L'Industria Culturale nel 21° Secolo (2 di 3)
- Sull'attualità della concezione di Adorno ed Horkheimer -
di Robert Kurz
* Dalla critica apparente della borghesia intellettuale al culto postmoderno della superficialità * Critica culturale elitaria o emancipatrice? * Riduzionismo tecnologico * La pubblicità come percezione culturale del mondo e di sé * Il proseguimento con altri mezzi del "lavoro astratto" e della concorrenza * Internet come nuovo mezzo centrale dell'industria culturale * La virtualizzazione del mondo della vita * Interattività del Web 2.0 ed individualizzazione * Una cultura gratuita a caro prezzo * Il limite interno del capitale e la crisi economica dell'industria culturale * Sulla via dell'esaurimento delle riserve culturali * Il mondo non è un accessorio. Perché è impossibile una "rivoluzione culturale" separata *
* Internet come nuovo mezzo centrale dell'industria culturale *
E' il momento adesso - come previsto - di affrontare Internet in quanto complesso più avanzato dell'industria culturale. La "Rete" costituisce senza dubbio la perfetta tecnologia postmoderna, la quale non a caso viene paragonata alla scoperta della stampa avvenuta all'inizio della modernità e si ritiene che avrà effetti altrettanto rivoluzionari. Ma, così come la stampa dei libri e le sue conseguenze sociali non possono essere comprese a partire da esse stesse, ma soltanto nel contesto del processo di costituzione storica proto-capitalista, anche Internet non può essere dichiarata un'istituzione tecnologica autonoma con potenziali di cambiamento sociale, ma può essere solo vista come momento socio-tecnologico nei limiti storici del capitalismo.
L'opposizione complementare fin qui tratteggiata fra il pessimismo culturale della borghesia culturale e l'ottimismo culturale postmoderno finisce quasi per non aver ragione di essere in un tale complesso ultramediatico; e questo soprattutto perché l'alta cultura conservatrice dell'antica filologia della borghesia classica è di fatto pronta a capitolare incondizionatamente. Nello specifico contesto tedesco, la corrispondente borghesia culturale è stata sempre, da un lato, una borghesia immaginaria, un gruppo sociale diffuso e variegato, i cui membri pretendevano considerarsi "qualcosa di meglio" proprio sotto l'aspetto culturale. Questa demarcazione si riferiva non solo alle qualifiche (accademiche) superiori, ma anche ad un canone culturale il cui nucleo erano le lingue antiche, la filosofia classica e la poesia dell'idealismo tedesco. La pretesa di una "cultura superiore" a questo associata andava ben oltre i pochi specialisti in materia; avvolgeva tutto lo spazio accademico e sicuramente anche il personale docente e perfino coloro che avevano portato a termine l'istruzione secondaria. Per questo, la demarcazione non era soltanto nei confronti delle "masse incolte", ma anche rispetto alle élite degli altri paesi capitalisti. Immaginaria, questa borghesia lo era certamente anche per la competenza circa il contenuto di quel canone culturale che per la maggioranza di questa classe non si spingeva oltre la superficialità ed andava tranquillamente a braccetto coi fumi delle birrerie e con la brutalità nei rapporti sociali.
Questa vecchia "barbarie colta" della borghesia accademica tedesca si è estinta all'epoca delle guerre mondiali e non c'è da piangerci sopra. Nella democrazia del mercato mondiale, dopo il 1945, è scomparso anche il canone culturale classico, dando luogo in questo modo ad una mera coscienza funzionale di élite. Quello che è rimasto è solo un debole riflesso di quella pretesa, del resto mai realmente soddisfatta, ed un residuo soltanto fantasmagorico della falsa coscienza di essere "qualcosa di meglio". Nell'attuale ideologia di classe media, questo impulso si riduce sempre più al tentativo di difendere la qualifica d'istruzione secondaria della propria prole contro le nuove classe inferiori e contro i migranti, ossia, di sabotare qualsiasi superamento del sistema scolastico diviso in tre gradi, ormai da tempo anacronistico, della Repubblica Federale Tedesca.
Per quel che concerne i contenuti, con la terza rivoluzione industriale l'impero fantasmatico della borghesia culturale è sparito definitivamente. La presunzione elitaria, ormai da tempo, non si riferisce più alla capacità di riuscire a recitare il testo originale di Omero, ma bensì ad una mistura di economia politica e di "competenza multimediale" che costituisce il profilo ideale dell'individuo rigorosamente postmoderno in quanto "dispositivo di successo"; seppure questo rimanga soltanto al livello della nuova fantasia del rispettivo ambito. La coscienza di élite senza fondamento ha cambiato con estrema sofferenza la maschera appiccicata sul proprio volto; ed ora è volgarmente la maschera dell'economia capitalista ed ordinariamente la stessa maschera tecnologica indossata da tutta l'organizzazione democratica. Perfino i professori di latino, gli scienzati letterari ed i cattedratici di filosofia ora fanno apprendistato presso giovani e dinamici imprenditori imbroglioni e si sciolgono in ammirazione davanti a dei tredicenni fanatici che amano essere considerati virtuosi del clic del mouse. La nuova élite è notoriamente senza alcuna pretesa spirituale ed è talmente poco attrezzata per il corso del mercato che le università "di eccellenza" possono essere considerate tutt'al più come un'oggettiva ironia. L'apoteosi dell'insieme dell'industria culturale sta nel fatto che le élite di ogni settore si sono trasformate in veri e propri personaggi da fumetto che sono straordinariamente deliziati dal loro proprio status perché non hanno alcun termine di paragone.
Nel 1945, Adorno ed Horkheimer non potevano sapere né della rivoluzione tecnologica digitale né della sua applicazione allo sviluppo capitalista. Ma si trovavano perfettamente nelle condizioni di pronosticare, riguardo all'industria culturale, la tendenza generale verso la sua integrazione mediatica, così come aveva fatto Marx riguardo alla scientificazione dell'industria capitalista. "La televisione" - scrivevano - "tende ad una sintesi della radio e del cinema" e questo porterà alla "realizzazione ironica del sogno wagneriano dell'opera d'arte totale". Poiché la "armonizzazione fra parola, immagine e musica", dacché non segue alcuna legge culturale propria, è soltanto "il trionfo del capitale investito".
