L'Industria Culturale nel 21° Secolo (3 di 3)
- Sull'attualità della concezione di Adorno ed Horkheimer -
di Robert Kurz
* Dalla critica apparente della borghesia intellettuale al culto postmoderno della superficialità * Critica culturale elitaria o emancipatrice? * Riduzionismo tecnologico * La pubblicità come percezione culturale del mondo e di sé * Il proseguimento con altri mezzi del "lavoro astratto" e della concorrenza * Internet come nuovo mezzo centrale dell'industria culturale * La virtualizzazione del mondo della vita * Interattività del Web 2.0 ed individualizzazione * Una cultura gratuita a caro prezzo * Il limite interno del capitale e la crisi economica dell'industria culturale * Sulla via dell'esaurimento delle riserve culturali * Il mondo non è un accessorio. Perché è impossibile una "rivoluzione culturale" separata *
* Il limite interno del capitale e la crisi economica dell'industria culturale *
Per quanto attuale sia in questo inizio del 21° secolo, la concezione dell'industria culturale presenta un'importante differenza rispetto al 1944. Allora ci si misurava ancora con la grande prosperità del dopoguerra. In quella transizione, dall'epoca delle guerre mondiali alla breve epoca storica della produzione di massa e del consumo di massa del fordismo, Adorno ed Horkheimer non potevano percepire l'industria culturale in formazione dal punto di vista della crisi oggettiva o da quello del limite interno storico del processo di valorizzazione. L'insieme dell'industria culturale, che si rivelava in maniera nebulosa nelle sue dimensioni, doveva apparire loro come una fatalità. come una forma di controllo totale o di autocontrollo e di sottomissione della coscienza alla macchina del fine in sé capitalista.
Oggi, al contrario, l'industria culturale sviluppata si trova sotto il segno di un limite oggettivo già maturo del capitale mondiale. Internet stessa è del tutto parte integrante di una tecnologia della crisi della terza rivoluzione industriale, i cui potenziali di valorizzazione portano allo svuotamento della sostanza del valore. Anche sotto quest'aspetto, non è la tecnologia in quanto tale ad avere autonomamente effetto sulle relazioni, e sarebbe questa la vera ragione del suo rivoluzionamento. La razionalizzazione, che fa sì che il fuoco del "lavoro astratto" si estingua, segue le medesime leggi; la liberazione della forza lavoro superflua costituisce l'altra faccia della sua sussunzione al capitale. Nel senso che il feticismo sociale "autonomo" è soltanto l'automovimento slegato del "soggetto automatico" da cui nasce la tecnologia di crisi in generale, la quale dà espressione all'autocontraddizione interna del sistema. Il capitalismo non va a sbattere contro un limite tecnologico da esso indipendente, ma contro il suo stesso limite (economico) interno. Nel complesso dell'industria culturale, questo limite generale del capitale emerge in una maniera specifica che si riferisce simultaneamente al meccanismo di crisi e alle sue forme di sviluppo.
La virtualizzazione culturalista del mondo della vita corrisponde alla virtualizzazione economica del capitale. I due momenti non rappresentano nessun nuovo grado di sviluppo del modo di produzione e del modo di vita capitalista, ma piuttosto un processo della sua de-virtualizzazione, e pertanto della sua reale autodistruzione. La desustanzializzazione del capitale attraverso la riduzione sproporzionata della forza lavoro regolare - l'unica a produrre valore - ha creato quella famigerata economia globale delle bolle finanziarie nella quale il capitale è passato dall'accumulazione reale ad un'accumulazione meramente simulativa. Questo rappresenta per così dire il suo proprio avatar economico nel mondo apparente del cielo finanziario separato. Ma lo spazio virtuale di Internet non si limita a rispecchiare in senso simbolico-culturale il capitale fittizio che si trova ormai senza la copertura di una qualsivoglia valorizzazione reale, ma appartiene anch'esso a questo impero economico spirituale.
Internet, in quanto complesso ibrido dell'industria culturale, non produce merci reali, ma solamente virtuali. Non produce neppure un volume apprezzabile di prodotti intellettuali o artistici immateriali, che possano partecipare come forma merce della sostanza sociale del valore, ma si limita a divulgare elettronicamente tali contenuti associati a costi oggettivi, mentre i contenuti che emergono in maniera genuina nella Rete, sia oggettivamente che economicamente per lo più senza valore, non contribuiscono alla massa di sostanza reale del valore, né partecipano ad essa, nella misura in cui restano "gratis" in questo modo falso.
