lunedì 22 dicembre 2025

La Lunga Guerra Fredda che non è mai finita…

Cosa è davvero l'antisionismo
- di Adam Louis-Klein -

   Dopo il 7 ottobre, gli amici mi hanno chiamato"sporco sionista". Colleghi di lunga data si sono rifiutati di continuare a lavorare con me. Questo aggettivo dispregiativo e questo atteggiamento non derivano da un'ideologia che pretende di criticare Israele, ma da un'ideologia che vuole rendere gli ebrei dei paria. Dopo aver trascorso tre mesi in un villaggio amazzonico isolato, senza Internet né rete telefonica, sono tornato in una piccola città colombiana il 9 ottobre 2023; mi trovavo ancora nella foresta pluviale, ma questa volta avevo una connessione Internet, e ho consultato i social network per la prima volta. La giungla risuonava ancora nelle mie orecchie – i versi dei pappagalli, le piogge torrenziali, il ronzio sommesso di un generatore – quando il mio schermo si è riempito di immagini provenienti da un mondo del tutto diverso: giovani correvano tra nuvole di polvere cercando di sfuggire ai colpi di arma da fuoco che colpivano i partecipanti al festival Nova in Israele. Avevo attraversato i mondi, per scoprire infine che quel mondo in cui stavo tornando non era più lo stesso. Lo shock più profondo si verificò nelle ore successive, mentre passavo in rassegna le reazioni dei miei amici e colleghi. Scoprìi il diniego [dell’attacco genocida di Hamas], le giustificazioni [di questi crimini] e le manifestazioni di ostilità aperta verso chiunque esprimesse compassione per gli israeliani. Ho scritto una semplice frase: Am Yisrael Chai, «Il popolo di Israele vive»; e così ho scoperto che, nei miei circoli accademici di sinistra, anche questa semplice affermazione veniva considerata un atto di aggressione. Quasi subito ho visto che un collega mi aveva risposto inviandomi una foto di persone che bruciavano una bandiera israeliana. Un ex amico ha detto che le mie parole hanno rivelato che ero solo uno «sporco sionista». Persone con cui avevo collaborato intellettualmente per diversi anni mi informarono che ora non potevano più lavorare con me perché sostenevo il popolo ebraico. Per loro, semplicemente, dire che gli ebrei erano un "popolo" sarebbe stato offensivo e «di destra». Nei giorni successivi al 7 ottobre, ho sperimentato ciò che Marion Kaplan, nel suo libro sulla vita degli ebrei nella Germania nazista (Jewish Daily Life in Germany, 1618-1945, Oxford University Press, 2005), definisce come «morte sociale»: l’ostracismo totale e la rottura di tutti i legami sociali precedenti. Cominciavo a capire che essere un intellettuale ebreo, che esprime una voce ebraica, e considera che il suo destino sia legato a quello del popolo ebraico nel suo insieme, mi rendeva una persona che il mondo accademico non poteva accettare. Tuttavia non ero pronto a sottomettermi. Sapevo che, per riflettere, ragionare e argomentare, l'ebraicità era un luogo altrettanto legittimo di qualsiasi altra identità. Questi eventi sono accaduti due anni fa. Ho imparato molto rifiutando di sottomettermi a essi. Non solo riguardo la marginalizzazione degli ebrei nelle università occidentali, ma anche rispetto al valore duraturo dei diversi popoli, e delle voci diverse, anche di fronte a un potente movimento ideologico che usa il linguaggio del pluralismo per nascondere la sua esigenza di completa conformità.

