sabato 9 marzo 2019

Ladri di biblioteche

Nella primavera del 2012, Massimo De Caro viene arrestato per avere svaligiato l'antica biblioteca dei Girolamini di Napoli, di cui si è fatto nominare direttore. È l'epilogo di una parabola esistenziale che nel giro di quindici anni ha trasformato «Max Fox», bravo ragazzo di provincia, studente svogliato e bibliofilo dilettante, non soltanto in un predatore seriale di libri antichi, ma anche in un falsario prodigioso, e in un faccendiere spregiudicato. Forse, però, la rocambolesca vicenda di De Caro non parla soltanto di lui. Parla di un mondo che è il nostro: il mondo post-verità e post-onestà. Ed è sotto la spinta di questo dubbio civile che Sergio Luzzatto accetta il rischio di una «relazione pericolosa». Incontra il detenuto De Caro, ne studia i moventi, ne ricostruisce le reti. Coniugando lo sguardo analitico dello storico alla passione affabulatoria del narratore, trasforma la vicenda di un uomo nel romanzo di un'epoca.

(dal risvolto di copertina di: Sergio Luzzatto, "Max Fox o le relazioni pericolose". Einaudi)

L'impostore dei Girolamini
- di Gianluigi Simonetti -

«Robespierristi, anti-robespierristi, vi supplico: per pietà, ditemi semplicemente chi è stato Robespierre». Questa, secondo uno dei più grandi storici del Novecento, è la domanda che distingue lo storico dal giudice (e dal questurino). Preferendo la verità al giudizio, la richiesta rimanda alla questione che si pone ogni scrittore vero; e che si pone specialmente il romanziere, che sa meglio di tutti quanto sia fondamentale sospendere il giudizio sui propri personaggi. Eppure l’analogia si ferma qui: perché la verità dello storico è quella delle fonti e degli archivi, catafratti dal passato, riportati in vita e sottoposti a critica; una verità senza invenzione, senza contraddizione e senza ombra, luminosa perché assoluta, terribile perché (almeno in teoria) scientifica e severa. Il romanziere, al contrario, sa perfettamente che la propria verità, sempre parziale, zampilla dall’artificio e dalla finzione. L’ombra è la sua patria; l’ironia (comica o tragica) è il ferro del suo mestiere. «Non aver paura dell’umorismo», ammonisce Bertolt Brecht da letterato, «la storia senza umorismo è stomachevole».
Traggo questa frase (come pure quella di Marc Bloch che apre questo articolo) dal nuovo libro di Sergio Luzzatto appena uscito per Einaudi. Max Fox, o le relazioni pericolose indaga la vicenda criminale di Marino Massimo De Caro, meglio noto come ’”il mostro dei Girolamini”: nel 2012, appena nominato direttore dell’omonima antica biblioteca dei padri oratoriani, monumentale scrigno della cultura napoletana (nel primo Settecento, la biblioteca prediletta da Giambattista Vico), De Caro sospende il servizio di prestito, esonera i responsabili dei servizi di sicurezza, disattiva gli impianti di videosorveglianza. Poi inizia una sistematica attività di smembramento e manomissione dei fondi librari, che culmina in pochi mesi nel furto di migliaia e migliaia di volumi, venduti sul mercato antiquario italiano e europeo col supporto di una banda pittoresca (un sacerdote ligure, un guardaspalle argentino, una modella ucraina, svariati mercanti e collezionisti di antichità). Luzzatto ricostruisce, a partire da questo esito, tutta la precedente carriera criminale di De Caro: non solo predatore di libri antichi, ma anche falsario improvvisato ma efficace, finto professore senza laurea, servo di molti padroni, portaborse di tutti i partiti (comincia come assistente di un senatore comunista, finisce braccio destro di Dell’Utri).
Figura esemplare della sua epoca – è nato nel ’73 – perché privo di identità e senso del limite: ladro ma anche guardia (è stato allievo carabiniere), famelico con il pubblico ma generoso con i privati, attratto dal lusso ma tentato dal sacro. Studente svogliato all’università di Siena, in quella di Padova, da detenuto, capace di superare brillantemente trentuno esami in un anno. Vitalistico, ma votato all’autodistruzione; per molto tempo impunito, da sempre inconsciamente alla ricerca di una punizione. Comico, nella sua totale inaffidabilità; sinistro, per le conseguenze di certe sue azioni. Una macchietta, per certi versi; per certi altri, un enigma.