Ora, se la pubblicità è determinante per l'industria culturale, non solo come forma di espressione dell'estetica delle merci, ma anche come base finanziaria dell'economia della Rete, allora questa fattualità chiarisce il modo in cui essa si colloca nella riproduzione capitalista. La pubblicità, come settore secondario capitalisticamente improduttivo, che non apporta alcun contributo alla massa della sostanza sociale reale del valore, in quanto rappresenta, al contrario, una detrazione da tale massa, può solamente espandersi in una dimensione che non ha precedenti nella storia del capitalismo sulla base gonfiata dell'economia delle bolle finanziarie e dell'indebitamento iniziato a partire dagli anni 1980. Solo in un simile contesto poteva nascere il complesso tecnologico-culturale di Internet, fino ad arrivare alla sua attuale ampiezza. I servizi, le possibilità di accesso o di presentazione ed i contenuti gratuiti messi a disposizione possono essere descritti in termini capitalisti come supporto pubblicitario. Quanto più l'industria culturale si disloca nello spazio virtuale, tanto più precaria diventa questa dipendenza.
Simultaneamente, questo spazio richiede anche un possente e ben reale aggregato infrastruturale di consumo energetico, di cablaggio, di batterie di server, ecc., che a sua volta si ripercuote come fattore di costo. In gran parte questi equipaggiamenti tecnologici devono essere finanziati anche a partire dalla pubblicità, o richiedono una parte delle loro entrate. Questo vale anche per le reti promosse o messe a disposizione dallo Stato, i cui ricavi sono anch'essi una detrazione dalla massa sociale di valore; anche questa, come tutte le sue altre funzioni, viene finanziata sempre più a credito. Qualunque sia la mediazione, il complesso dell'industria culturale virtualizzata è essenzialmente una creatura del capitale fittizio e delle sue varie forme, le quali nel loro insieme rappresentano un anticipo sempre più irreale della futura creazione di valore, sempre più rinviata. Il limite interno di tutta l'organizzazione si rende manifesto nella stessa misura in cui collassa il sistema di credito troppo esteso, si rompono le catene di credito, e viene alla luce l'infinanziabilità sociale della cultura del "gratis" virtuale. La completa dislocazone del problema verso il credito statale non cambia niente in tale situazione.
Quindi, quando i presupposti economici nascosti andranno a picco si vedrà che la mentalità del gratis da parte dello "utente" non costituiva in alcun modo un'anticipazione dell'abolizione della forma merce e del denaro. Al contrario, si tratta di una coscienza che da tempo vive soltanto del credito e perfino pensa soltanto in termini di credito. Nello stesso modo in cui una riproduzione non monetaria appare erroneamente come se fosse "senza costi" , perfino dei costi materiali o sociali, in quanto "dematerializzazione" illusoria, così anche la propria esistenza virtualizzata viene vista come gratuita, i cui costi devono ricadere su qualcun altro, soprattutto quando non c'è bisogno di sapere niente a tal proposito. Il postmodernista ecologicamente illuminato è sempre a favore del bene e contro il male, purché abbia corrente elettrica nelle sue prese e gli artisti della vita abbiano di che mangiare ad un livello accettabile di menù, senza porsi seriamente il problema dell'attuazione delle condizioni sociali di un lusso qualitativamente diverso e realmente generalizzato. Il consumo della futura sostanza del valore, la dislocazione altrove dei crediti inesigibili e la scomparsa tecnica del denaro dalla realtà del mondo della vita emergono come una sorta di "mondo senza denaro" che in qualche modo è diventato più conveniente. Non è la rivoluzione contro la "ricchezza astratta", ma ciascuno è ora la sua propria "bad bank". Anche dal punto di vista politico-sociale, al posto dei rivoluzionari, si muovono i cacciatori di occasioni digitali. Meglio non chiedersi come reagirà la coscienza dell'industria culturale al collasso del suo mondo di illusione e di autoillusione.