La visione antisionista del mondo
    Sono sempre stato un bravo studente. Nel mio liceo leggevamo Antigone in greco e l’Eneide in latino. All’università di Yale, ho studiato il canone della filosofia occidentale, da Aristotele ad Hannah Arendt. Inizialmente sono diventato antropologo perché cercavo un campo di riflessione che andasse oltre la tradizione filosofica occidentale che avevo studiato. Volevo capire mondi che non erano i miei. Ma non sapevo che il mondo accademico del XXI °secolo avrebbe voluto costringermi a rinnegare il mio. Quando ho iniziato il mio dottorato, ero completamente immerso nel pensiero critico e anticolonialista che oggi domina il mondo accademico, un orientamento volto a mettere in discussione e a smantellare l’Occidente. Ma vivere fianco a fianco dei Desana, un popolo indigeno che abita il Brasile e la Colombia, mi ha infine riportato al mio giudaismo e al mio patrimonio occidentale, che io considero come una tradizione tra le altre. Anziché pensare contro l’Occidente, ho compreso l’importanza della riflessione attraverso le civiltà, tra tutti i popoli viventi e i mondi che essi continuano a sostenere e abitare. I Desana della regione del Vaupés, fiume che attraversa Brasile e Colombia, vengono spesso descritti come marginali rispetto all’economia mondiale. Ma ai loro propri occhi, essi si trovano al centro dell’universo: sono un popolo eletto che ha una storia unica. Si chiamano da soli Ümücori Masa, il popolo-universo, e discendono dalla persona-universo, o Dio. Per loro, essere eletti significa semplicemente appartenere a un popolo. All'inizio del XX° secolo, i missionari cattolici distrussero le loro lunghe case tradizionali, e li costrinsero a trasferirsi in città in modo da poterli controllare meglio. La società ispanofona circostante, si interessava poco alla loro memoria o alla loro sopravvivenza. Come risposta, i Desana lottarono per preservare i loro nomi sacri e continuare così a esistere come popolo. Oggi lavoriamo insieme a loro per tradurre antichi testi sui Desana nella loro lingua, al fine di restaurare il nome del loro Dio, riportare al centro le loro linee sacre e contribuire a fare di questi archivi storici una parte viva del loro futuro. La loro lotta per rimanere sé stessi di fronte alla cancellazione faceva eco, per me, a tremila anni di storia ebraica, e a ciò che ho scoperto al mio ritorno: un mondo cosiddetto liberale, nel quale la specificità ebraica non viene più tollerata, dove la continuità ebraica è stata reinterpretata come se fosse una minaccia, e il potere degli ebrei viene considerato illecito. In nessun altro luogo, questa visione del mondo è più potente di quanto lo sia nel contesto accademico, laddove in quei luoghi in cui vengono educate, si insegna alle élite che è giusto odiare gli ebrei. Essi chiamano questa visione del mondo: l’antisionismo.
Nel momento in cui mi sono reso conto che l’antisionismo viene presentato come se fosse una «opinione politica», ho finito anche per capire che in realtà si trattava di qualcosa di completamente diverso. Proprio come l’antisemitismo, l’antisionismo è una cosmologia a sé stante. Allo stesso modo in cui l’antisemitismo, un tempo, considerava gli ebrei nemici metafisici dell’umanità, oggi l’antisionismo attribuisce questo ruolo a Israele e ai suoi sostenitori. Ho iniziato a studiare l’antisionismo come avrei studiato il sistema di significati di qualsiasi cultura: i suoi miti, i suoi riti e i suoi tabù. Esso funziona come un sistema simbolico; trae la sua forza da metafore ricorrenti – genocidio, colonialismo, apartheid – che utilizza in modo rituale non per chiarire, ma per accusare. In tal modo, questo crea un circuito chiuso di giudizi morali, che vengono riprodotti negli ambienti accademici, nei media e nelle organizzazioni internazionali. Sarebbe un grave errore pensare che l'antisionismo sia un'opposizione al sionismo in quanto ideologia politica davvero esistente. In realtà, l'antisionismo costruisce un «sionismo» fantasmatico; e lo presenta come il simbolo cosmico dell'ingiustizia globale stessa, in cui tutti i possibili crimini – ivi inclusa la violenza della polizia negli Stati Uniti, l'esclusione delle persone transgender, l'11 settembre, e persino la crisi climatica – convergono nell'immagine di quel male che Israele ha in mente. L'antisionismo si basa principalmente sulla diffamazione. Gli antisionisti aggirano l'accusa di antisemitismo, indirizzando le loro osservazioni diffamatorie verso Israele e verso i "sionisti", piuttosto che verso gli ebrei. Ripetendo accuse senza prove concrete o fonti credibili, danno l'impressione di denunciare una realtà indiscutibile: un male che viene attribuito a "Israele". Gli anti-sionisti affermano costantemente di criticare solamente Israele. Ciò che fa la differenza tra critica e diffamazione, non è tanto ciò che viene detto, quanto piuttosto come viene detto. Tutto dipende dal fatto che questo si colloca nel regno della ragione – e possa pertanto essere confutato – oppure se si limita a essere una semplice ripetizione.
Le persone che sono state prese di mira dall'antisionismo conoscono quale sia la differenza. Non stanno affrontando opinioni individuali, bensì un movimento organizzato che marchia gli ebrei come sospetti a causa della loro associazione con un Israele diffamato. L'argomento comunemente usato secondo, cui gli ebrei "presumono" che la critica a Israele sia antisemita perché essi credono in una "connessione intrinseca" tra Israele e tutti gli ebrei, manca completamente il punto. In realtà, questa è una proiezione fatta da chi non sopporta di essere etichettato come antisemita, e che potrebbe perfino non capire come funziona davvero l'antisionismo: questo sistema chiuso di accuse viene progettato per costringere gli ebrei a negare la propria identità. Ciò che rende l'antisionismo così attraente nel mondo accademico, è il modo in cui esso utilizza il linguaggio morale dei diritti umani per potersi così presentare nella migliore forma possibile. Parole come decolonizzazione, antirazzismo e solidarietà circolano come motti morali, scambiati nel mondo accademico per prestigio e autorità. Eppure, dietro questa postura di inclusione, l'antisionismo funziona come un rituale di esclusione. Ad esempio, quando proposi di organizzare una conferenza nella mia università, McGill, sulle genealogie antisemite dell'antisionismo, in particolare sulle radici sovietiche di molti degli odierni slogan anti-Israele – tra almeno dieci eventi organizzati nel mio dipartimento sul presunto genocidio a Gaza – la mia richiesta venne respinta senza alcuna spiegazione. Un altro collega mi ha avvertito che la rivista per cui lavoravo avrebbe perso ogni sostegno se essa avesse pubblicato qualcosa di positivo sugli ebrei. Nessuna prospettiva radicata nell'identità ebraica è stata autorizzata a partecipare alla discussione.

