giovedì 11 dicembre 2025

Il Labirinto della Modernità e il Filo di Arianna della Critica Radicale !!

Gli intellettuali dopo la lotta di classe
- Dalla deconcettualizzazione alla disaccademizzazione della teoria -
di Robert Kurz

   Formulare teorie che abbiano un pretesa esplicativa, è come se fosse passato di moda. Chiunque osi esprimere un pensiero concatenato, una teoria critica della società o una riflessione minimamente al di sopra del livello banale dell'attuale democrazia di mercato, diventa subito oggetto di sospetto. L'apparato teorico-concettuale viene visto come fosse un'impertinenza: si potrebbe quasi parlare di una de-concettualizzazione delle scienze sociali e umane. La presunta rinascita del pensiero cinico fa parte della fenomenologia di un'epoca che vive quella che è l'attuale teoria della fine della storia. Il «grugnire e scoreggiare collettivamente nei seminari»(Sloterdijk), può essere valutato non come se fosse un nuovo fiorire della filosofia, ma piuttosto come il sintomo di una sua capitolazione senza condizione alcuna. E' naturale che, poco a poco, simili tendenze penetrino nella pratica accademica quotidiana, oramai senza più speranza, potrebbe quasi suscitare solo compassione. Emettere empiti di relativizzazione, con masochistica umiltà, serve a ritrattare qualsiasi concetto appena proclamato. La continua preoccupazione per le "differenze", esacerbata al punto da trasformarsi in dipendenza, sembra dissolvere gli oggetti storici e sociali, e li rende  irriconoscibili. Sicuramente, non si tratta della critica del concetto, svolta da Adorno nella sua "Dialettica negativa". Questa avrebbe piuttosto meritato il nome di critica eroica, dal momento che essa conservava ancora la dignità di un pensiero concettuale, e di conseguenza era indissolubilmente legata a una critica fondamentale - per quanto fosse senza speranza - della società. In tal senso, la nuova a-concettualità di oggi non può in nessun modo riferirsi ad Adorno, dovendo, al contrario, trattarlo come se fosse il più morto dei cani.  La bandiera adorniana, è stata, per così dire, oramai ammainata, e i nuovi filosofi della a-concettualità si limitano a sventolare bandiera bianca, sperando di essere confortati da quello che prima era oggetto di critica. Di conseguenza, una nuova a-concettualità non significa nient'altro che il desiderio di degradare la storia e la filosofia, fino a ridurli ad oggetti di uso capitalistico. Col passare dei giorni, a dare le carte vediamo sempre più degli yuppie filosofici. Anche in questo senso, di certo, la filosofia continua a essere "il suo tempo concepito nel pensiero" (Hegel), in quanto gli yuppies filosofici corrispondo ai loro simili sociali. Oggi, il "denaro dello spirito" si trova nella medesima situazione in cui si trova il dollaro: ridotto a pura massa di manovra nelle mani degli speculatori: una sovrastruttura di credito paralizzata sull'orlo del collasso. Ed ecco che così, in un'economia-casinò globale, lo spirito si converte in una filosofia-casinò - a uso domestico - della macchina autonomizzata del denaro. Non è un caso che anche il lifting "etico" che ha avuto il volto dell'economia di mercato, riceva addirittura il nome di "filosofia", come avviene con i cosmetici di Jil Sander, o come quando viene posta in vendita una nuova concezione amministrativa, o il profilo di una corporazione. C'è dell'ironia in questo modo in cui viene abbattuto il vecchio muro che separava filosofia e "vita", che separava lo spirito e la società: qui si rivela quell'impulso universale, essenziale al capitalismo, a vendere tutto il vendibile. Tuttavia, gli yuppies dello spirito dicono assai più di quanto si immagini - o di quanto essi vogliono dire - sull'attuale quadro della realtà sociale. Quando, per esempio, Odo Marquardt - raccomandando agli amministratori e alla classe politica, in maniera seducente, la sua merce filosofica come se fosse una "istanza compensativa competente", esprimendo, con un simile consiglio, il fatto che in fondo anche lui tiene una famiglia da sfamare -  sta mettendo in atto una semi-involontaria critica sociale. E se il filosofo alla moda, Gerd Gerken, si presenta al pubblico con lo slogan secondo cui: «per avere successo, devi credere in qualcosa, non importa cosa», ecco che quest'affermazione potrebbe anche  essere percepita come un sonoro schiaffone, per quanto non pianificato, in faccia all'arbitrarietà e alla completa mancanza di contenuto; al punto che nemmeno la stesso Adorno sarebbe stato in grado di riuscire a far meglio. Così, vale la pena notare come, a partire dal modo involontariamente ironico attraverso il quale si fa coincidere filosofia e "vita", si potrebbe persino mettere in atto, rispetto ai suoi protagonisti, il passaggio ad assumere una nuova distanza ironica, tanto nei confronti della filosofia quanto in quelli della "vita" capitalistica. Ma per far questo, sarebbero però necessari dei nuovi concetti o, quanto meno, un nuovo modo di approcciare quelli vecchi. Insomma, sarebbe necessaria una nuova teoria che reagisse ai cambiamenti sociali e che formulasse una critica della società rapportata al nuovo terreno storico. Ma, in tal senso, si è fatto davvero assai poco. La supposta sconfitta della vecchia critica, e la nuova a-concettualità, vanno affrontate una volta per tutte nei loro molteplici aspetti. Sulla stampa in generale - rispetto a tutto ciò che che domina il mondo intellettuale anglo-americano - un dibattito teorico approfondito ha ceduto il passo a un genere degradato di letteratura specializzata; niente più che una massa informe, riunita sotto la categoria di "non-fiction", paragonabile per questo alla divisione che viene fatta nell'universo delle merci, fra cibo e non-cibo. Il giornalismo politico-sociologico sembra decadere allo stesso ritmo di quello economico: si vedano per esempio - anziché la critica - le "guide finanziarie"; guide di aiuto capitalistiche invece dell'economia politica. Nel migliore dei casi, entra in scena, in luogo di una riflessione a proposito della totalità sociale (identificata, ora, in maniera tanto falsa quanto dilagante, come "totalitarismo"), il monotono recitativo che parla di un unico e bramoso pensiero: ossia, la "discriminazione economica delle donne" (Renate Schubert), oppure; "lo Stato tutelare" (Rolf Schubert). Questo tipo di valutazione unidimensionale, si limita, in gran parte, a una critica triste, la quale obbedisce solamente ai nuovi imperativi del pensiero isolato e dell'immediatezza fattibile. Certo che questo genere operoso della letteratura della banalità esisteva anche negli anni '60 e '70 ; sebbene prima non avesse l'accompagnamento musicale che oggi gli dà tono. Questi rigogliosi e mal-rifiniti composti sensazionalistici hanno raggiunto il loro apice in quei prodotti kitsch - in particolare dopo Gorbaciov - che hanno accompagnato la caduta del socialismo di Stato, condendola con il fascino oscuro dello "Io c'ero", oppure dello "Adesso posso parlare", arrivando fino al più miserevole dei trionfi:"Anch'io sono stato una vittima della Stasi". Ma forse, su questo tipo di giornalismo, bisognerebbe solo stendere un velo di indulgenza ; esso riflette una mancanza, un'incapacità ad assimilare criticamente gli avvenimenti storici. Anche perché, ben presto, tutto questo ha finito per diventare monotono.