E' facile rendersi conto che Internet si appresta a portare a compimento la sintesi dell'industria culturale su una scala ancora più grande. Le diverse tecnologie di stampa, telefonia, cellulari, radio, cinema e televisione vengono fuse in un unico complesso globale. Tuttavia da questo non emerge di nuovo una rivoluzione tecnologica in quanto tale, ma si tratta della logica del "lavoro astratto" (logica, che penetra geneticamente tutto il sistema), della forma autonomizzata del valore e del controllo sociale che su di essa si regge , che costituisce la matrice, e simultaneamente il movimento, di questa integrazione mediatica. La forza sintetica non deriva da una qualche riflessione cosciente e ormai nemmeno più dalle attività autonome degli individui, ma emana, al contrario, dalla determinazione eteronoma della forma sociale. Per questo, in Internet, come nuovo mezzo centrale, si condensano e si aggravano tutte le contraddizioni ed i deficit che Adorno ed Horkheimer avevano precocemente rilevato nell'industria culturale. In realtà, si tratta solo della prevista "realizzazione ironica del sogno wagneriano dell'opera d'arte totale" in senso ampio. Cosa che può essere osservata in alcuni aspetti essenziali.
* La virtualizzazione del mondo della vita *
Fin dal suo inizio, quel che è inerente all'industria culturale è la tendenza ad invertire la relazione fra oggetto e rappresentazione, fra segno e significato, o a cancellare la differenza fra di essi. Nasce soltanto qui, in una dimensione specifica dell'industria culturale, quel "mondo invertito" generale della relazione di capitale. Horkheimer ed Adorno vedono una tale tendenza all'inversione, già nel mezzo, allora recente, del cinema a colori: "Il mondo intero viene costretto a passare attraverso il filtro dell'industria culturale. La vecchia esperienza dello spettatore cinematografico, che percepisce la strada come un prolungamento del film che ha appena finito di vedere, dal momento che questo stesso film pretende di riprodurre rigorosamente il mondo della percezione quotidiana, diviene lo standard di produzione. Quanto più è maggiore la perfezione con cui le sue tecniche duplicano gli oggetti empirici, tanto più facile diventa oggi ottenere l'illusione che il mondo esterno sia il proseguimento, senza rottura, del mondo che si scopre nel film".
Non è un fine cosciente, ad esempio nel senso di una "manipolazione" deliberata della coscienza (come in seguito sembrano suggerire anche Adorno ed Horkheimer), al contrario, il momento manipolativo risiede nella logica oggettiva delle relazioni e nella loro espressione nell'industria culturale. "La vita non deve più, tendenzialmente, potersi distinguere dal film sonoro". Questa formulazione fatta nel capitolo dell'industria culturale riferisce il "deve" al "soggetto automatico" (Marx) della valorizzazione del capitale. Gli individui in una certa misura manipolano sé stessi proprio perché sono "soggetti" dell'imperativo capitalista. Come si consuma un'inversione in quanto la produzione concreta è socialmente "valida" solo come forma di manifestazione del "lavoro astratto", come la forma delle merci si duplica nella forma del denaro e come la "ricchezza concreta" può essere soltanto forma di rappresentazione e di manifestazione della "ricchezza astratta": così si inverte e si duplica anche la percezione e la rappresentazione cultural-simbolica del mondo e della propria esistenza. L'autonomizzazione, già enunciata dall'effetto tecnico senza contenuto, va ancora più lontano e si aggrega in uno pseudo-mondo, dal momento che gli oggetti concreti, così come gli individui ad essi relazionati, diventano mere forme di manifestazione del suo proprio modo di rappresentazione, e quest'ultimo sviluppa una specie di vita apparente.
A quel che Marx ha definito come "forme oggettive di esistenza", ossia, alla vera vita segnata nel capitalismo dagli imperativi della valorizzazione e dell'auto-valorizzazione, viene sovrapposta una seconda realtà virtuale: una messinscena ed un'auto-messinscena mediatica. Tale concetto è diventato inflazionato come concetto semi-critico o direttamente affermativo. Non è un caso che in tutte le sfere della vita si diffondono, come metafore, espressioni provenienti dal mondo del teatro. Gli individui si considerano sempre più come i loro propri attori nel loro proprio teatro. Questa pseudo-vita virtuale non ha solamente una funzione compensatoria rispetto alla miseria delle relazioni sociali reali, ma viene anche elevata fantasiosamente ed ideologicamente a "vera" realtà, rispetto alla quale l'esistenza materiale e sociale reale si configura come una mera appendice, ormai quasi irreale.
Le parole di Adorno ed Horkheimer a proposito dell'indistinguibilità, e perfino del rovesciamento mediatico, fra l'essere sociale e l'apparenza prodotta dall'industria culturale, sono profetiche in quanto già indicano nel cinema una tendenza che va ben oltre il cinema stesso. Per la maggioranza dei consumatori dell'industria culturale di allora, il cinema a colori era ancora riconoscibile come prodotto delle fabbriche dei sogni e la sala del cinema veniva identificata come un luogo dove una persona non vive sul serio, ma in cui entra occasionalmente uscendo dal mondo del quotidiano. Al contrario, Internet, non in generale ma per un numero elevato e crescente di persone a vari gradi, è diventata una sorta di residenza spirituale e culturale che, viceversa, si abbandona solo occasionalmente per fare una visita alla realtà sociale e materiale. Quest'inversione fra apparenza mediatica e realtà ha raggiunto, con l'aiuto dello sviluppo tecnologico e con la sintesi dei dispositivi elettronici, quanto meno una nuova dimensione.
Naturalmente non si deve cadere nell'errore di prendere il cliché troppo sul serio. Astraendo dal fatto che la maggior parte dell'umanità non ha accesso - oppure ha un accesso molto limitato - ad Internet e che con il suo espandersi si vanno rivelando limiti di saturazione dovuti alla mancanza di potere di acquisto e/o di infrastrutture, ed anche astraendo dal fatto che per molti utilizzatori abituali la differenza fra mondo reale e virtuale non è assolutamente scomparsa. Il che altresì non è neanche possibile, così come il valore astratto non riesce in nessun modo a far sparire la necessità dei beni di uso materiale per mezzo del loro modo di rappresentazione sotto la forma del denaro. Se il denaro non si può mangiare, assai meno si possono mangiare i download.
Inoltre il fenomeno della virtualità non costituisce solo un semplice problema generazionale, come spesso si vorrebbe far credere. La presunta "Net generation" di "quelli nati col digitale" è più una leggenda da opinionisti interessati. In realtà non esiste un gruppo di età uniformato su una specifica socializzazione digitale. Il consumo a volte più frequente dei mezzi elettronici di comunicazione non va confuso né con una maggior competenza in materia né con un moto di percezione senza difficoltà. Anche fra gli adolescenti si trovano alcuni individui che hanno difficoltà a trattare con un ambiente digitalizzato; non solo fra gli adulti più anziani. Ed il consumo superficiale dei giocattoli della tecnologia dell'informazione dell'industria culturale non mette in atto alcuna "padronanza", e lo fa ancor meno se assume un carattere di vizio. In tutte le generazioni ci sono pochi che posseggono un'effettiva ed ampia competenza digitale; e non sappiamo bene il modo in cui la applicano.