La storia dimenticata
    Per comprendere come sia nata la visione anti-sionista del mondo, è necessario guardare alla storia che essa evita con cura. Questo movimento può essere ossessionato dalle ingiustizie storiche, ma non sa quasi nulla delle proprie origini. Ma se ti dai la briga di interessarti, non c'è nulla di misterioso nella sua genealogia. Il Gran Mufti di Gerusalemme, Haj Amin al-Husseini, collaborò coi nazisti, incontrò Hitler e diffuse propaganda antisemita nel mondo arabo. Husseini collaborò strettamente con i Fratelli Musulmani, uno dei cui rami divenne infine Hamas. Dopo la vittoria di Israele sui paesi della Lega Araba nella Guerra dei Sei Giorni nel 1967, l'Unione Sovietica prese il controllo. La sua strategia era chiara: dopo la sconfitta dei suoi alleati sul campo di battaglia, si rivolse alla guerra ideologica e informativa. Come hanno dimostrato Izabella Tabarovsky e altri storici, la "sionologia" sovietica trasformò l'antisemitismo classico in un discorso globale a favore della liberazione dei popoli. Il sionismo non era più un movimento nazionale ebraico per la liberazione degli ebrei, ma diventava piuttosto una cospirazione globale di "burattini americano-israeliani" mirata a minare il socialismo e la rivoluzione del Terzo Mondo. Il sionismo veniva presentato come una forma di "imperialismo ebraico", un termine dalle origini naziste, e Israele come il paria morale del mondo. All'interno dell'Unione Sovietica, le conseguenze furono drammatiche. Lo Stato proibì agli Ebrei di emigrare in Israele, l'ebraico fu vietato e le associazioni culturali ebraiche furono chiuse. Coloro che si opposero a queste misure furono arrestati e giudicati come «spie», o come «traditori» del socialismo. Vivere apertamente come Ebreo, insistere sulla propria appartenenza al popolo ebraico, venne riclassificato come un crimine politico — un clima che richiama quello che regna oggi nelle istituzioni universitarie di elité. Questi ebrei divennero noti come refusenik: se il potere sovietico si rifiutava di concedere loro i visti per Israele, essi si rifiutavano anche di sottomettersi a un regime anti-sionista determinato a schiacciare il loro spirito ebraico. Nata dall'alleanza tra nazismo e islamismo, la retorica adottata dai sovietici, trovò infine un'eco globale grazie all'ONU e alla sua rete di organizzazioni non governative (ONG). Nel 2001, alla Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite contro il razzismo a Durban, Sudafrica, queste idee sono diventate diffuse, grazie a una campagna durata decenni da parte di regimi nazionalisti arabi, propagandisti sovietici e dell'Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OIC), un gruppo che rappresenta gli stati a maggioranza musulmana all'interno delle Nazioni Unite. Il forum delle ONG rilanciò lo slogan sovietico "Il sionismo è razzismo", distribuì volantini paragonando Israele alla Germania nazista e contribuì a radicare la calunnia dell'"apartheid" israeliano nel discorso progressista. È così che l'antisemitismo è stato riformulato nel linguaggio morale dei diritti umani. Tropi, cliché, sono migrati attraverso diverse estetiche e diversi discorsi – nazista, islamista, sovietico e ora sinistra postcoloniale – ogni volta riposizionando il "sionismo" come l'Asse globale del Male. Ciò che iniziò come nazismo divenne diritti umani, mentre i sionisti — il nome moderno degli ebrei — furono rinominati come "i nuovi nazisti".