   Detto in senso lato, alla stampa manca semplicemente il rinforzo teorico da parte della sfera logistica intellettuale, la quale sembrava che finora avesse la competenza in tal senso, e che ora produce solo angosciati ruminanti e venali pavoni. E così, ora che il "concetto di lavoro" è stato trascinato nella sfera negativa, e che non è più possibile resistere alla pressione della presunta "società mondiale post-storica e senza alternativa" (Lutz Niethammer) del denaro totale, ecco che il giornalismo diviene sempre più angosciato. La macchina dei concetti del pensiero occidentale, perde la sua forza materiale e - prima della rottamazione - sembra cadere a pezzi. E la critica si trasforma in critica della critica. Non è solo a partire da Sloterdijk, che si possono scrivere 800 pagine di "teoria con la T maiuscola", facendolo proprio per contrapporsi alla "Teoria". Queste teorie-anti-teoriche sembrano solo voler riprendere, e dare continuità alla traccia affermativa dello strutturalismo e della teoria sistemica. Ciò nonostante, tuttavia, esse talvolta segnalano - così come lo fa il surfismo universale dei filosofi in voga, e i campioni dell'etica - una trasformazione sociale non ancora maturata. Ma, in quale direzione? Il mondo scientifico non sembra più essere in grado di ritrovare quella forza necessaria a dare una risposta a una simile situazione. Sebbene la vita accademica non si fosse ancora del tutto irrigidita in un "paesaggio culturale pietrificato" (Enzensberger), tuttavia, molto prima dell'estinzione del movimento del '68 essa aveva già insabbiato, davanti al dilemma teorico, l'impulso alla ricerca propriamente accademica. La letteratura sensazionalista della stampa corrisponde alla ritirata accademica in direzione dell'archeologia storico-culturale. Se l'impresa, alquanto ingenua, della "storia orale" è servita frequentemente ai fini dell'assistenza degli anziani, e per costruire un collezione di oggetti di devozione del movimento operaio e socialista, oggi il boom allargato della storia culturale sta frugando nelle tasche dei giubbotti, e nelle latrine della storia. In Francia, soprattutto, simili sforzi producono notevoli risultati. Come nella "Storia dell'infanzia", o nella "Storia della morte", di Philippe Ariès, nei lavori sul Medioevo di Jacques Le Goff, o di Georges Duby; così come nella "Storia della vita privata", pubblicata congiuntamente agli ultimi due, o nella grande trilogia storico-sociale su "Le origini dell'economia di mercato" di Fernad Braudel: in tutti questi libri viene riunita una quantità monumentale di informazioni, che formano un insieme di indubbio significato storico. Tuttavia, queste opere mancano di una sintesi che possa far sì che un tale materiale venga visto nella prospettiva di una storia critica della socializzazione occidentale; ossia, manca una visione d'insieme capace di indirizzare una rinnovata valutazione storica, e orientare così una nuova agenda di questioni. Insomma, manca l'orizzonte teorico di una critica radicale della società, che permetta di ordinare i risultati della ricerca storico-culturale. Potrà sembrare sfrontato e arrogante, ma da questo punto di vista anche Foucault stesso non può essere considerato sempre e sotto tutti gli aspetti come un teorico nel senso rigoroso del termine. Le sue "archeologie" della sessualità, delle istituzioni e del sapere, sono anche lodevoli, soprattutto per il lavoro di estrazione mineraria, mentre la riflessione teorica propriamente detta, in fin dei conti, lascia perplessi. La tregua teorica, è diventata un problema centrale, la demoralizzazione del pensiero minaccia di diventare paralisi. Se la teoria, soprattutto in ambito accademico, osa entrare nella sfera pubblica solo in punta di piedi, va detto che forse questa lamentevole situazione è dovuta alla morte del marxismo. A quanto pare, il marxismo è stato determinante ai fini della formulazione teorica del XX° secolo, di modo che ora tale formulazione sembri essere cessata insieme a esso. Se nel marxismo, sembrava che l'eredità della filosofia fosse stata soppressa, di modo che ogni formulazione concettuale a posteriori veniva a essere definita a fronte di esso - sia per affinità che per rifiuto - ecco che, con il declino dei concetti marxisti, decade anche la concettualità della teoria in quanto tale. Oggi, tale istanza referenziale, positiva o negativa, sembra essere svanita senza che abbia lasciato traccia. Il movimento globale del '68, aveva condotto quello che era il già senile marxismo del movimento operaio a una prosperità così talmente illusoria che, per qualche tempo, anche l'ultimo degli opportunisti della sociologia si è visto obbligato, quanto meno, a scrivere la sua tesi di dottorato sulla storia sociale delle guerre contadine. o sulla lotta di classe nella Valacchia del XIV° secolo. Tuttavia, in parallelo con questo tardivo e fantasmagorico risveglio, ciò che si stava preparando sarebbe stata la sepoltura definitiva del corpo teorico marxista, già sventrato e imbalsamato dalla moda strutturalista (Althusser) e da quella teorico-sistemica. Oggi, dopo il collasso catastrofico dell'ordine sociale che era stato eretto in suo nome, a causa di questo, in piedi non rimane nemmeno un mausoleo. Nell'autunno del 1989, il settimanale tedesco  Wirtschaftswoche era già in grado di presentare la quasi totalità dei marxisti restituiti alla vita accademica tedesca, come se fossero dei delinquenti pentiti che dovessero balbettare solennemente la propria ritrattazione. In Francia, l'enfatica transizione entusiasta della democrazia occidentale si era