La presunta maggior facilità di adattamento alla virtualizzazione tecnologica del mondo della vita da parte di adolescenti e pre-adoloscenti è parzialmente una mera illusione dei professionisti specializzati in gioventù, ma è in parte anche un'auto-illusione della generazione che ha questi interessi, e della sua propria falsa coscienza. Oppure anche un auto-illusione dei loro genitori e dei loro nonni, con un residuo di socializzazione della borghesia culturale, che vorrebbero consegnare alla propria discendenza speciali opportunità di futuro, in quanto capitale umano in grado di cliccare con il mouse. Il "darwinismo dei media" così tanto spesso evocato può anche tornarsene dov'era. Le giovani competenze mediatiche della vita ridotta di oggi, che ormai non leggono libri, sono i perdenti di domani, perfino dal punto di vista dell'immanenza capitalista.
I propagandisti della tendenza alla virtualizzazione, in ogni caso reale, non coincidono con l'insegnamento delle competenze tecnologiche, né riflettono sulle contraddizioni insolubili relative a questa tendenza o a proposito dell'illusionismo ad essa associato. Al contrario, abbiamo a che fare con una certa parte della produzione di opinioni accademiche e mediatiche che ha ottenuto uno status egemonico in virtù del fatto di aver conferito un'espressione ideologica affermativa allo sviluppo capitalista al principio del 21° secolo. La pressione alla virtualizzazione, nella misura in cui si generalizza secondo una tendenza comunque paralizzante, corrisponde innanzitutto ad un adattarsi in maniera zelante all'ideologia egemonica, e quindi ad uno stadio un cui non si distinguono gli stessi bisogni da un conformismo senza cerimonie. In ogni caso la fuga verso un oltre simulato digitalmente mostra la miseria della realtà capitalistica.
L'abbandono da parte della coscienza postmoderna del vecchio canone culturale borghese non produce assolutamente alcun nuovo contenuto, bensì trasforma in contenuto la propria "forma vuota", perseguendo in tal modo l'illusione oggettiva del capitale che vorrebbe emancipare la "ricchezza astratta" dalla materia e dalla natura. Voler eliminare la relazione referenziale fra rappresentazione ed oggetto, fra modus e contenuto o fra segno e significato, fa parte dell'essenza dell'ideologia postmoderna anti-essenzialista. Se il culturalismo diffonde l'autonomizzazione dei sistemi dei segni e dei modi, soccombe di fronte all'astrazione funzionale del comprare e vendere nella sfera del mercato borghese che non vuole sapere niente della sua sostanza feticista. La sintesi attraverso Internet dei mezzi dell'industria culturale sembra fornire una base tecnologica ad un'illusoria emancipazione dei segni. La scomparsa graduale del mondo che si converte in flussi di dati fissa l'apparenza reale feticista della merce su un piano differente, come campo da gioco universale prodotto meccanicamente, sul quale non solo gli oggetti, ma anche le persone si duplicano, e nella loro virtualizzazione conferiscono a sé stesse una vita apparente che corrisponde alla loro reale nullità e volgarità. Lo spazio virtuale è infestato dagli avatar, come fantasmi di quei morti viventi che nella realtà vegetano nei campi di concentramento della valorizzazione del capitale e dell'amministrazione del lavoro.
La virtualità integrata all'industria culturale ne ha penetrato la tecnologia; ma, ancora una volta, la ragione non è tecnologica in quanto tale ma, al contrario, è quest'ultima che assume il suo carattere a partire dalla forma del soggetto capitalista, il quale procede a tentoni in una dinamica cieca. Anche per questo, non è a caso che la maggioranza delle presenze nel parco giochi virtuale siano maschili. Nella realtà gli uomini e le donne, presi individualmente, non corrispondono alle competenze socio-storiche loro assegnate - come è stato dimostrato dalla teoria della dissociazione sessuale - ma, in generale, non possono liberarsi da tali competenze fino a quando la relazione sociale soggiacente non sarà stata abolita. L'attenzione, connotata come femminile, verso i bambini, gli anziani e gli ammalati bisognosi appare già, nella migliore delle ipotesi, in forma idealizzata, nella letteratura; metterla in scena come "realtà virtuale" è del tutto impossibile in quanto in quest'area non si può dare alcuna simulazione tecnica, senza che venga immediatamente rivelato il suo carattere assurdo. Lo spazio virtuale costituisce l'impero spirituale secondario, un duplicato del "lavoro astratto" anche nel senso del suo divenire storicamente irreale; e gli avatar che lo percorrono sono soprattutto i fantasmi della moderna mascolinità patriarcale.
* Interattività del Web 2.0 ed individualizzazione *
Man mano che i moderni mass media elettronici, e la produzione dell'industria culturale ad essi associati, entravano nella vita, essi venivano anche calibrati formalmente e tecnologicamente sulla passività del loro pubblico. Adorno ed Horkheimer vedono in questo decisamente un marchio strutturale essenziale dell'industria culturale: " Il passaggio dal telefono alla radio ha separato nettamente le parti. Il primo, liberale, permetteva ancora all'utente di svolgere la parte del soggetto. La seconda, democratica, rende tutti del pari ascoltatori, per consegnarli, in modo autoritario, ai programmi fra loro tutti uguali delle varie stazioni. Non si è sviluppato alcun sistema di replica, e le trasmissioni private sono circoscritte alla clandestinità".
L'apologia postmoderna dello "spettacolo" (Debord) dell'industria culturale ritiene di poter intervenire trionfalmente su questo per dimostrare il carattere antiquato del pessimismo culturale della teoria critica. Perché se la mancanza di un "dispositivo di replica" era scontata per i media pre-digitali, e anche per la fase iniziale di Internet, ora - conclude la spiegazione pop postmoderna - la vecchia struttura autoritaria "dell'emittente e del ricevente" sarebbe di fatto superata. La parola chiave è "interattività". La mutazione senza fine di Internet avrebbe portato alla nuova qualità interattiva del Web 2.0, è quello che continua ad essere ripetuto sia nei supplementi culturali che nel mondo accademico. A questo livello qualsiasi "utente" può, sempre e dovunque, connettersi nella maniera più personalizzata possibile ed intervenire con la parola (o con l'immagine).