La diffamazione genocidaria
    Da nessun'altra parte la logica dell'accusa antisionista è più flagrante di quanto lo diventi nell'accusa secondo cui Israele stia commettendo genocidio. Anche questa affermazione risale alla propaganda sovietica degli anni '70 [*1] e, nei giorni successivi al 7 ottobre, fu trionfalmente ripresa da dei professori-attivisti in tutto l'Occidente. Dopo aver presentato il popolo ebraico come intrinsecamente oppressivo, l'antisionismo cerca di criminalizzarlo nel loro insieme, ridefinendo l'esistenza stessa di Israele come genocidio: il "crimine dei crimini." Questa manovra si basa non solo sulla propaganda, ma anche su sforzi espliciti per riscrivere il diritto internazionale. Un piccolo circolo di accademici, ha lavorato instancabilmente negli ultimi due anni per cancellare la distinzione tra guerra e genocidio. Dirk Moses, direttore responsabile del Journal of Genocidal Research — che nel 2024 ha dedicato un intero numero a incolpare Israele — ha sostenuto che la caratteristica fondamentale della definizione di genocidio, ovvero l'intento di distruggere un popolo, dovrebbe essere abbandonata. Invece, egli propone che tutti gli stati che hanno istituito la "colonizzazione dei coloni" siano colpevoli per definizione. Secondo questa logica, Israele non deve essere giudicato colpevole di sterminio per essere colpevole di genocidio; è colpevole semplicemente perché esiste. Mentre oggi milioni di persone si sentono dire che una "maggioranza di esperti" crede che Israele stia commettendo genocidio, pochi sanno che questo cosiddetto consenso si basa su un circolo assai ristretto di accademici, il cui progetto dichiarato è ridefinire, se non abolire, il concetto stesso di genocidio. Nel frattempo, un altro gruppo di studiosi, tra cui rinomati esperti di antisemitismo, ha categoricamente respinto l'accusa di genocidio. Eppure, difficilmente le loro voci vengono trasmesse dalla stampa, la quale preferisce lo spettacolo delle accuse al rigore del dibattito, ed esclude gli ebrei dalla discussione – a meno che essi non accettino di servire da contrappunto per legittimare l'antisionismo. Il giurista Avraham Russell Shalev, ad esempio, ha spiegato che il 7 ottobre in quanto tale soddisfaceva i criteri legali per il genocidio, dato che Hamas aveva l'intenzione chiara di annientare Ebrei israeliani. Egli nota anche che gli autori di genocidi hanno spesso rivolto accuse inverse, come hanno fatto i nazisti, i serbi e gli hutu. L'antisionismo non è una reazione spontanea alla politica israeliana. Si tratta di un'ideologia simbolica, che ha una storia specifica. La sua autorità morale non si basa sulla verità, ma sull'inversione dei ruoli: vittime e aggressori, genocidio e legittima difesa. Non prospera grazie agli argomenti, ma grazie alla cancellazione. Questa è la sua funzione profonda: delegittimare la rivendicazione ebraica di appartenenza a un popolo rimodellando un odio antico nel linguaggio della giustizia. Cosa significa realmente «autoctono»? Per comprendere davvero l'antisionismo, dobbiamo esaminare ciò che esso cerca di cancellare: il legame ancestrale tra il popolo ebraico e la terra d’Israele. L'antisionismo considera gli ebrei dei «colonizzatori»: una presenza straniera e marginale in Medio Oriente. L'accusa diffamatoria di essere colonizzatori cancella non solo l'appartenenza ebraica, ma fa anche degli ebrei i capri espiatori di tutto ciò che la cultura occidentale moderna oggi cerca di rinnegare: il razzismo, la violenza imperiale, il dominio dei coloni. Nei mesi successivi al 7 ottobre, mentre continuavo il mio lavoro con i Desana in Amazzonia, mi sono concentrato sullo smontare gli strati ideologici, che avvolgevano questo termine di moda, per riscoprire il vero significato della parola «indigenità». In fondo, l'indigenità è semplicemente un modo di essere popolo, in cui la terra e la discendenza sono intimamente legate alla radice stessa dell'identità. Per i Desana, l'identità del popolo è indissociabile dal fiume Vaupés e dai luoghi sacri lungo le sue rive. Si racconta che i loro antenati siano arrivati a monte in una canoa a forma di serpente, guidati da esseri primordiali, che hanno fondato le case claniche da cui nascono le anime e dove ritornano. Nel mondo accademico attuale, tuttavia, l'indigenità è stata ridotta a una rivendicazione di vittimizzazione di fronte al colonialismo europeo. Si tratta fondamentalmente di un'identità reattiva, definita unicamente in opposizione al potere dei «coloni bianchi». Questo restringimento del significato appiattisce la ricchezza delle differenze civilizzazionali. Secondo questa logica, gli ebrei, ora considerati simboli della bianchezza, dell'impero e del dominio occidentale, sono automaticamente esclusi. Un simile quadro non può tenere conto delle conquiste e degli spostamenti effettuati da popoli non europei. Le conquiste arabe del VII° secolo hanno rimodellato il Medio Oriente e il Nord Africa in un modo che corrisponde perfettamente al modello del «colonialismo di insediamento» attualmente applicato a Israele. Come ha mostrato la storica ebrea egiziana Bat Ye’or, queste conquiste hanno soppresso le lingue locali, marginalizzato i popoli non musulmani e assorbito le popolazioni indigene in un ordine imperiale, simile alle missioni cattoliche in Amazzonia. Ma nulla di tutto ciò corrisponde al discorso di moda. Si preferisce quindi ignorarlo. L’antisionismo cancella la storia ebraica presentando gli ebrei come oppressori stranieri. Tuttavia, questa storia è quella dell’esilio e del ritorno: da Ur a Canaan, dall’Egitto alla terra d’Israele, e dopo secoli di dispersione, di nuovo il ritorno. L’indigenità, in questo senso più ampio, non è un’etichetta reattiva per i colonizzati, ma una struttura di appartenenza a un popolo, un modo di abitare un luogo, una memoria e un tempo. Anche i Desana raccontano una grande migrazione, dalla foce dell’Amazzonia fino al Vaupés, dove il loro mondo ha preso forma. Per i Desana, appartenere a un popolo significa aver partecipato a un viaggio, quello dei loro discendenti, e tornare alla propria fonte. Ciò che i Desana sono nel Vaupés, gli ebrei lo sono nella terra d’Israele: un popolo al centro.