* Sulla via dell'esaurimento delle riserve culturali *
Le restrizioni e l'impasse economica corrispondono alle restrizioni ed all'impasse culturale. In questo contesto, il tema dell'innovazione nell'industria culturale e nelle sue fonti deve essere accantonato. Anche come settore secondario e perfino improduttivo del capitale, che tuttavia dev'essere economicamente alimentato dalla massa della sostanza sociale del valore, l'industria culturale è altrettanto astratta e di per sé squalificata quanto ai contenuti di quanto lo sia tutta la valorizzazione nel suo insieme. La completa indifferenza riguardo qualsiasi contenuto materiale, dal momento che il suo scopo è il valore astratto, obbliga quindi ad escludere le risorse culturali che non coincidono immediatamente con il fine in sé della "ricchezza astratta"; così come avviene con le risorse naturali, materiali ed umane, le quali anch'esse devono essere reclutate come supporti concreti indifferenti dall'accumulazione astratta.
Nel corso del movimento storico ascendente del capitale verso la determinazione della forma globale e planetaria, sono emerse un'arte genuina ed una cultura borghese che dapprima si sono formate soprattutto in opposizione sul terreno delle relazioni sviluppate solo a metà, in quanto precocemente capitaliste e proto-capitaliste. Similmente alla filosofia illuminista ed alla scienza dello stesso periodo, si trattava di un prodotto capitalista per quel che concerneva la struttura ed il contenuto, ma solamente nei modi di pensare e di rappresentare, come mobilitazione ideologica e anticipazione ideale, e non ancora propriamente come oggetto immediato della valorizzazione; perciò anche come prodotto di lusso per i padroni nelle corti assolutistiche o nei circoli privati, e a tale scopo finanziato. Anche la sfera pubblica borghese, in quanto presupposto per una trasformazione dell'industria culturale, è rimasta in tal misura innanzi tutto un prototipo.
Soltanto in questo "elevato" status intermedio che contraddice la sua stessa logica, anche se solo formalmente, la cultura borghese ha potuto acquisire l'apparenza di contesto di riflessione determinato dai contenuti e dalla capacità di espressione attraverso i suoi celebri "momenti di eccesso", nei quali veniva messo insieme un fondo di vera "oggettività culturale" che era un riflesso dell'oggettività del valore. ma non era ancora tale oggettività, in quanto aveva conquistato solo alcuni dei domini della riproduzione materiale. La coscienza della borghesia culturale sperava di mantenere sempre questo status intermedio e di legarlo all'illusione dell'arte, della scienza, ecc., per così dire "alte", non corrotte dal vile economicismo, sebbene il modo di pensare, le forme di rappresentazione ed i contenuti affermassero già allo stesso tempo quella logica che schernisce la pretesa autonomia dell'arte o della cultura e che ben presto avrebbe dovuto incontrare la sua espressione simbolica definitiva nel "Quadrato Nero" di Malevich.
Ora è evidente che l'industria culturale - appena nascente nel 20° secolo e solamente nei limiti del capitalismo del 21° aumentata fino alla virtualizzazione del mondo della vita - non abbia potuto nutrirsi dei contenuti a partire da sé stessa, ma lo abbia fatto vampirescamente soprattutto a partire da quel passato di una cultura ed un'arte borghese che non erano ancora possedute dalla sua stessa logica. L'avventura della storia dell'imposizione del capitalismo, le cui narrazioni e creazioni non ancora entrate esse stesse nella valorizzazione (dal classicismo e dal romanticismo borghese, pasando per il realismo, fino alla "modernità classica") avevano creato l'apparenza di un contenuto culturale indipendente, ma si erano esaurite nello spazio di pochi decenni. L'industria culturale non è stata in grado di creare più niente di nuovo a partire da sé stessa. La sua creatività è sempre consistita solamente nell'adattare materiale preesistente.
C'è stata però anche una seconda ondata, a partire dalla quale si è potuta dissetare la sete vampiresca dell'industria culturale. Le controculture e le sottoculture e gli ambiti che si ponevano soggettivamente contro il capitalismo e le sue forme di manifestazione e che davano espressione intellettuale ed artistica ad un'esistenza marginalizzata, a forme di vita non conformiste o alla devianza sociale. Queste culture, o quanto meno sottoculture, di protesta sono state il terreno di riferimento di un'invocata contrapposizione "non commerciale" all'industria culturale. Di fatto, però, erano troppo deboli nel loro potenziale sovversivo per poter diventare un'opposizione seria; ed in realtà soprattutto perché la loro critica continuava a non essere una critica della forma, e rimaneva fenomenologicamente limitata e socialmente particolare, senza riuscire a raggiungere un'universalità sociale. Così come la statalità capitalista è sempre riuscita a catturare, adattare, distorcere e trasformare in proprie risorse politiche le tendenze "politiche" emancipatrici a breve raggio (dal vecchio movimento operaio fino alla "nuova" sinistra del 1968), anche le culture e le sottoculture "non commerciali" di protesta sono state a breve o a lungo termine trasformate in una risorsa dell'industria culturale.