I passaggi di questa mutazione sono illuminanti. Si va dalla pseudo-partecipazione, in programmi radiofonici che prevedono la partecipazione telefonica degli ascoltatori, che giocano ad essere presenti per mezzo di sciocchi saluti "a tutti quelli che mi conoscono" ecc., passando per l'inflazione di siti web privati, ai blog, alle forme direttamente interattive dei "commenti" nelle mailing list o nelle edizioni elettroniche dei media stampati, alle reti "di amicizia" del Web 2.0 e ai servizi di informazione come "Twitter". Ma tutte queste forme di interazione digitale non sono state in grado di portare ad una qualche emancipazione mediata in maniera puramente tecnologica, allo stesso modo in cui non ne sono state capaci tutte le forme precedenti dell'industria culturale.
Il concetto di mero "dispositivo di replica" forse è stata una scelta infelice da parte di Adorno ed Horkheimer, anche perché non erano in grado di intendere questa funzione in una modalità ridotta a tecnica.Ma si tratta di qualcosa di diverso. La capacità di replica è organizzata soltanto a livello di oggetto e di apparecchiatura, e non a livello sociale. L'espressione "social networking" digitale, che apparentemente contraddice questa valutazione, è solo un eufemismo. Il social si riferisce qui ad un contesto quasi esclusivamente virtuale, meramente simulato; si tratta nella più parte dei casi di amicizie irreali fra avatar. I veri individui rimangono spesso anonimi, oppure indossano una maschera in modo solamente esibizionista, nella distanza mediaticamente mediata che permette apparentemente una vicinanza primitiva secondaria. All'irrealtà corrisponde il non-compromesso; del resto questo riflette qualcosa che è essenziale nell'intima disposizione postmoderna, la quale rifugge qualsiasi compromesso, come il diavolo rifugge la croce. Questa ovvia fenomenologia del Web 2.0 è generalmente nota e viene frequentemente tematizzata; non da ultimo negli stessi supplementi culturali che amano delirare a proposito dell'interattività digitale. Ma a cui piace assai poco riflettere sui suoi presupposti o sulle conseguenze.
Lo sfondo è costituito, fin dal principio, non dalla pura tecnologia bensì - come non poteva non essere - dallo sviluppo sociale corrente logicamente associato alla "interpretazione" tecnologica. Il dispositivo in quanto tale fornisce solamente il termine altrimenti insidioso di "interattività" o "interazione", come se si trattasse di una relazione reciproca fra pianeti, molecole, insetti o componenti meccaniche. Questa disumanizzazione, già insinuata fin dal termine quasi altrettanto neutro di "comunicazione", corrisponde allo status de-realizzato di persone partecipanti che si sono letteralmente trasformate in semplici maschere. Il fatto per cui il "dispositivo di replica" tecnico emerga proprio nel momento in cui i soggetti socialmente ridotti al minimo, e virtualmente disumanizzati e resi irriconoscibili come meri attori, non hanno più niente da dire gli uni agli altri ma, al contrario, possono ora presentarsi gli uni agli altri nelle loro maschere, potrebbe essere vista come un'astuzia negativa della ragione capitalista. Per cui non si parla di "dialogo", di "discussione" né tanto meno di "polemica", non a caso proibita, bensì di una "interattività" vuota e meccanica, alla quale gli individui borghesi si sono ridotti da sé soli.
Già nel 1944, Adorno ed Horkheimer intuivano lo stato di decadenza della soggettività capitalista che Ulrich Beck caratterizzerà, quarant'anni più tardi, come "individualizzazione". Contrariamente alle ipotesi ottimistiche di Beck, essi già sapevano in anticipo che il processo non aveva niente a che vedere con la liberazione degli individui dalla coercizione sociale oggettivata, ma semmai atteneva ad un nuovo livello della sua interiorizzazione, che si esprimeva anche esteriormente come nuova qualità di una "liberazione" meramente nel senso di una situazione universale di fuorilegge [Vogelfreiheit]. L'individuo astratto - fin da principio il tipo logico ideale del soggetto funzionale capitalista, ossia, l'opposto di un individuo concreto che vive coscientemente la propria socialità - dopo un lungo e doloroso processo di sviluppo si raffina nella pura forma postmoderna, in cui appare solo come un punto o come una "unità". Il capitale, il "soggetto automatico" della valorizzazione, è ora l'auto-riferimento immediato, non filtrato, folle e demoniaco del soggetto: ciascuno è il suo proprio capitalista, ciascuno è il suo proprio operaio. L'uomo isolato ormai non ha più alcuna storia ma, come unità astratta, è solo un punto medio delle tendenze del mercato, una macchina di autovalorizzazione o, come si dice in maniera premonitoria nel capitolo sull'industria culturale:"Ciascuno si riduce a ciò per cui può sostituire ogni altro: un esemplare fungibile della specie. Egli stesso, in quanto individuo, è l'assolutamente sostituibile, il puro nulla”.
Ma qui già non c'è più alcuna Dialettica dell'Illuminismo, come Adorno ed Horkheimer pretendevano ancora di vedere, pur con dubbi, ma c'è semmai il compimento della sua promessa. L'Illuminismo non aveva mai promesso altro che la "felicità" di ciascuno nel poter trasformare sé stesso in un "puro niente". Tale contesto è perfettamente chiaro e criticabile. Ma il postmodernismo, in tutte le sue varianti, non vuole questa critica; ciascuna copia si delizia della sua pura nullità che egli immagina come liberazione dalla materialità e da ogni relazione in generale. Gli individui astrattizzati fino al punto di non poter più essere ormai non sono più in grado di farsi coinvolgere in niente, da nessun contenuto, in quanto essi stessi sono diventati un oggetto meramente esteriore e cosificato.
In un certo modo, questo era già vero per l'individualità astratta ancora non maturata che atteneva ai primi dispositivi della tecnologia di "comunicazione" nel 19° secolo; ad esempio ed in primo luogo con il telefono, allora limitato ancora alle classi superiori con la capacità di pagarselo. Quando Adorno ed Horkheimer ironizzano sul fatto che il vecchio "dispositivo di replica" telefonico avesse ancora lasciato "svolgere" "liberalmente" ai partecipanti il ruolo di soggetti e che il dispositivo di controllo democratico dell'industria culturale, al contrario, questo non lo permetteva, un simile punto di vista non viene in alcun modo smentito dal Web 2.0 interattivo. Anche se i due autori si esprimevano probabilmente ancora nel senso di una dialettica positiva, possibile ma non sviluppata, anche così la loro formulazione ironica ci permette di intuire come il carattere "liberale", e simultaneamente di mero dispositivo, del telefono riduca la soggettività a "svolgere un ruolo", perché dietro c'è il potere aprioristico del "soggetto automatico" che ha ridotto il moderno concetto di "soggettività" al concetto di una semplice funzione. L'essenza di tale soggettività "interattiva" precoce si esprime nel migliore dei modi in quelle scene filmiche in cui l'attore visibile che parla al telefono allontana da sé la cornetta per non sentire la verbosità insopportabile del compagno di "interazione", e che poi, da parte sua, parla nel microfono senza che dall'altro lato ci si sia accorti dell'interruzione.