già conclusa precedentemente e, in mezzo al desert storm, si era finalmente verificata, fra le grida, la riunificazione del nucleo duro del '68, che ora si presentava come un illustre circolo di filosofi pro-bomba atomica in costume da guerra. Ma forse l'ebreo-tedesco Karl Marx, abituato a simili problemi, stavolta era stato messo nella fossa con eccessiva fretta. Nel precipitoso funerale della teoria marxista, i teorici della cautela, i quali forse avevano già troppo da "differenziare", non avevano fatto alcun tentativo di differenziazione. Tuttavia - così come avviene con tutte le teorie dotate di una loro forza storica - anche la teoria di Marx non si esaurisce nella sua versione rimasta vincolata a un'epoca; né tantomeno può essere solo quella totalità chiusa, immaginata tanto dai cercatori di citazioni quanto dai becchini precipitosi. Con la fine di un'epoca - sigillata dal crollo del socialismo di Stato - ciò che si estingueva era soltanto il momento della teoria legato a quel periodo, e che non significa affatto che la teoria stessa fosse in qualche modo esaurita.

   Tantomeno si trattava semplicemente di una sconfitta. Un pensiero su cui si riflette storicamente, il quale non si banalizza associando i predicati "giusto" o "sbagliato", "buono" o "cattivo", ai grandi movimenti sociali e alle formazioni politico-economiche, e tutt'al più  si avvicina al problema chiedendo quale compito sia stato portato a termine, dal punto di vista dello sviluppo storico, rispetto a una tale rottura epocale. Solo una messa in discussione di questo genere ci può dare un'idea di ciò che è avvenuto, e che merita di essere messo all'ordine del giorno. Al fine di una tale comprensione, il concetto chiave  può essere solo quello che - sotto il nome di "modernizzazione" -  possiede già un discreto tempo di esistenza ambigua dentro la teoria. Questo termine, ha meritato quasi sempre uno sguardo obliquo da parte dei marxisti; dato che sembrava che quasi coprisse il "contenuto di classe" di quello che era tutto un interrogativo teorico. Il vero spartiacque doveva essere situato fra il capitalismo borghese e il socialismo operaio; ragion per cui "modernità" e "modernizzazione" erano concetti che sembravano volessero annullare, in modo meramente conciliatorio, quella che avrebbe dovuto essere la "vera rottura fra le classi". Ma quando capovolgiamo questa argomentazione, vedendola alla luce dell'effettiva rottura epocale, la quale contraddice in modo evidente qualsiasi concezione del marxismo volgare, ecco che appare un quadro totalmente distinto. Ragion per cui, la "modernità" e la "modernizzazione" non verrebbero più visti come i due concetti di un'annacquata ideologia (piccolo-)borghese, quanto piuttosto proprio come un involucro borghese reale, all'interno del quale si sviluppano le cosiddette "lotte di classe". Oltre tutto, il carattere borghese sarebbe il carattere dell'epoca stessa, la quale include persino quelli che sono i presunti opposti del Capitale. Per dirla altrimenti: il Capitale stesso sarebbe identico alla modernità e al suo processo di formazione, proprio in quanto forma sociale comune alle fazioni in conflitto. In questo senso, non sarebbe più possibile classificare come "anticapitalista", se non condizionalmente, né il il socialismo di Stato dell'Est, né il movimento operaio occidentale, e né, tantomeno, il movimento anticolonialista di liberazione nazionale nei paesi dell'emisfero Sud, ivi incluse anche le sue correnti più radicali. O meglio, il suo anticapitalismo non si riferisce ancora all'autentica forma di base del capitalismo stesso, ma solo a un capitalismo empirico dato; si riferisce a quello che, da fuori, viene preso per capitalismo in persona, e che, in realtà, non è altro che uno stadio ancora incompleto dello sviluppo della modernità borghese. Ecco che così, il marxismo di quest'epoca non poteva essere niente di più che un marxismo della modernizzazione, immanentemente borghese, e parte esso stesso della storia della realizzazione del capitale. E questo momento modernizzatore, limitato all'involucro borghese formale, lo troviamo a ogni passaggio della teoria marxiana. Tutto quello che appare in Marx, come incondizionalità del "punto di vista operaio" e della "lotta delle classi" - o che viene detto a proposito del "plusvalore non pagato" e dello "sfruttamento" - è ancora teoria capitalista dello sviluppo, e riflette il fatto che il capitale non ha  ancora trovato il suo modo di riproduzione. In tal senso, si tratta di una teoria - ed è stata letta anche in questo modo - che punta essenzialmente a due problemi immanenti al capitalismo: in primo luogo, alla critica dei momenti patriarcali, corporativi, nel contesto delle relazioni sociali stabilite dal capitale, ossia, alla trasformazione dei lavoratori salariati in soggetti borghesi, e questo nella sua piena accezione, sotto il punto di vista monetario, giuridico e statale; e, in secondo luogo, al conflitto distributivo che avviene sotto forma monetaria, e nel quale il carattere relativo "del valore della merce forza-lavoro" (vale a dire, il momento storico-"morale", come a volte lo chiama Marx) viene ricondotto a una sua normalità capitalistica, che è quella di un "benessere nel capitalismo", raggiunto sia attraverso degli accordi collettivi che per mezzo di politiche distributive statali. Oggi, questo marxismo, immanente alla modernizzazione, è diventato, di fatto, del tutto obsoleto, e non perché sia "sbagliato", ma perché il suo compito si è concluso. Nei paesi dell'Est e del Sud, il processo di modernizzazione tardiva, ha incontrato la sua barriera assoluta; il ciclo di implementazione delle relazioni capitalistiche si è chiuso quando queste ultime sono state totalizzate, sotto forma di una relazione immediatamente globale, in un produttore mondiale di merci. I lavoratori salariati si sono convertiti in soggetti monetari e giuridici, nella piena accezione borghese, essendo impossibile una maggior "libertà" e "uguaglianza", perché, in qualche modo, il gioco distributivo statale ha raggiunto il proprio limite assoluto. Con ciò, arriva al suo termine anche la lotta di classe, che non era altro che il processo di attuazione del capitale, il quale nella sua logica formale pura e astratta si contrappone ai capitalisti, storicamente ed empiricamente limitati.

