare la fine del domandare, il fatto che l’interpretazione, per quanto infinita, non conduca alla verità. I personaggi di Kafka non sanno vivere (e di qui discende, il grottesco, e soprattutto, il comico, che è una dimensione essenziale dell’universo kafkiano) in quella dimensione intimamente antinomica in cui pure si muovono, che il testo è. Cosa resta quindi di Kafka? Dopo gli imponenti risultati che la filologia ha raggiunto negli ultimi decenni, è forse possibile iniziare a sottrarre Kafka alle sue mitologie. Kafka e la sua opera sono anche teologia, psicanalisi, esistenzialismo, germanistica, sono sicuramente il terreno ideale per lo strutturalismo, il decostruzionismo, i cultural studies. Ma, dopo circa un secolo, provano anche l’impossibilità di essere ridotti ad interpretazioni unitarie o univoche, ad un senso. Nella scrittura di Kafka è infatti continuamente in atto una radicale forma di liberazione della scrittura da sé stessa, un tentativo così radicale di cancellare la dimensione soggettiva dall’esperienza dell’arte, da giungere fino al punto in cui una scrittura senza autore e senza soggetto può diventare una scrittura di tutti. Anche elementi apparentemente accidentali (e peraltro a lungo costitutivi della mitologia kafkiana), come la volontà di far distruggere i propri scritti, il non risolversi mai per una vita da scrittore di professione, sono espressione di questa esperienza della scrittura come flusso infinito, lavoro di una macchina impersonale, pratica di resistenza destituente in cui arte e vita coincidono oltre la loro reciproca elisione, fino ad essere la possibile voce di tutti e di nessuno.
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