In questa pantomima da cinema muto con ogni probabilità è stato già detto tutto circa la "interattività". La mania del telefono cellulare che impazza da più di un decennio ha spinto questa situazione fino alla sua piena riconoscibilità, nella misura in cui ora le conferisce una mobilità tecnologica e, simultaneamente, uno spazio pubblico di esibizionismo "comunicativo". Quello che prima veniva pietosamente posto al riparo dalla cabina telefonica, ora irrompe come sproloquio nelle strade , nei bar e sui mezzi di trasporto. Sarebbe di fatto preferibile che i partecipanti semplicemente mettessero a nudo le loro parti sessuali, almeno così verrebbe risparmiato agli astanti l'oscenità, assai peggiore, dei loro strumenti vocali in attività. Cos'è mai la patta aperta dei pantaloni del tradizionale esibitore di membro sessuale a confronto della bocca aperta di uno pseudo-soggetto postmoderno? Nelle "comunicazioni" compulsivamente udite non è più possibile riconoscere alcun contesto umano; e anche le comunicazioni professionali o commerciali mostrano soltanto il motivo per cui l'economia imprenditoriale ci dovrà necessariamente portare alla catastrofe personale e sociale. Il dispositivo telefonico mobile, che nel frattempo si è connesso ad Internet, porta il corrispondente sistema di "replica" ben oltre la pubblicità compulsiva acusticamente limitata delle presuntuose comunicazioni quotidiane.
Il Web 2.0 offre a qualsiasi polemista da bar e a qualsiasi adoloscente piantagrane, quanto meno formalmente, la piattaforma per una pubblicità mondiale immediata. Ma la possibilità tecnologica coincide con la sua irrealtà sociale. Gli individui diventano mediaticamente attivi in termini di generalità sociale proprio sotto quella forma irriflessa ed acriticamente accettata che è stata loro consegnata dal capitalismo: come pseudo-individualità atomizzate, come meri esemplari dello stesso principio trascendentale. Quando un puro niente interagisce con un altro puro niente, si tratta solamente della vecchia e ben nota "figura di interazione" effettuata con altri mezzi, vale a dire, del possessore di merci che ne incontra un altro. Solo in apparenza si tratta di "discussione" di contenuti e di problemi reali, ma di fatto si tratta soprattutto di auto-messinscena narcisistica, che nei vecchi mezzi dell'industria culturale ancora almeno non avveniva "interattivamente", ma rimaneva attribuita ad una situazione amichevolmente "muta", come un'apparecchiatura attiva solo come abitudine o come un'irradiazione acustica unilaterale. Rimane un segreto degli apologeti, il motivo per cui un'irradizione acustica nei due sensi dovrebbe essere meglio. Adorno ed Horkheimer si erano già resi conto del fatto che la "stravaganza ben organizzata" costituisce il vero fine dell'esercizio mediatico, e la cosa rimane, sia che la scena ora si trovi collegata "interattivamente" o meno. Nella misura in cui i partecipanti sono limitati a presentarsi o a collegarsi l'uno con l'altro, è proprio il "dispositivo di replica" che li fa rimanere scollegati: "Il numero da lei chiamato è inesistente".
La "interazione" limitata alla forma e ridotta alla tecnica è ancora più difficile di quella del canale unilaterale poiché suggerisce una struttura dialogica resa anticipatamente impossibile dall'equipaggiamento del soggetto post-moderno, nella misura in cui questo continua ad essere affermato acriticamente . Ciò vale anche per l'auto-soddisfazione antiautoritaria dei piccoli blogger che si sottomettono agli imperativi socio-economici del "soggetto automatico" proprio perché trasformano sé stessi in marchi aziendali. La relazione autoritaria non viene superata per il fatto che smette di essere una relazione esteriore, ma viene dislocata all'interno degli individui come auto-relazione autoritaria. Così come ciascuno è il suo proprio capitalista ed il suo proprio operaio, ciascuno è anche la sua propria star, il suo proprio eroe ed il suo proprio ed unico fan; ed anche il suo proprio fan-club, in quanto personalità multipla tramite la moltiplacazione virtuale. Si potrebbe anche dire, ciascuno è la sua propria industria culturale casalinga per cui anche la maggior parte delle creazioni diventa conseguentemente penosa. Ma non c'è problema, tanto nella comunità dei chiacchieroni nessuno ci fa caso.
Allo stesso modo in cui la virtualizzazione della vita si presenta in maniera differente per gli uomini o per le donne, così avviene anche per la virtualizzazione e per il mezzo "interattivo". Più precisamente: il patriarcato cosificato, la dissociazione sessuale, si riproduce in maniera differente nella "interazione" mediatica individualizzata, similmente a come avviene fin dall'inizio nell'industria culturale. E così come il "lavoro astratto" è strutturalmente connotato come maschile, pur se ormai anche le donne sono da tempo "impiegate" in questa sfera funzionale, la stessa cosa avviene anche nello spazio virtuale dell'auto-messinscena. Qui, anche il sesso può essere cambiato con un clic del mouse, dal momento che ancora una volta sono soprattutto gli uomini che vogliono scoprire anche una femminilità virtuale per poter essere realmente "tutto" nella loro immaginazione. Ragion per cui la quota effettiva di donne fra i registi della Rete dovrebbe essere presumibilmente ancora minore di quanto già appare.
Il "puro nulla" segnalato da Adorno ed Horkheimer è, in quanto riflesso del "lavoro astratto", anch'esso strutturato come maschile e, proprio nella sua nullità, disponibile alla violenza latente. Dacché il puro nulla della soggettività scervellata e virtualizzata è in grado di trascendere il suo status di monade soltanto nella configurazione dell'aggressione e della caccia alle streghe. Naturalmente anche le ragazze partecipano al deplorevole mobbing digitale; ma di regola questo è soprattutto uno sport per giovani maschi. Tutto ciò diventa ancora più chiaro nelle chat-room virtuali hard per adulti. Per il mob digitale che assume periodicamente la forma della "interattività" maschile, del resto, sono le donne brutte l'oggetto favorito. Questo carattere fascista latente da truppa d'assalto nello spazio virtuale può perfettamente irrompere nella realtà sociale e diventare violenza materiale immediata. Specialmente in questo consiste il modo di ottenere consenso e la "capacità di realtà" tecnologicamente "interattiva" delle auto-comparse digitali.