   I vari becchini di Marx, e i nuovi amici della democrazia del mondo delle merci occidentali, traggono da tutto questo la conclusione affrettata secondo cui la critica della società sarebbe esaurita - almeno nella sua variante radicale - e che pertanto d'ora in poi, e per tutta l'eternità, questa «società globale senza alternativa» del capitale, ci detterà le regole per tutto quello che verrà fatto e/o pensato. Niente di più lontano dalla verità. Poiché, invece, è proprio solo ora che può entrare, sulla scena storica, quell' "altro" Marx,  quello che se n'era rimasto nascosto, quel Marx "oscuro" ed "esoterico" del quale, non a caso, il movimento operaio non sapeva assolutamente che cosa farsene: il tentativo marxiano di trascendere il capitale attraverso una mera assolutizzazione della "classe operaia" ("Dittatura del Proletariato") è sempre stata una costruzione distorta, dal momento che in tal modo si stava cercando di conseguire, come totalità, quello che era invece solo un momento particolare e immanente al capitale stesso. E questa pseudo-trascendenza, va interamente imputata alla teoria marxiana, in quanto mera teoria della modernizzazione, la quale - partendo da una falsa immediatezza sociologica - si concentra sulle classi e sulle relazioni sociali, senza che appaiano nel suo campo visuale quelle che sono le forme sociali comuni a esse. Questa forma però non è altro che il capitale. E' la forma-valore, o la forma-merce in quanto tale che, diversamente dalla sua esistenza embrionale come forma ristretta ad alcune nicchie sociali, nelle società premoderne, ora si sviluppa nel capitale fino al punto da convertirsi nella forma totale della riproduzione sociale. Con la sua critica, il marxismo della modernizzazione - o il marxismo operaio - non mette a fuoco tale forma, che viene soprattutto concepita in quanto fondamento ontologico insuperabile da parte della società in generale. Così, per tale marxismo, il problema non era il "valore", che è la forma sociale delle merci, bensì semplicemente il "plusvalore" che viene imposto dall'esterno. Ma è in Marx stesso, al contrario, che il piano immanente della teoria viene reso possibile proprio grazie alla sua critica radicale del valore, visto in quanto valore. La categoria centrale di tale critica, è il concetto di feticismo, salendo dal feticcio della merce al feticcio del denaro, del capitale, del salario, del diritto e dello Stato. In sostanza, tutte le categorie sociali della modernità vengono qui sottoposte alla critica radicale, mentre che l'ideologia borghese - incluso il marxismo - si limita solo e sempre a postulare il loro lato positivo. Pertanto alla fine vediamo in Marx, due linee argomentative intrecciate, ma incompatibili tra di loro. Oggi, però, bisogna sciogliere questo nodo gordiano, non importa se alla maniera classica o per mezzo di un lento dipanare il filo. Ed ecco che così il Marx degli operai e della lotta di classe, cade in disgrazia, ma il critico radicale del feticismo e della forma valore è ancora in piedi, ed è ancora efficace. Bisogna smettere di brancolare nel labirinto della modernità, e seguire invece il tenue filo di Arianna della critica radicale marxiana - della merce e del denaro - ancora necessariamente astratta e incompleta. Il concetto marxiano di feticismo, liberato dall'antico fardello del marxismo del movimento operaio, può ora essere ampliato - o farsi conoscere - attraverso la critica dello stesso feticcio del lavoro. Il problema non è più lo "sfruttamento" della forma valore, ma innanzitutto il lavoro astratto stesso, vale a dire, l'utilizzo astratto imprenditoriale dell'essere umano e della natura. Il "lavoro" ha perso la propria dignità, in quanto terapia occupazionale, moderna costruzione di piramidi, feticismo del posto di lavoro e produzione distruttiva, ed è in questo modo artificiale, e con  dei costi di gestione sempre più rovinosi, che esso mantiene in funzione il sistema capitalista globalizzato. Ovviamente, questa proposta teorica non piace neanche un po' ai teorici ancora predominanti. Al contrario, essa viene recepita come una proposta indecente, quasi una specie di volgarità o di enormità. Ma una coscienza, la cui immaginazione teorica si esaurisce nella scommessa di continuare eternamente a modernizzare la modernità, guardandola sempre come se fosse un "progetto incompiuto" (Habermas), non potrebbe certo reagire diversamente, . Per questa ragione, ogni critica alla modernità viene accusata di appartenere al vecchio repertorio reazionario piagnucoloso che vorrebbe solo tornare alla pre-modernità: cioè, passare dalla socializzazione alla "comunità", dalla forma-merce all'economia naturale di sussistenza, dal diritto al dispotismo, dal mercato mondiale al villaggio. Ma qui non si tratta di regolare i conti con la modernità, retrocedendo, bensì piuttosto avanzando.