Lo spazio della ragione
    Ero andato in Amazzonia per capire come un popolo potesse vivere al centro del proprio mondo, definito non dagli altri, ma dal proprio destino. Sono tornato per assistere alla cancellazione del mio. In tutti gli spazi che un tempo consideravo protettivi – università, istituzioni culturali, ONG umanitarie – si è fatta strada un'ideologia che richiede la cancellazione mia e del mio popolo. La diffusione dell'antisionismo nelle istituzioni della nostra democrazia liberale è una prova per capire se uguaglianza e giustizia possano sopravvivere una volta svuotate del loro significato e trasformate in armi di esclusione. Non si tratta solo di accademia, e certamente non solo degli ebrei. Si tratta di difendere il diritto di ogni popolo a esistere così com'è, a vivere in sicurezza ed esprimersi liberamente, con la propria voce. Se non sosteniamo questi valori fondamentali, il futuro apparterrà a coloro che cancellano interi popoli dalla storia umana, e che dirottano il linguaggio della giustizia in strumenti di violenza, intimidazione e propaganda. Non possiamo permettere che ciò accada. Il diritto di ogni popolo di occupare un posto nello spazio della ragione – di esprimersi, di essere ascoltato ed essere riconosciuto come pari – non è un dono dei potenti. È un diritto inalienabile dell'umanità.

- Adam Louis-Klein - Pubblicato il 20/12/2025 su "Ni patrie ni frontiéres" -

NOTE:

1 - Adam Louis-Klein accenna al fatto che, nel 1976, davanti all’ONU, il rappresentante dell’URSS affermò che Israele stava compiendo un «genocidio razziale» in Palestina. Ma in Francia, secondo lo storico Georges Bensoussan, il fascista e negazionista Maurice Bardèche avrebbe lanciato questa accusa di un genocidio dei Palestinesi commesso dagli Ebrei già nel 1948 (https://www.ajcf.fr/Du-grave-danger-que-represente-la-propagande-anti-israelienne-Georges.html ), NdT.

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