* Una cultura gratuita a caro prezzo *
L'industria culturale come area di valorizzazione del capitale naturalmente presuppone il carattere di merce dei suoi prodotti, la cui espressione reificata di relazioni umane, com'è noto, venne elaborata da Marx nel suo concetto di feticcio. L'oggettività del valore delle merci culturali dentro una produzione per il puro profitto esige ora una vera e propria ritrasformazione "realizzatrice" e che queste merci si esprimano nella forma di "ricchezza astratta", ossia, nella forma del denaro, attraverso l'atto della vendita. Qui si presenta di nuuovo l'apologia postmoderna dell'industria culturale nel suo complesso, almeno per quel che riguarda Internet. I contenuti di ogni tipo che vengono offerti sulla Rete non costano niente o costano molto poco, sebbene si tenti continuamente di introdurre o di stabilire limiti all'accesso e forme di pagamaneto digitale. Non significherebbe forse questo, almeno per l'industria culturale digitale, che, senza volere, si trova già in parte oltre la forma del denaro e della merce? Questo non andrebbe considerato apertamente come un enorme potenziale di emancipazione, come la nascita di un comunismo del gratuito che va oltre i "beni pagati"?
Non è che il capitolo sull'industria culturale non avesse previsto niente di tutto questo che sta accadendo solo perché nel 1944 Internet non c'era ancora. Di fatto, molte merci dell'industria culturale, come ad esempio riviste, dischi, dovevano essere comprati allora come lo sono oggi, nella buona maniera tradizionale; ed anche il cinema è un servizio culturale che viene offerto per essere comprato, proprio come un biglietto per le montagne russe o per l'ingresso in un cabaret. Ma la radio e la televisione già non potevano rientrare come merci isolate nella valorizzazione e nel campo di realizzo del mercato. Se a tale scopo finora continua ad esserci un'esazione di tasse da parte dello Stato, allora vuol dire che non si tratta di una metamorfosi rispetto alla produzione capitalista di merci, ma si tratta comunque di una determinazione che deriva da quella forma. Lo Stato sovvenziona tali settori socializzati dell'industria culturale in quanto "pubblici", così come fa con altre infrastrutture, e recupera una parte di questi costi sotto forma di imposte. Il carattere di merce di tutta l'organizzazione non è quindi minimamente smentita, anche se i programmi vengono ottenuti a prezzi stracciati o quasi gratis. Questo vale a maggior ragione per le emissioni private nate sulla scia dell'era neoliberista, finanziate esclusivamente dalla pubblicità.
Adorno ed Horkheimer non sono particolarmente interessati ad un'analisi politico-economica del contesto formale dell'industria culturale con le sue metamorfosi del processo sociale di valorizzazione, però riflettono sul carattere quasi gratuito di radio e televisione, ma lo fanno sul piano dei simboli culturali e psicosociali: "“Già oggi le opere d'arte vengono opportunamente arrangiate - come se si trattasse di parole d'ordine politiche - dall'industria culturale, che le infligge a prezzi ribassati a un pubblico recalcitrante e rende il loro uso accessibile al popolo come quello dei parchi delle ville patrizie. Ma la dissoluzione del loro genuino carattere di merce non significa già che esse siano custodite e salvate nella vita di una società libera, ma che è caduta anche l'ultima barriera che si opponeva alla loro riduzione e degradazione a beni culturali”.
Questo implica che il consumo reso più o meno gratuito di una parte crescente della produzione dell'industria culturale non significa in alcun modo che sia stata "superata" con una manovra di sorpasso tutta la società del sistema produttore di merci, ma questo consumo continua ad essere parte integrante di tale società. Proprio come i mezzi di propaganda politica che sono inerenti alla forma merce, anche se sono diffusi gratuitamente fra la popolazione, la stessa cosa vale anche per il consumo mediatico di prodotti culturali. Non sfuggono alla forma del denaro, proprio come non vi sfuggono i "beni pagati", solo che la mediazione con l'insieme del sistema è diversa; ossia, il finanziamento si basa su un'esazione statale di rendimenti capitalisti, nel sistema del credito in connessione con la pubblicità, il cui supporto privilegiato all'industria culturale è altresì ovvio. Nella misura in cui le preferenze degli acquirenti vengono testate (per esempio, in Facebook) ed offrono l'opportunità per ulteriori nuovi annunci pubblicitari, gli utenti collaborano involontariamente, in maniera presumibilmente gratuita, al finanziamento. In questo senso, per i consumatori, si può parlare di "dissoluzione del carattere autentico della merce" di questi prodotti solo sul piano dell'apparenza immediata o della particolarità, in quanto i prodotti rimangono merci sulla base del loro carattere sociale, merci il cui contesto formale viene smantellato solamente nelle istanze di mediazione.
Questo carattere si ripercuote, non solo nel contenuto ma anche sull'aspetto sociale e psicologico, tanto più strettamente legato agli individui consumatori quanto più non si tratta per loro di un atto immediatamente economico come quello dell'acquisto, allo stesso modo in cui Adorno ed Horkheimer osservavano, criticamente, a proposito della pseudo-emancipazione dovuta alla massificazione dei prezzi a buon mercato, o addirittura gratis: " “La soppressione del privilegio culturale che si realizza in tal modo, mediante liquidazione e svendita delle opere, anziché introdurre le masse ai domini che erano loro un tempo accuratamente preclusi, serve solo, nelle condizioni della società esistente, ad accelerare lo sfacelo della cultura e a promuovere l'avvento della mancanza barbarica di ogni rapporto”. In questo modo, Adorno ed Horkheimer dicono involontariamente che il "privilegio della cultura" borghese era solo un'illusione in cui era già insita, come vero e proprio impulso, la tendenza alla "vendita in liquidazione", alla "decadenza" e alla "mancanza barbarica", che diventa manifesto soltanto nell'industria culturale. Quella cultura borghese che continuava a costare ancora qualcosa non era altro che il lusso di un'autoriflessione affermativa salda più di una roccia, di quelle di cui c'era bisogno ai tempi della costituzione capitalista, ma di cui si sono persi quei momenti esagerati nell'identica misura in cui si è immersa nel quotidiano delle masse, come deformazione dell'industria culturale.
