La filosofia di Giulio Cesare Vanini (Taurisano 1585 - Tolosa 1619) è probabilmente l'espressione più estrema del radicalismo della seconda decade del Seicento. Il pensatore pugliese, inizialmente frate carmelitano, rappresenta in qualche modo la coscienza filosofica in cui vengono alla luce tutti gli elementi di crisi dell'eredità umanistico-rinascimentale: demolisce il mito dell'antropocentrismo, scardina i principi del platonismo cristianizzato, fa scricchiolare i pilastri dell'aristotelismo concordistico, smantella la costruzione di un universo compatto, finito, armonizzato, avente al suo vertice Dio e la schiera delle intelligenze angeliche, stronca ogni forma di teleologismo, sfata il mito del primato dell'uomo nella scala degli esseri viventi, manda in frantumi i più consolidati princìpi dell'etica cristiana, smaschera le illusioni della magia e dell'astrologia. In positivo, teorizza un universo autonomo nella sua composizione materiale e nei suoi princìpi costitutivi di moto e di quiete e recide alla radice il rapporto della natura con Dio, poiché nega non solo l'atto creativo, ma anche l'attività assistenziale, provvidenzialistica e finalistica, di un'intelligenza sovra-celeste.
(dal risvolto di copertina di: Giulio Cesare Vanini , "Tutte le opere". Testo latino a fronte. Bompiani)
Anticipò Darwin, sfidò la Chiesa: l’«aquila degli atei» che morì da filosofo
di Matteo Trevisani
«Andiamo a morire allegramente da filosofi», disse Giulio Cesare Vanini al suo boia, il pomeriggio del 9 febbraio 1619. Poco dopo gli verrà strappata la lingua, strumento con la quale aveva offeso Dio e il re, verrà strangolato e il suo corpo bruciato sul rogo si consumerà illuminando Place du Sulin, a Tolosa. Aveva trentaquattro anni.
È con quest’atto cruento che si compie, diciannove anni dopo il più famoso rogo di Giordano Bruno in Campo de’ Fiori, l’ultimo tratto della parabola di Vanini, filosofo italiano, principe dei libertini, aquila ateorum.
Mi sono chiesto a lungo che cosa significasse «morire da filosofi» e in che cosa questo differisse dal morire di tutti. Se fosse solo una frase a effetto, la volontà di non mostrarsi vinti del tutto, l’arroganza ultima di chi crede di essere dalla parte della ragione. Ma per capire fino in fondo il significato della morte di Vanini bisognava partire dalla sua vita. La straordinaria storia del più ateo dei filosofi del Rinascimento è fatta di fughe repentine, di abiure, di prigionìe, di spionaggio e diplomazia, ma anche di audacia e coraggio, di una fede perduta e amore per l’essere umano.
Giulio Cesare Vanini nasce a Taurisano, in Salento, nel 1585, in una famiglia piuttosto agiata. Studia diritto a Napoli, dove nel 1603 entra nell’ordine dei carmelitani. Rimarrà nella città partenopea nove anni prima di iscriversi alla facoltà di filosofia a Padova, centro di quell’aristotelismo non allineato che ai dogmi teologici preferisce indagare i misteri della natura. Probabilmente conosceva già l’opera di quello che riterrà il suo maestro: l’aristotelico Pietro Pomponazzi, che nella sua opera più nota aveva sancito l’impossibilità di dimostrare l’immortalità dell’anima. A Padova si consuma il primo dei molti strappi che saranno la costante del suo peregrinare: dopo alcune prediche contro il maestro del suo ordine, gli viene imposto il ritiro in uno sperduto convento di Calabria. Vanini decide allora di fuggire in Inghilterra, dove la Chiesa anglicana offriva volentieri asilo agli apostati in funzione di propaganda anticattolica. Da quel momento cominciano anni di peregrinazioni e fughe, in cui Vanini e il suo spirito inquieto troveranno rifugio in molte città europee, aiutato dalla diplomazia internazionale e al contempo braccato dal controspionaggio. Quando alla fine il Papa lo richiama a Roma, sa che la sua vita è in pericolo. Fiuta l’inganno dell’Inquisizione e decide di fermarsi a Genova per poi riparare a Lione, dove pubblica il suo Amphitheatrum, seguito l’anno successivo dal De Admirandis, stavolta a Parigi, che gli procura un immediato successo presso i circoli libertini della capitale francese.
Lo strappo, non più ricucibile, è anche filosofico: sotto le spoglie di una forma apologetica e di un lessico platonico, il filosofo teorizza il suo personale e rivoluzionario ateismo, in cui l’uomo viene liberato da ogni dogma e il mondo da ogni vincolo metafisico. Dio non è più il vertice della scala degli esseri, ma una menzogna messa in atto dalle religioni allo scopo di suscitare timore nel popolo, la Bibbia poco più che una favola, Cristo un impostore.
Lo stile dissacratorio di Vanini abbraccia ogni ambito: la visione antropocentrica dell’uomo si dissolve, diventa un essere come gli altri in un universo meccanicistico e l’assoluta autonomia di cui gode la natura non è soggetta a nessuna provvidenza divina. All’interno di questo mondo liberato dal peccato e da ogni superstizione magica il sesso non ha connotazioni negative, perché garantisce il proseguimento della specie: l’innovazione di Vanini sta nell’affidare all’uomo stesso e a lui soltanto la responsabilità della propria condizione. L’anima è mortale, non esiste nessuna volontà organizzatrice e la vita dell’uomo è inserita soltanto nell’orizzonte della natura, niente di più. Niente è eterno, ma tutto è soggetto alle leggi naturali del divenire, e così come tutto ha avuto un inizio, ogni cosa dovrà finire.
Alla fine, sentendosi braccato, il filosofo tenta l’azzardo più grande: sotto falso nome decide di cercare riparo proprio tra le fauci della cattolicissima Tolosa, dove dopo due anni verrà scoperto, arrestato a causa del suo ateismo e condotto al rogo. Antispecista, preilluminista, predecessore di Darwin e Schopenhauer, cantato da Hölderlin, citato da Hegel, innamorato delle leggi di natura: a quattrocento anni dalla morte, anche se molto è stato detto e scritto su Vanini, la sua fortuna ha vissuto stagioni alterne, tanto che spesso è ignorato perfino dai manuali di storia della filosofia.
Giulio Cesare Vanini ha vissuto tutta la vita non accontentandosi di verità precostituite: al contrario ha visto nella sua esistenza l’opportunità di indagare la natura, liberandosi da ogni facile dogma e promesse di future ricompense. Forse allora è questo che vuol dire, morire da filosofo: sentire la pienezza della vita anche nell’ora più buia, ma senza esserne vinti. Vivere fino alla fine con coerenza e coraggio. Morire da filosofi significa morire da vivi.
- Matteo Trevisani - Pubblicato sulla Lettura del 3/2/2019 -
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