Il denaro totale ha prodotto il Mondo Unico, e sappiamo che quanto a questo non è più possibile tornare indietro: ma si tratta solo della stampella dell'umanità, che ora dev'essere eliminata. E' necessario liberare questo mondo unificato dalla sua conformazione mercantile, proteggendo il suo livello di civiltà, la sua forza produttiva e le sue conoscenze. Un simile compito storico - che il marxismo operaio aveva messo da parte e aveva rimandato a un futuro presumibilmente lontano - si trova ora all'ordine del giorno. Con la sua "vittoria", l'Occidente trova anche la sua propria fine. Ha bisogno di sopprimere e superare sé stesso. La soppressione (Aufhebung), in questo caso, non significa solo il punto finale di un processo. Ma essa presuppone invece una rottura storica decisiva (e decisa), che i teorici della civiltà, della democratizzazione e della modernizzazione hanno cercato inutilmente di eludere. E nonostante si siano fatti carico, tutti insieme, della sepoltura di Marx, essi stessi non sono stati capaci di andare al di là delle forme residue e degradate del marxismo della modernizzazione - che non si sono lasciati alle spalle, come pensano -  ma che le hanno piuttosto diluite fino a trasformarle in qualcosa di totalmente inoffensivo e sprovvisto di oggetto. Non sono i precursori di una nuova teoria, ma rappresentano le macerie teoriche di un processo storico già concluso. Questo può essere dimostrato, nella pratica, dal fatto che hanno completamente perso l'immaginazione, in quanto critica della società. E non è affatto un caso che il concetto teorico (e anche l'appello "politico") abbia perso anch'esso la sua dignità, insieme al "lavoro". E  il fatto che la critica marxiana del valore, e del feticismo, sia stata molto più disprezzata dei "capricci filosofici" di Marx, non è stato certo opera del caso,. Infatti, prendendo sul serio la critica del feticismo, arriviamo a disporre, non solo di una forma sociale reale, ma anche della cassetta degli attrezzi ideale per la modernità. Il valore non è affatto una cruda "cosa economica", ma al contrario abbiamo a che fare con una forma sociale totale, vale a dire, forma-soggetto e forma di pensiero. Anche se impieghiamo continuamente il prefisso "post" nei discorsi sulla post-modernità - sia per parlare di post-fordismo di post-industrialismo, o termini affini - inconsciamente li pensiamo anche come se fossero collocati lungo le linee della forma merce. Tuttavia, se la modernità, in sostanza, è semplicemente la totalizzazione della forma merce, non possiamo avere nessun "post-industrialismo" mercantile, né tantomeno un pensiero mercantile della post-modernità. Sarebbe necessario tornare a portare avanti, criticamente, il pensiero iniziato da Sohn-Rethel, circa il nesso esistente tra «forma-merce e forma di pensiero», al fine di disvelare la conformazione mercantile di tutto il dibattito occidentale che c'è stato intorno alla teoria della conoscenza. Questo programma potrebbe portare a un nuovo modo di sfatare Kant, e decifrare concettualmente, in quanto costruzione  feticista, la cesura attuata sia nella teoria della conoscenza che nell'etica, cui, per inciso, è approdata, sensibilmente, la discussione etica attuale. La critica radicale del valore - in quanto critica della società - ristabilisce l'identità esistente, fra forma di esistenza e forma di pensiero, riguardo al pensiero; la critica delle moderne dicotomie occidentali - tanto tra individuo e società, quanto tra economia e politica - precede il superamento pratico delle stesse. A partire da questo, si apre non solo la possibilità di una re-storicizzazione delle forme di relazionamento e di "legalità" sociali, che sono state antropologizzate ed ontologizzate dallo strutturalismo e dalla teoria sistemica, ma anche una via di accesso più facile ed efficace verso tutte le problematiche contemporanee. Questo può essere visto in maniera esemplare e centrale, nella relazione tra i sessi, tema che non a caso è sbiadito lentamente sotto l'egida del movimento operaio e della modernizzazione. E' solo nell'ambito di una critica del valore - in quanto definizione basilare della forma sociale - che l'assegnazione dei ruoli sessuali può apparire nella coscienza teorica. La relazione occidentale fra i sessi, è definita dalla forma valore, ossia il valore viene costituito sessualmente. Una società feticista della produzione e del lavoro astratto, presuppone sempre quella che è la «cesura di un contesto di vita femminile» (Roswitha Scholz); ossia la separazione di quei momenti sensibili, e non passibili di monetizzazione, e, insieme a questo, la costituzione di ruoli sessuali specifici, socialmente e storicamente. L'uomo si converte così nel rappresentante del lavoro astratto, e la donna nella "persona fisica domestica", sulla quale si scarica tutto ciò che non può essere ridotto ad astrazione di valore. In tal modo, si stabilisce la relazione specificamente borghese tra sfera pubblica e sfera privata, che nella modernità raggiunge il suo culmine L'attività della donna, all'interno di uno spazio privato (sessualità, famiglia), non legata alla forma valore, costituisce il presupposto strutturale