Anche qui, ancora una volta bisogna tener conto della logica economica che in Adorno ed Horkheimer rimane più come sfondo, senza essere esplicitamente designata. L'industrializzazione dell'educazione e della cultura rimane sottomessa alla stessa legge della concorrenza degli altri settori del capitale. Sotto quest'aspetto, tuttavia, il determinante è l'imperativo economico, e non quello tecnologico. La lotta per la quota di mercato (anche in un'area secondaria, come quella della pubblicità in quanto settore economico proprio, per il quale il prodotto dell'industria culturale costituisce il piano di appoggio) esige un abbassamento dei prezzi che si può basare solo sulla riduzione dei costi di produzione. Ma se i costi di produzione culturale vengono abbassati in maniera complessiva, la qualità ne soffre ancora di più di quanto avvenga nelle industrie di produzione materiale. Il prodotto allora è sempre "una schifezza", e anche peggio. Dato che che è possibile "razionalizzare" la produzione intellettuale o artistica come si razionalizza la produzione di parafanghi o di alberi motore, al costo del completo svuotamento del loro contenuto. Con l'incorporazione diretta nel sistema del "lavoro astratto" tale produzione perde il suo proprio valore d'uso, come già Adorno ed Horkheimer avevano reso evidente nel caso del rovesciamento, o perfino dell'indistinguibilità, fra contenuto redazionale e pubblicità. E', per esempio, quello che si vede nei giornali pubblicitari gratuiti i cui contenuti redazionali, nella misura in cui sono strettamente incrociati e perfino apertamente mescolati con la pubblicità, mostrano in maniera particolarmente grossolana la "decadenza" della riflessione come espressione culturale e la "mancanza barbara" della cultura capitalista trasmessa gratuitamente.
Internet ha questa natura di una produzione capitalista di contenuti e di cultura che viene pagata monetariamente solo in maniera indiretta, e che proprio per questo perde il suo "valore d'uso", trasformata in un'organizzazione di massa individualizzata. Qui, non si tratta affatto di una liberazione emancipatoria della "creatività", bensì di una sorta di "privatizzazione" neoliberista della produzione di massa standardizzata dell'industria culturale su una scala mai vista. Essere ciascuno la propria industria culturale non deve più essere inteso solamente come una metafora ironica o come una definizione cultural-simbolica, ma dev'essere preso alla lettera insieme a tutte le sue implicazioni. La forma tecnologica che corrisponde all'equipaggiamento del soggetto postmoderno provoca un flusso di esibizioni completamente squalificate che non possono più essere valutate né rifiutate da una qualche istanza redazionale.
Pertanto ciascuno è il suo proprio mezzo, la sua propria rivista, il suo proprio cinema e programma televisivo. Contrariamente alla produzione professionale, qui di fatto non è più necessaria alcuna "razionalizzazione" per abbassare l'oggetto per mezzo della preformazione capitalista fino a renderlo idoneo ad essere gratuito. Le abborracciate creazioni di ogni sorta sono in ogni caso determinate dalla situazione dei loro autori, che non riescono a coinvolgersi con niente e che sono mossi dalla pressione della concorrenza, dalla pressione di un servizio in astratto e da un controllo della quantità di tempo, situazione che esclude qualsiasi concentrazione sui contenuti. Su questo sfondo, chi si "connette" "interattivamente" con strumenti grazie ai quali il gioco non ha alcun costo, né può né vuole averlo, né costi materiali né costi di sforzo intellettuale, allora non c'è alcun bisogno di abbassare i costi. Quello che è stato il risultato della catena di montaggio economica di una vera e propria industria culturale, nel caso delle auto-esibizioni individuali è già un presupposto, e cioè l'indifferenza, la caducità e l'inutilità dell'oggetto. Ciascuno è il suo proprio giornale pubblicitario gratuito.
Il disprezzo per ogni criterio e lo scherno verso ogni contenuto portano la cultura borghese ad essere pienamente riconoscibile proprio dove essa diventa apparentemente "gratis". Nell'anticamera di questa situazione, già Adorno ed Horkheimer interpretarono questo "progresso" come una svalutazione del valore in denaro attuata attraverso una svalorizzazione cinica di ogni contenuto, e non come un'emancipazione dalla forma merce: “Chi, nel secolo scorso, e ancora all'inizio del nostro, spendeva qualcosa per assistere a un dramma o per ascoltare un concerto, era indotto a tributare allo spettacolo almeno altrettanto rispetto di quello che attribuiva al denaro versato”. Nella cultura del gratis di Internet ormai niente e nessuno viene più rispettato. Non si può nemmeno più parlare di rispetto di sé stesso. Chi nel bel mezzo del capitalismo esalta il completo disvalore delle proprie produzioni intellettuali ed artistiche, con questo ammette anche la nullità del loro contenuto. In quanto un puro nulla può produrre solo un puro nulla.
Quando ci si trova nella situazione in cui non solo si è supportati dalla pubblicità, ma si è anche la stessa cosa da pubblicizzare è ovvio che il finanziamento secondario rimanga dentro dei limiti abbastanza ristretti. In quanto proprio giornale pubblicitario gratuito non si guadagna un centesimo da terzi, poiché non si ha altro contenuto, il quale non esiste e dal quale non proviene niente. Così i soggetti del gratuito su Internet sorvegliano reciprocamente il proprio rispettivo disvalore. Soggettività svalorizzata ma non superata - Adorno ed Horkheimer in un certo qual modo hanno previsto anche questo status di un culturalismo deculturalizzato: “L'arte ha ancora contribuito a tenere il borghese entro certi limiti finché è stata cara. Ora tutto ciò è finito. La sua assoluta prossimità, che non è più mediata dal denaro, a quelli che sono esposti alla sua azione, porta a termine l'estraniazione e assimila l'una all'altra (vicinanza ed estraniazione) nel segno della reificazione più totale. Nell'industria culturale viene meno, insieme alla critica, anche il rispetto… Non c’è più nulla di caro per i consumatori, anche se essi, di fronte a questo stato di cose, non possono fare a meno di sospettare che tanto meno si regali loro qualcosa quanto meno essa viene a costare”.
Un vero regalo avrebbe delle spese di costo e perciò sarebbe qualcosa in sé. Renderlo gratuito non solo per il particolare caso personale, ma liberarlo fondamentalmente dalla sua forma feticista del valore, funzionerebbe tuttavia solamente per l'insieme della società, e per tutti i beni, e non avrebbe niente a che vedere con il carattere individuale di un dono ma, al contrario, sarebbe anche una maniera differente di riproduzione sociale. La cultura pseudo-gratis di Internet non è ne l'uno né l'altro. Il soggetto postmoderno dell'auto-messinscena, armato con la tecnologia della "comunicazione", ma socialmente e per quel che riguarda i contenuti generalmente vuoto o indifferente, produce soltanto cripto-merci in gran parte senza spese, proprio perché non gli viene pagata nessuna spesa, e nel capitalismo non ci possono essere spese non pagate.