Ciò che si presentava come sovversione culturale e come controcultura costituiva, in realtà - così come la vecchia cultura borghese in un certo qual modo ancora esterna-, una sorta di riserva naturale per il capitale dell'industria culturale, riserva che veniva periodicamente falciata o potata. Dopo la seconda guerra mondiale, entrambe le risorse persero la loro relativa autonomia; l'alta cultura borghese era semplicemente morta e ormai poteva essere utilizzata solamente come legna da ardere, mentre le sottoculture diventavano sempre più dei vivai capitalisti. Come nella sequenza della rivoluzione tecnologica e della globalizzazione, via via che tutti gli orizzonti si riducevano anche il processo di mutazione dell'industria culturale accelerava, dalle creazioni subcommerciali o protocommerciali alla scomparsa dell'oggetto.
Adorno ed Horkheimer descrivono il vampirismo culturale solo dal punto di vista della decadenza della vecchia cultura borghese alta, e lo fanno anche con delle imprecisioni; ma il problema delle sottoculture, o resta fuori dal loro orizzonte o viene immediatamente sottomesso al concetto di industria culturale. A partire da questo deficit di analisi diviene parzialmente chiaro anche l'errore di giudizio negativo che Adorno dà del jazz, la cui origine e qualità sono state del tutto ignorate. Adorno, in questo passaggio completamente guidato dalle idiosincrasie del "buon gusto" della borghesia culturale classica, non vede il jazz nella sua propria specificità anteriore all'industria culturale, ma solo come prodotto genuino della macchina culturale capitalista. Non si accorge che questa macchina necessita di un materiale ad essa non inerente dal momento che essa riesce solo a distruggere quello che le viene consegnato. Il suo prodotto ha bisogno di materie prime o di semilavorati culturali preesistenti. A metà del 20° secolo queste risorse non erano ancora del tutto esaurite.
Si potrebbe tener conto del fatto che Adorno conoscesse, o considerasse, soltanto il jazz già orientato dall'industria culturale, ad esempio quello delle show bands degli anni 1940. In tal senso, in un certo qual modo, Adorno potrebbe aver ragione, soprattutto per la sua previsione, che tuttavia non può essere riferita specificamente al jazz o alla musica pop. Si tratta di creazioni culturali in generale, quale che sia la specialità o il livello artificiale. Insieme alla terza rivoluzione industriale in quanto tecnologia di crisi universale, e con il processo di crisi globale che ad essa è seguito, anche l'industria culturale ha raggiunto il suo limite storico. Il suo apice, che coincide con la totalizzazione dell'estetica delle merci, coincide anche con l'esaurimento delle sue risorse esterne. In un certo senso, si può parlare di un'analogia con l'esaurimento delle riserve energetiche e con la distruzione delle basi naturali della vita, così come con la crisi delle relazioni fra i sessi. Anche in questo senso il capitalismo distrugge i suoi presupposti. Nella stessa misura in cui l'astrazione del valore segue la propria dinamica interna e completa realmente il programma della sua totalizzazione, dissolve non solo la sua stessa sostanza del lavoro, ma anche i suoi fondamenti naturali, sessuali e culturali, che si trasformano da muti presupposti in contraddizioni assordanti.
Il postmodernismo sottolinea involontariamente il limite culturale quando slega le intenzioni della cultura e della sottocultura di protesta dalle pretese ideologiche del "non commerciale" o dello "anticommerciale" e le disloca direttamente nell'industria culturale, nella misura in cui amerebbe tenere per sé i momenti pretesamente sovversivi e metterli letteralmente in vendita nei supermercati o renderli disponibili per il download in un'Internet sovvenzionata. Il contenuto di realtà di quest'interpretazione consiste nel fatto che, quanto meno per quel che attiene agli effetti sociali, non si tratta più tanto di creazioni relativamente autunome, quanto piuttosto di prodotti che appartengono soltanto all'industria culturale in quanto oggetti di "autovalorizzazione" e che possono essere possibilmente acquistati. La "sovversione", che ovviamente non c'è più, dev'essere trasferita verso il modus del semplicwe consumo di merci (ovviamente anche nel caso in cui si tratti di una merce "gratuita").