e storico del sistema produttore di merci, e precede tutte le altre relazioni forgiate sull'astrazione virile, fra sfera privata (denaro) e sfera pubblica (Stato). Quando la totalizzazione della forma valore, erode il suo stesso fondamento, convertendo tendenzialmente la donna in soggetto monetario e statale, ecco che allora diventa non solo possibile rivendicare la "uguaglianza" sull'ultimo terreno che ancora rimaneva, ma anche far saltare in aria l'intera relazione tra sfera pubblica e sfera privata, e che corrisponde alla forma merce. Nell'ambito di una mera "critica del plusvalore", il problema neppure appare; tuttavia, nella misura in cui il valore, in quanto relazione sociale, incontra il suo limite, la relazione tra i sessi diventa un centro di crisi, e si riferisce alla crisi del valore in quanto valore. Con la chiave della critica radicale del valore si potrebbe disserrare, ugualmente, anche l'attuale dibattito in merito ad un orientamento pragmatico ("realista") circa la fine dell'utopia e la fine della storia. I realisti, pratici e teorici, gli spiriti del cambiamento, i democratici della temperanza, gli artisti della negoziazione e i critici-astemi sono stati frettolosi nell'arrivare alle conclusioni. A volte la storia, di fatto, arriva al suo termine, ma quando finora l'ha fatto, è stata solo la storia occidentale del valore, o del sistema produttore di merci. A partire dall'antichità occidentale, passando per il cristianesimo e per il Rinascimento, si è messo in marcia un processo, il cui spazio temporale effettivo è pari a 200 anni: dal 1789 al 1989. Tutto il resto è una... "non ancora" storia. Per il Marx esoterico, questo periodo corrisponde esattamente alla preistoria del genere umano, ivi inclusa la fase del capitale (in quanto, la potremmo completare come forma ultima e più elevata del primitivismo feticista). Inoltre, la "fine della storia". non si riferisce a qualcosa di diverso dalla crisi e dalla fine del valore. Se vogliamo, si riferisce proprio alla fine dello stesso Occidente. Le cose non vanno meglio, allorché si parla della fine dell'utopia, strombazzata ai quattro venti. Anche l'utopia è una creazione tipicamente occidentale, un prodotto della relazione del valore, e dei passaggi da questo generati. Così come il potenziale desensibilizzante dell'astrazione mercantile reale, ha creato "la donna" in quanto essere compensativo, "l'utopia" è stata forgiata come accompagnamento musicale fisso, la quale doveva suonare più forte a ogni nuovo passaggio storico dell'astrazione reale del valore. Il carattere insopportabile della contraddizione, nel momento in cui essa si manifesta nella forma sociale dell'alienazione inerente alla forma valore, produce - al divinizzarsi di questa contraddizione stessa -  il desiderio di una completa assenza di contraddizione. La quale può essere non solo l'elemento centrale del pensiero utopico, ma proprio della ragione borghese in generale.

   Sicuramente, il dogmatismo dell'utopia può essere recuperato all'interno del pensiero marxiano, visto come struttura dogmatica, ma ciò si verifica solo nella misura in cui questo si mantiene immerso nella forma valore, ossia, quando si tratta di pensiero formulato dal teorico borghese della modernizzazione e, quindi, del movimento operaio. Per cui, ci riferiamo al dogmatismo essenziale del pensiero moderno illuminista, ovvero, al dogmatismo oggettivo della ragione borghese in quanto tale. Per un'ironia del destino, i nuovi anti-utopisti e becchini della teoria marxiana, che accusano Marx di essere utopista, e imputano alla sua utopia una visione escatologica della storia, ora parlano, essi stessi, di "fine della storia", così come supposta eternizzazione della normalità capitalistica. Ma questa concezione, è essa stessa una sorta di escatologia per fare sonni tranquilli, la cui realizzazione nell'ambito della società mondiale può, però, causare degli incubi. E' il pensiero illuminista borghese che ha bisogno di far coincidere la fine della storia con la sua propria fine. Questa struttura dogmatica, tende a sfociare in una "visione del mondo" omicida, allorché si vede espressamente vietata la possibilità di pensarsi in questi termini, come avviene non solo nelle teorie pragmatiche borghesi, ma anche nei marxismi critici occidentali, ancora prigionieri della modernità e dell'illuminismo. Anche la teoria critica, vede la ragione come un'entità fuori della storia, e simultaneamente dentro. Il pragmatismo borghese opera, allo stesso modo, mediante un concetto di ragione che non può essere desunto. Non c'è da stupirsi che entrambe le correnti si incontrino oggi nella filosofia cosiddetta "realista", nel senso più ampio del termine, sotto la forma di una propaganda omicida, pro-capitalista e pro-occidentale, di quella che è la società globale del capitale. Il preteso orientamento pragmatico, cela piuttosto la sua propria forma sociale. Un vero pragmatismo, non sarebbe mai capace di plasmare il mondo sensibile, le risorse sociali e il potenziale scientifico, secondo un principio razionale unico, dogmatico e astratto. Il vero pragmatismo significherebbe, pertanto, una rivoluzione contro il valore