E proprio perché non esiste alcun modus rivoluzionato di utilizzo delle risorse a livello di tutta la società - che se esistesse sarebbe valido anche per la produzione culturale - che i protagonisti del gratis virtuale, con il loro scambio di pacchetti vuoti, si illudono a proposito di un'economia del dono. Nella misura in cui di fatto sono esistite, nelle formazioni premoderne, strutture sociali di reciprocità, tradotte come "del dono" - strutture che qui vengono solo grossolanamente ideologizzate - esse sono state in ogni caso espressione di una mobilitazione reale di risorse e non avevano niente a che vedere con delle cose apparenti. Il fatto per cui un contenuto intellettuale o culturale possa essere divulgato "senza costi", attraverso un clic del mouse, non significa in alcun modo anche che esso venga prodotto senza l'utilizzo di risorse intellettuali e materiali; così fosse, non si andrebbe oltre un contenuto nullo.
Gli economisti del dono interattivo scambiano fra di loro un puro niente che corrisponde al loro status sociale ed intellettuale, e in realtà lo sanno o quanto meno lo intuiscono, come è già stato constatato da Horkheimer ed Adorno. Quello che accade ai consumatori-produttori digitali non è diverso da quello che accadeva ai precedenti semplici consumatori, il cui comportamento viene così descritto nel capitolo sull'industria culturale: “La duplice diffidenza verso la cultura tradizionale come ideologia si mescola con quella verso la cultura industrializzata come truffa consapevole. Ridotte a semplice omaggio, regalato in soprappiù, le opere d'arte pervertite e degenerate vengono segretamente respinte dai consumatori insieme alle porcherie a cui il mezzo le assimila. Essi possono felicitarsi per il fatto che ci siano tante cose da vedere e da ascoltare”. Essi partecipano all'esternalizzazione indifferenziata di massa, senza alcun costo, indifferente e reciproca, nella quale nessuno prende sul serio né sé stesso né gli altri. Per questo chi ha avuto la sfortuna di attivare costi reali ed esprimere un contenuto effettivo dev'essere livellato senza pietà allo stesso niente mediatico che viene guardato con invidia dai suoi titolari. Qualsiasi sforzo ai fini del contenuto viene "corrotto" ed i risultati vengono resi somiglianti a "cianfrusaglie" a buon mercato, e proprio per questo che i "partecipanti" sanno segretamente che si stanno imbrogliando reciprocamente e per questo ritengono che tutto sia sempre un inganno.
Ma va messo in chiaro che Adorno ed Horkheimer, anche nella critica radicale del cultura del falso gratis, continuano a tenere in mente, come immagine idealizzata ugualmente falsa, i vecchi eroi della cultura piena e superiormente borghese che vendevano ancora realmente contenuti autentici e, simultaneamente, si potevano concedere il lusso di disprezzare questa relazione. Così viene detto, nel capitolo sull'industria culturale, poche pagine dopo: “Beethoven mortalmente ammalato, che getta via un romanzo di Walter Scott esclamando: ‘Questo furfante scrive per denaro’, e nello stesso tempo, ancora nello sfruttamento degli ultimi quartetti, che rappresentano il non plus ultra del rifiuto di ogni concessione al mercato, si rivela un uomo d'affari quanto mai esperto e ostinato, offre l'esempio più eloquente e più grandioso di questa unità degli opposti (mercato e autonomia) nell'arte borghese. Vittime dell'ideologia sono proprio quelli che occultano la contraddizione invece di assumerla, come Beethoven, nella coscienza della propria produzione...”.
Non si può non riconoscere - e questo testimonia che entrambi gli autori mantengono il carattere sociale della vecchia borghesia culturale - che essi pensano che sia esistita la “unità degli opposti (mercato e autonomia) nell'arte borghese” i cui "esempi più grandiosi" potrebbero essere portati proprio nella capacità di rivelarsi “uomo d'affari quanto mai esperto e ostinato”. Se nelle condizioni capitalistiche di riproduzione non si può rinunciare al pagamento monetario delle spese, nella misura in cui queste spese secondo la riserva di tempo e secondo le risorse materiali vanno al di là di una semplice relazione di hobby ed arrivano alla produzione di contenuti, tanto meno si può far viceversa passare l'astuzia dell'uomo d'affari e la bravura della valorizzazione come l'altra faccia della "autonomia" artistica e teorica. Quest'ultima deve stare sempre sul piede di guerra contro la prima; qualsiasi abilità per gli affari è essa stessa una divoratrice di quel tempo e di quelle risorse e costituisce pertanto inevitabilmente una deviazione rispetto alla concentrazione sulla cosa in sé. Una simile qualifica non si riferisce al contenuto che vede come, malgrado tutto, "il peggior rifiuto del mercato", bensì ad un'eteronomia che dev'essere inerente a qualsiasi valorizzazione, anche a quella dei quartetti d'archi.
La nostalgia ideologica di Adorno ed Horkheimer attiene ai resti della ragione illuminista borghese nella quale mercato ed autonomia sono identici, nell'arte e non solo. La critica e la storicizzazione negativa di questa ragione capitalista non vengono portate fino in fondo nella Dialettica dell'Illuminismo, dove gli autori di fatto riconoscono la "opposizione" fra mercato ed autonomia, ma che tuttavia pretendono di fare emergere come "unità" riconciliata, o quanto meno riconciliabile, in un passato idealizzato della borghesia culturale. Nella conservazione esitante della ragione borghese già prima riconosciuta come negativa e distruttiva si compie la quadratura del cerchio; l'apprezzata astuzia negli affari è quella della logica hegeliana nella quale le contraddizioni non portano alla rottura ed all'esplosione, bensì alla falsa riconciliazione positivamente superatrice dell'eterno soggetto della circolazione.
Ma la concezione di Adorno ed Horkheimer, nonostante questo excursus deficitario, formula tuttavia una critica cosciente del problema contro la cultura del gratis delle comunità di "utenti" in gran parte falsa e menzognera, quando fanno notare che a "soccombere all'ideologia" sono proprio quelli che "nascondono la contraddizione, invece di assumerla... nella coscienza della propria produzione". Ovviamente, non si tratta di un'immaginaria unità fra contenuti che si chiudono rispetto alla forma del valore, da un lato, e l'abilità per gli affari monetari della circolazione, dall'altro lato, la cui idealizzazione è proprio ciò che "nasconde la contraddizione", ma si tratta soltanto del fatto che emerge con assoluta chiarezza l'irriconciliabilità della contraddizione e la necessità della rottura storica (al posto del "superamento" positivo) nella "coscienza della propria produzione", la cui forma di merce o di denaro come male necessario in un quadro di condizioni oppressive revoca quell'interpretazione minimizzatrice o addirittura trasfigurante.
- Robert Kurz - Pubblicato su EXIT! n° 9 del marzo 2012 – ( 2 di 3 – continua…) -
fonte: EXIT!
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