Di pari passo con questa ideologia di un consumo "creativo", o perfino "critico", cammina il completo rifiuto ad assumere come focus della critica la forma merce in quanto tale (cosa con cui il postmodernismo nel suo insieme regredisce al marxismo del movimento operaio, anziché trascenderlo). Il problema non consiste più nel fatto che la forma della merce in quanto male necessario si aggrappi anche ai contenuti della sua critica, di modo da potere in generale articolare e riprodurre i suoi presupposti materiali, ma risiede piuttosto nel fatto che il carattere della merce venga accettato o ignorato e che il contenuto sia positivizzato come contenuto di valorizzazione, anche solo in senso simbolico.
Ma se ormai la "creatività" consiste solo nel tipo e nella combinazione di consumo delle merci, allora questo conduce ad una crisi del valore d'uso, dal momento che non non c'è più alcun nuovo rifornimnento di contenuti. Dopo la morte della vecchia alta cultura borghese anche la sottocultura patisce lo stesso destino. Già esistono solamente delle pseudo-sottoculture, esse stesse orientate dall'industria culturale. Anche la più sciocca delle band scolastiche aspira ormai fin da subito al successo commerciale o quanto meno al capitale culturale per "comparire" nelle hit parade, e conferisce più valore alla "rappresentazione" che al contenuto innovatore che gli manca. Questo vale per tutto il settore culturale, astraendo dalle eccezioni. Così come la sostanza del valore viene solo simulata, dal momento che occorre un riciclaggio a partire dalle bolle finanziarie, anche l'industria culturale vive esclusivamente di riciclaggio dei vecchi contenuti che vengono riadattati, fino a soffocare nella banalità dell'eterna minestra riscaldata. Questa situazione somiglia in maniera sempre più esplicita a quella barbarie culturale di cui parla il capitolo sull'Industria Culturale.
* Il mondo non è un accessorio. Perché è impossibile una "rivoluzione culturale" separata *
Se torniamo alla complementarità polare fra pseudo-critica culturale pessimista ed elitaria ed affermazione postmoderna della superficialità, ecco che il cerchio della riflessione critica si chiude. La superficie è il mondo dei fenomeni immediati; culturale è il mondo dell'abito, del design, del guardaroba. Se la borghesia culturale denuncia pubblicamente la superficialità, essa si riferisce solamente all'abito che le salta all'occhio, alle forme di rappresentazione e manifestazione impertinenti od estranee. Il rimanente stock della coscienza culturale elevata - anche se ha un quadro di Kandinsky appeso alla parere - sotto quest'aspetto non è poi così diverso da quello del filisteo piccolo-borghese pieno di soldi e di birra che ama esprimere liberamente la sua avversione alla "arte degenerata", alla "musica negra" ed al movimento pop "americano". Qui non si tratta del carattere di superficialità in sé, ma soltanto di abiti e suoni "errati", in quanto metafore di un design sociale rifiutato. Dietro tutto questo si trova la paura dello straniero, degli emarginati, dei devianti o delle "classi pericolose".
Sebbene il culturalismo postmoderno coltivi e romanticizzi proprio quei fenomeni e quelle forme di espressione aborrite dai vecchi filistei culturali - però solo come accessori senza contenuto, ed arbitrariamente - esso appartiene alla medesima struttura di percezione e costituisce una coscienza di classe media, soltanto posizionata in maniera diversa. Su questo terreno i conflitti sono noiosi e gli interventi fin troppo prevedibili nella loro identità. Forse potrebbe essere chic appendere "avanguardisticamente" al muro, con un colpo di scena, la famigerata testa di cervo che bramisce; allora sì che le gallerie d'arte, da New York fino alla provincia di Berlino, si riempirebbero di un simile oggetto! Com'è noto, il riciclaggio di tutte le forme di espressione svolto dall'industria culturale livella anche la differenza fra arte e kitsch. In fondo era tutto cominciato con le rappresentazioni dadaiste di un princisbecco come oggetto d'arte; quello che allora venne considerata un'irrisione, da molto tempo viene trattato con serietà accademica come un problema della storia dell'arte.