e contro il suo sistema di ordinamento. Ogni pensiero sottomesso alla forma merce, invece, è  al contrario "visione del mondo" solo a causa della lente deformante dell'astrazione valore. I pseudo-pragmatici borghesi, in realtà obbediscono al dogmatismo reale del denaro, e alla sua auto-valorizzazione feticista. Nella pratica sociale, tale pragmatismo si converte forzatamente in una dittatura della stato d'assedio, che dichiara guerra contro tutti coloro che non possono più vivere degnamente sotto il giogo della forma merce totalizzata. In realtà, c'è qualcosa di terribilmente consolatorio nel fatto che il Mondo Unico, tagliato sulla forma valore, obblighi gli a-critici teorici professionali dell'Occidente a dire quello che pensano realmente, nelle forme delle teorie omicide della democrazia liberale, con tutti i suoi deficit ecologici e sociali. E questo poiché l'economia di mercato e la democrazia occidentale - in quanto forme di superficie o forme fenomeniche del feticismo moderno - non sono semplicemente capaci di integrare la stragrande maggioranza dell'umanità. La fine del socialismo di Stato - che non era altro che una dittatura di modernizzazione tra le tante altre - reca in sé, in modo evidente e con primitiva violenza, non una rivitalizzazione della democrazia occidentale - come avevano sperato i teorici della civiltà - ma, al contrario, proprio l'irruzione galoppante della barbarie. Il Menetekel (N.d.T.: espressione di origine ebraica, tratta dal libro di Daniele, che profetizza la dissoluzione del regno di Baltasar e la sua spartizione fra Medi e Persiani. In tedesco, il termine è venuto a significare "segnale di allarme", "minaccia di pericolo", o "destino fatidico") jugoslavo funge da profezia del nostro futuro. Ovviamente, questa diagnosi della situazione della società e della teoria, porta a chiedersi quali siano le possibilità di dominio e di cambiamento della stessa. La prassi sociale, deve passare attraverso la coscienza teorica.  Sicuramente, con la crisi e con la critica del sistema produttore di merci, quello che viene a cambiare, è anche la posizione della teoria stessa. Mentre la critica radicale del valore non può obbedire al dogmatismo reale del denaro, e tantomeno recare in sé un concetto astratto di ragione, dogmatico e esterno. Una teoria capace di concepire sé stessa, non è più il comitato centrale dello spirito del mondo, e pertanto non può più servire come istanza leggittimatrice di alcun comitato centrale politico, ma nemmeno di una commissione parlamentare verde professionalizzata alla maniera capitalista. Il vecchio collegamento tra teoria, programma, partito e potere, dev'essere, esso stesso, imputato alla forma borghese, la quale definiva anche la posizione della teoria. Se salta per aria la relazione borghese tra "vita" e filosofia - in quanto tale - così come quella fra economia e politica, allora diventa non più possibile imporre al pensiero la vecchia assegnazione prescritta dal modello mercantile.
La teoria - che non deve più celebrare alcuna base sociologistica di classe, anche se questa si presenta nella figura ultima e degradata di una "volontà elettorale" - alla fine gode della libertà propria del "fuorilegge", e viene riconosciuta come momento critico di una crisi sociale di portata mondiale, senza che però sostenga che queste pretese, rispetto alla totalità del mondo intero, le derivino da una qualche metafisica della logica finale. La nuova modestia della teoria dev'essere, tuttavia, simultaneamente, la sua nuova e inaudita radicalità, ed è semplicemente su questo che riposa la sua verità. Al contrario, l'apparente modestia dei filosofi occidentali-democratici della capitolazione, smentisce sé stessa, poiché, a livello di dirigere la radicalità della critica contro le attuali condizioni di vita, essa mobilita, in maniera del tutto immodesta, la radicalità delle relazioni capitaliste contro gli esseri umani reali. La teoria non può più richiamarsi a un qualche soggetto ontologico, che non sia essa stessa. Quando si dissolve l'ontologia e la metafisica del lavoro astratto forgiato dalla forma merce, la crisi già non può più essere superata mediante la trasformazione di un soggetto in sé, inconsciamente presente da sempre nella sua particolarità capitalistica, vale a dire,  un soggetto di per sé del lavoro totale. E' la società stessa, che deve ora costituirsi coscientemente in quella terra desolata nella quale fino ad ora non c'è stato alcun soggetto, se non la forma cieca e feticista della "astrazione reale" (Sohn-Rethel). La teoria dà così fondamento a questa costituzione cosciente, e lo fa proprio perché non può più evocare alcun "interesse" immanente alla forma merce, ma può solo mobilitare "l'interesse" sensibile, contro la stessa astrazione reale. I germi di questo movimento, li troviamo praticamente già presenti nella società sotto forma di critica femminista, sociale ed ecologica. Tutte queste forme di critica pratica, non sono più un ontologico "in sé" "per sé" del lavoro, ma sono dei momenti effettivi del movimento di soppressione del valore. Il momento teorico, cammina ancora a passi lenti, e deve compensare il proprio ritardo.

