Per quanto già detto a proposito della letteratura di Aleksandar Hemon, vale la pena di ricordare una frase di Fredric Jameson, tratta dal suo libro "Raymond Chandler: The Detections of Totality" (Verso, London 2016, p. 2: «A causa delle circostanze, lo scrittore che scrive in una lingua adottata è già, per forza di cose, una sorta di stilista».
Ed ecco che così, l'idea per cui l’individuo viene trasformato in «stilista» dalla «forza delle circostanze», appare essere abbastanza pertinente, non solo riguardo al caso di Hemon (anche se per lui, questa sia già diventata una sorta di scena inaugurale piuttosto lontana nel tempo, dal momento che ormai appare assimilato in maniera impressionante nel sistema statunitense; insegnando a Princeton e scrivendo sceneggiature per Hollywood); ma lo è anche per Rafael Pinto, il protagonista de "Il mondo e tutto ciò che contiene".
Rafael adotta una bambina, Rahela, subito dopo il parto, allorché la madre muore; egli è suo padre a tutti gli effetti, e le si accompagna lungo tutta la traiettoria dell'esilio, tanto nella sua infanzia quanto nella sua prima adolescenza; entrambi parlano un misto di bosniaco, di "Spanjol" e di tedesco - scrive Hemon - facendo altresì uso anche di molte parole che avevano raccolto lungo la strada, dal tagiko, dal kirghizo e dall'uiguro, e perfino da quelle lingue e quei dialetti senza nome che avevano assorbito mentre seguivano le varie carovane. Insomma, parlavano una lingua che, oltre a loro due, nessuno al mondo parlava, dal momento che nessuno aveva vissuto quello che avevano vissuto loro (p. 219). Quando, nell'epilogo che chiude il libro, incontriamo una Rahela molto anziana, è proprio lei a dichiarare che forse la lingua parlata con suo padre era una lingua unica al mondo, una lingua che poteva essere compresa solo da loro (nel corso della sua vita cercherà di riproporre la lingua, usandola con altre persone quando torna a Sarajevo, ma nessuno la capisce). In ogni punto del percorso, la lingua si trasforma; "bosniaco", "spanjol" e "tedesco" sono tutti elementi che Rafael porta con sé, prelevati dalla sua vita precedente, e che trasmette alla figlia; mentre invece "tagico", "kirghiso" e "uiguro" appartengono già alla dimensione dell'esilio e del transito, così come le "lingue" e i "dialetti" senza "nome" assorbiti con le carovane.
Così, Jacques Derrida in "Torri di Babele": «La traduzione non dovrebbe cercare di dire questo o quello, di trasporre un tale e un tal altro contenuto, di trasmettere un tale e un tal altro determinato significato, o di comunicare un simile carico di significato; ma piuttosto dovrebbe rimarcare l'affinità tra le diverse lingue, esibendo quella che è la sua possibilità stessa».
fonte: Um túnel no fim da luz
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