Con questo non si intende negare che l'abituale "espressione" debba trovare una sua forma nella società, nell'universo vitale e nella cultura quotidiana. Ogni formazione storica si esprime artisticamente, anche laddove non esiste una sfera isolata dell'arte; le persone decorano lo spazio vitale e si rappresentano nelle loro vesti ecc.. Queste molteplici forme di espressione a livelli diversi non sono mai solo puramente individuali, ma sono piuttosto determinate dalla rispettiva società, dalle sue contraddizioni e dal suo sviluppo. Tuttavia, relativamente al modo di produzione e di vita capitalista bisogna tener presente che era il vuoto e l'indefferenza nei confronti dei contenuti ad essere inerente a tali meccanismi, così come l'esaurimento ed il deserto culturale che sono stati realizzati dalla sua dinamica specifica e che hanno portato al dominio ed all'autonomizzazione grottesca dell'esteriore. Come la forma astratta della merce si autonomizza nei confronti del contenuto concreto e lo abbassa alla sua mera "forma di manifestazione", lo stesso avviene in maniera analoga con l'inversione, di cui si è parlato prima, fra contenuti culturali ed intellettuali, da una parte, e la loro "forma di rappresentazione" esteriore, dall'altra.
Questo si applica anche alla cosiddetta cultura quotidiana, che si è sviluppata fino a quella che già Marx ha indicato come "religione del quotidiano"; tuttavia ben oltre il carattere ideologico del quale parlava Marx. Ormai non si tratta più di mere "opinioni" e interpretazioni ideologiche del mondo, ma piuttosto di modi di espressione e di auto-interpretazione intesi in maniera esistenziale. Il "puro nulla", nelle relazioni con i suoi simili, deve auto-rappresentarsi avvolto da un mantello e deve curare in maniera permanente il suo abito in senso lato. La così tanto invocata pluralizzazione degli stili di vita è del tutto uniforme per quel che attiene al suo carattere di mezzo per distinguersi, situazione nella quale la pluralità si dissolve di nuovo in un "mainstream", anche quando questo sembra andare in direzioni differenti.
Qui il punto decisivo è che anche gli abiti più semplici, di per sé abbastanza irrilevanti, vengono caricati ed investiti di formalità arbitrarie e di "questioni di gusto" la cui importanza viene esagerata. Il fatto per cui nessuno su questo piano riesca a sottrarsi alle tendenze sociali, se non al prezzo della pura comicità, non ha niente di essenziale. Così da quarant'anni ce ne andiamo in giro con i jeans, e non con la toga; anche se i jeans non sono più gli stessi di prima, in quanto l'usura del materiale ci costringe a perdere tempo per comprarci dei pantaloni. Se i jeans ed i capelli lunghi dei giovani, o la musica rock, sono stati considerati come dei segni di una sorta di protesta giovanile, è ormai da tempo che è stata comprovata la loro innocuità ed il carattere affermativo di tale pseudo-rivolta. Tutto questo è diventato solamente una moda generalizzata per quel che riguarda i pantaloni, cui anche i vecchi hanno dovuto soccombere. E' ovvio che tali fenomeni si ripetano in qualche modo ad ogni generazione che si trovi nella fase della pubertà. La novità consiste nel fatto che assumano una rilevanza sociale generalizzata.
Devo comprarmi dei pantaloni che vanno bene ad un elefante, di modo che nessuno si accorga che ho il culo grosso? Oppure dei pantaloni talmente stretti che mi bloccano la circolazione sanguigna e così tutti potranno vedere che non ho il culo grosso? Simili alternative esistenziali nei tempi postmoderni non sono più solamente un'esclusiva dei giovani al di sotto dei quindici anni, ma rientrano nelle categoria che si avvicina all'idologia politica. Che gli individui sviluppino preferenze riguardo all'abbigliamento, al cibo e alla bevande, al sesso, alla sensibilità del corpo o all'arredamento della casa non costituisce più una questione naturale ed innocente. Se i tatuaggi o il piercing, la dieta vegetariana o vegana ed altre cose di questo tipo diventano una sorta di visione del mondo, per mezzo delle quali le persone si uniscono o si riconoscono in quanto parte di una determinata cerchia, come avveniva con il simbolo del partito, allora questo ne indica il carattere di ideologia in quanto procedimento di sostituzione, con cui si pretende di sostituire il vuoto ideale e sociale.