Non siamo lontani, apparentemente, dallo stile di altre ricerche di Luzzatto, consacrate a figure o episodi emblematici dell’immaginario contemporaneo; penso in particolare a Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento, che nel 2007 proponeva una parabola della contraddittoria modernità italiana a partire dallo scavo archivistico di una personalità esemplare del nostro ventesimo secolo. La differenza è che stavolta non ci sono archivi né distanze, e la fonte principale è costituita da De Caro stesso (sullo sfondo di una gran mole di dati e documenti), che Luzzatto ha intervistato a più riprese, di persona o in via telematica (Max Fox è il nome dell’avatar che De Caro usa su skype), fra il 2015 e il 2018. Lo storico deve guardarsi da ogni impiego azzardato delle fonti, e da ogni cedimento al cosiddetto «ricatto del testimone» (specie quando, come in questo caso, testimone, criminale e impostore sono la stessa persona). Invece il romanziere può inventare, anzi deve, ogni volta che sente che la realtà non basta; il suo modo di conoscere non sa essere asettico, lui per primo sperimenta il fascino sottile dell’impostura. Per funzionare, le fantasie del romanziere devono entrare in sintonia, anche pericolosa, con le fantasie del suo lettore. Così, in Max Fox, la ricostruzione minuziosa del passato fa posto a un’insidiosissima storia del presente («nulla più che un ossimoro»); o più profondamente, a una riflessione sulla storia stessa come mistificazione. Il paradigma scientifico (o quasi) della storiografia lascia il posto a quello relativistico del romanzo. E romanzesca, ovvero ambigua, è la verità che Max Fox finisce per esprimere.
Della matrice letteraria della propria ispirazione Luzzatto si mostra più che consapevole; direi anzi che si diverte a celebrarla, giocando (ancora una volta, da scrittore) sul filo delle coincidenze e delle simmetrie. Nel settembre del 2015 usciva nelle librerie italiane L’impostore di Javier Cercas, storia del mitomane Enric Marco, finto militante dell’opposizione antifranchista, finto deportato nei Lager nazisti; solo un mese dopo, in ottobre, la conversazione fortuita con un libraio antiquario torinese spingerà Luzzatto a cercare e leggere la sentenza del processo a De Caro, e due mesi dopo a incontrarlo per convincerlo a raccontargli la sua storia («Il mio progetto avrebbe avuto senso unicamente se De Caro avesse accettato di diventare il mio impostore»). Non solo: quando inizia a lavorare a Max Fox Luzzatto vive già da tempo a Ferney-Voltaire, il paese alle porte di Ginevra nel quale Emmanuel Carrère si era stabilito per scrivere L’avversario, dedicato a un altro estremista della mitomania - Jean-Luc Romand, che nel ’93 aveva ucciso moglie, figli e genitori dopo aver passato una vita a far credere loro di essere, lui disoccupato, un medico e studioso di fama mondiale. All’Impostore e all’Avversario, capolavori del non fiction novel, si potrebbe aggiungere un modello più antico, occulto ma non meno sconvolgente (e forse più importante dal punto di vista letterario): A sangue freddo, di Truman Capote, indagava nel 1966 la storia di un vero massacro, mostrando lo scrittore a contatto diretto con i due assassini, e mettendo a punto quello che poi sarebbe diventato un capostipite del moderno romanzo-verità. Ma oltre a questo raccontava, implicitamente e in progress, niente di meno che l’innamoramento dell’autore per uno di quei due carnefici; regalando a quell’opera una parte non trascurabile del suo straordinario fascino.
Rispetto ai prototipi di Cercas e di Carrère Max Fox propone un narratore che parla di sé assai più sobriamente. Né d’altra parte Luzzatto si lega morbosamente al ”suo” impostore, alla maniera di Capote. Ma come i bravi narratori sanno fare, anche Luzzatto accetta, e lascia fermentare, la reazione ambivalente che produce il contatto col suo doppio – il De Caro narratore e mistificatore diabolico: in un certo senso, il De Caro romanziere. Non sembra esagerato ipotizzare che se quella di De Caro è un’ossessione per i libri come oggetto, quella di Luzzatto è un’ossessione per la scrittura come gesto; ciascuna legata a una febbre personale, ciascuna guidata dal proprio mediatore (Dell’Utri per De Caro, Cercas e Carrère per Luzzatto). Ma mentre il desiderio di De Caro è feticistico, e per questo sterile, quello di Luzzatto è creativo, e partorisce un’opera. Prima di iniziare gliel’avevano pur detto, i colleghi coscienziosi, di maneggiare con cautela la storia di quel ”mostro”: «Se serve a far capire che i “cattivi” sono i ricchi collezionisti, i mercanti, gli intellettuali silenti, e che lui è solo un povero sciocco, uno spiantato, un mitomane, allora va bene. Se alla fine lui “fa simpatia”, o peggio giganteggia, è un guaio serio». Simpatia per De Caro, Luzzatto ne prova al primo incontro; nel corso del tempo proverà per lui addirittura affetto (ricambiato), insieme a rabbia, sconcerto e delusione.
Se Max Fox funziona, sul piano letterario, lo si deve anche al fatto che non assolve e non condanna, fedele a quella legge profonda del romanzo che è l’indecidibilità morale. «Lui si vede come un eroe, ma lo si può considerare anche una carogna: io sospendo il giudizio»: così Carrère di Limonov, nel suo grande romanzo omonimo; così Luzzatto per De Caro, altro stranissimo eroe del nostro tempo.

- Gianluigi Simonetti - Pubblicato sul Sole del 24/2/2019 -

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