   E in tal caso, anche il cambiamento di luogo della teoria va inteso in senso letterale. Dovrebbe essere diventato chiaro, già da molto tempo, che rinchiudere il pensiero (soprattutto quello rivoluzionario) dentro la prigione dell'amministrazione intellettuale accademica occidentale , non gli avrebbe di certo fatto bene. L'università non si sbarazzerà della sua "muffa di mille anni" per mezzo di una modernizzazione capitalistica, anche perché lo stesso capitale non è altro se non muffa residuale di una preistoria di mille anni di feticismo sociale. Ma, d'altra parte, anche le dicotomie del mondo della merce, mantenute istituzionalmente, crollano. La rivoluzione teorica costituisce, simultaneamente, anche una rivoluzione istituzionale, e ogni rivoluzione comincia con la pratica di non prendere più sul serio le sacre istituzioni. Così come oggi non serve avere una coscienza teorica, esplicitamente critica del valore, per riuscire a mettere a confronto il gesticolare, la mimica, i discorsi e le azioni della classe politica del sistema produttore di merci, da una parte, coi cerimoniali dei cacicchi di una tribù cannibale, dall'altra, per riuscire a vedere un'unità scimmiesca da preistoria. E' in questo modo, grossolano, visto che la vita accademica è, allo stesso tempo, anche l'ultimo bastione di una coscienza di Stato. In nessun'altra sfera del sistema produttore di merci riesce  a mantenersi così tanto tenacemente una grottesca e antidiluviana ostentazione dei titoli. Solo i fasti della toga, del berretto dottorale, della talare, ecc., già essi ci rimandano a questo stato di cose. La gente si domanda perché i rettori e i decani non si mettano piuttosto a usare delle ossa alle narici, come indice della loro importanza. Per ironia, oggi, la crisi della "muffa di mille anni" coincide con la crisi delle relazioni stabilite con il valore. I rimbrotti della coscienza accademica che ne derivano non sono privi di grazia. Con l'obsolescenza del solenne orgoglio per il proprio stato, ecco che tutt'a un tratto diventa obsoleta l'arbitrarietà astratta che guadagna denaro. Con le restrizioni imposte dalla crisi fiscale dello Stato, ecco anche l'impresa del pensiero vede strangolata la sua offerta. Come si sa, perfino la filosofia va alla ricerca di finanziamenti, e cerca di provare la propria importanza ai fini del funzionamento capitalista. La cantilena che intonano riesce anche a essere divertente. Si tratta della transizione istituzionale della filosofia, e delle scienze umane in generale, verso quel livello di leggerezza che oggi definisce di gran lunga anche quello che è il suo contenuto. Non c'è alcun motivo per i lamenti pessimisti circa il futuro della cultura, che si vede tagliati i finanziamenti per progetti di ricerca i quali, in qualche modo, sono nella loro maggioranza inutili, o costituiscono una minaccia pubblica. Tanto meno, devono essere oggetto di compassione quegli accademici che si mantengono grazie a dei posti di lavoro parziali o provvisori, e lo fanno per puro attaccamento alla loro rispettabilità professionale, percependo dei redditi equivalenti a quelli dell'assistenza sociale. E' più probabile che possano emergere connessioni innovative tra filosofia e "vita", insieme ad altre connessioni, grottesche, come lo sono i tentativi un po' stravaganti di istituire, per esempio, un "consultorio filosofico", quasi una specie di dentista dello spirito, oppure un'officina di bricolage per appassionati pensatori. In generale, però, non ci si deve aspettare che la scienza - decaduta e intimidita, in quanto ramo istituzionale della modernità borghese - investa contro quelle che sono le sue proprie basi e compia, di per sé, il prossimo passo storico del pensiero, ossia, che passi alla critica radicale della forma merce. Anche la scienza, come tale, è stata modellata dalla forma merce, e in tal senso anch'essa dev'essere superata; non retrocedendo in direzione del mito, ma avanzando su un territorio sconosciuto. Così, il fatto che essa non sia più presa sul serio, indica il primo passo nella giusta direzione. La ragione relativa di Paul Feyerabend, o di Hans Peter Duerr, si basa su tale situazione. Queste osservazioni non vanno intese, equivocando, come le espressioni di un risentimento anti-accademico. Non c'è alcuna vergogna nel fatto che qualcuno concluda il suo corso di laurea, o il suo dottorato di ricerca, e che si guadagni da vivere come accademico.

   Ma, alla fine, cosa si può obiettare contro l'americanizzazione della posizione sociale degli accademici? Nei nuovi legami compulsivi tra "vita" e filosofia, risiede anche la possibilità di una nuova capacità di distanziamento. Così come la scienza presuppone una distanza nei confronti dei suoi oggetti, anche il superamento della scienza della costituzione feticista presuppone una meta-distanza nei confronti della stessa scienza. Se tutti sono artisti, come pensavano Joseph Beuys o Andy Warhol, allora, nessuno lo è. E questo vale anche per la scienza. Nella stessa misura in cui si massifica la capacità di astrazione, la società feticista dell'astrazione reale viene spinta verso la dissoluzione. La "proletarizzazione" degli intellettuali e la "de-proletarizzazione" della società vanno di pari passo, e danno mostra di quale sia il carattere discutibile del mondo concettuale sociologistico. Diminuisce il numero dei "figli di operai" fra gli studenti, ma, e con una rapidità ancora maggiore, diminuisce quello degli "operai" nell'insieme della popolazione. Nel 1986, per la prima volta nella Repubblica Federale Tedesca, era maggiore il numero degli alunni che concludeva il secondo grado, rispetto a quello che concludeva l'insegnamento di base; nel 1991, e ancora per la prima volta, c'erano più studenti universitari che apprendisti artigiani. Con questo, si vuol dire che ogni pacchetto di relazioni amorose con sopra l'etichetta "intellettuali e classe operaia", tipico della lotta di classe, si vede ridotto ad assurdo. Quando la "intellighenzia" stessa viene convertita in "popolo", questa non è più intellighenzia, e nemmeno il popolo è popolo. La crisi del lavoro astratto, che presuppone una "classe" e un "popolo" che le corrisponda, si esprime nell'esistenza sociale, così come la crisi dei contenuti si esprime nella crisi istituzionale. Il focus dell'innovazione teorica non può più nascere all'interno dell'attività intellettuale ufficiale. La nuova meta-distanza nei confronti della scienza stessa, supportata dalla "vita" effettiva di una intellighenzia massificata - e anche soppressa e superata in quanto intellighenzia - potrebbe essere capace di ricaricare la batteria del pensiero socialmente critico. Non è a partire da un'opposizione forzata "contro" l'impresa scientifica, ma piuttosto da una posizione obliqua in rapporto a essa, che può nascere un discorso critico nei confronti della modernità capitalistica, capace di selezionare gli interventi secondo criteri distinti da quelli della macchina scientifica borghese, che è arrivata a un punto morto. "L'inutilità di diventare adulto" (Koch/Heinzen), così come la visione chiara della mancanza di senso dei criteri capitalisti di successo, a volte arrivano più vicino alla proscritta teoria della critica radicale del valore, di quanto attualmente vogliano ammettere gli esecutori dell'impresa intellettuale.

- Robert Kurz - Testo originalmente pubblicato su "Münchner Zeitschrift für Philosophie", n. 22, del 1992 - fonte: EXIT! -

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