Tali procedimenti di sostituzione simbolica e di cultura quotidiana acquistano importanza proprio per l'amministrazione di crisi e per le sue ideologie di disciplinamento. Le campagne contro i fumatori che includono misure amministrative ai fini del divieto oppure la denuncia delle abitudini alimentari "malsane" delle classi inferiori non hanno niente a che vedere con la preoccupazione per il benessere. Al contrario, ciò che avviene è che in tal modo si sposta l'attenzione dalle disparità sociali, dalla povertà, dagli abusi sociali e dallo stress da lavoro verso il figurativo, verso la "performance" personale, come se il problema fosse solo quello dei cambiamenti sul piano delle abitudini o degli atteggiamenti culturali quotidiani e non avrebbe niente a che fare con una relazione sociale coercitiva. Una tale ideologia di amministrazione degli esseri umani ha chiaramente come obiettivo le anime affini delle personalità di un'auto-messinscena vuota, le quali pretendono di realizzarsi nel culto della superficialità e che diventano tanto più permeabili ai meccanismi di disciplinamento quanto più questi vengono presentato come offerta di design.
Il culturalismo postmoderno e la sua enfasi sull'apparenza ha un precedente storico dal duplice aspetto. Filosoficamente, si tratta della corrente irrazionalista del pensiero borghese, a partire dalla svolta anti-hegeliana nel 19° secolo, passando per la filosofia vitalista, fino ad arrivare all'esistenzialismo. E' il controprogramma borghese formulato da Nietzsche ed Heidegger contro Marx ed Adorno, dal quale anche la cosiddetta sinistra postmoderna trae i suoi principali riferimenti. In collegamento con questo, troviamo sempre l'atteggiamento o la modalità di percezione nota con il nome di "estetizzazione". L'orrore della guerra e della distruzione, il terrore della normalità, la sofferenza e la miseria divengono "belle immagini", budella e ventri gonfi per la fame o piaghe ulcerate diventano opere d'arte. La "estetica del terrore", definita da Walter Benjamin come fascismo soggettivo, ne costitisce l'antecedente ed è segretamente parte integrante della svolta culturalista postmoderna attuata contro la critica contenutistica, sociale e categoriale del capitalismo.
Anche l'allestimento della "entrata in scena", mostrato da Leni Riefenstahl nell'estetica cinematografica del congresso del partito del Reich, che raffigura parate di massa, appartiene a questo programma. L'individualizzazione postmoderna di questa linea di azione non cambia niente nell'essenza delle cose; ed in qualsiasi momento può sfociare in sorde sommosse collettive, come dimostra il mobbing digitale. L'indifferenza nei confronti del contenuto, nella sua acutizzazione posmoderna dà luogo ad un programma estetizzante ancora più avvolgente di quello dell'inizio del 20° secolo, che non viene nemmeno più percepito come tale in quanto rappresenta un sentimento generale della vita.
Tale estetizzazione militante, che ora ha fatto della forma del design pubblicitario una matrice totalitaria, è un'arma contro la critica radicale molto più efficace dei semplici costrutti del pensiero dell'ideologia. Non è la cosa in sé, bensì lo stile. Al posto dell'analisi critica appaiono trattati del tipo "come diventare poveri con stile". Lo styling non riconosce altro criterio di verità che non sia quello del numero dei "mi piace" sulla Rete. E quello che viene pubblicizzato è ciò che viene apprezzato in quanto "outfit". L'oggettività negativa dev'essere nascosta per mezzo di un "soggettivismo estetico"; al posto della rivoluzione sociale arriva la pseudo-rivoluzione indolore dello "apparire bello" - l'estetizzazione dell'esistenza di tutti e di ciascuno. Viene estetizzata non solo la guerra e le atrocità, ma anche la crisi, la nuova povertà e la catastrofe ambientale. Si tratta, simultaneamente, di un'estetizzazione della verità che corrisponde al paradossale "relativismo assoluto" della postmodernità.
L'ideologia dell'estetizzazione, diventata forma di vita reale, non dev'essere confusa con l'estetica in sé. Il punto non è che ciascun contenuto incontri la sua adeguata forma di espressione o di esposizione, per mezzo della quale possano essere sviluppati dei criteri. Al posto di tutto questo, come si è visto, è la forma estetica che si autonomizza contro il contenuto e lo abbassa alla sua forma di manifestazione accidentale e inessenziale. E' tale rovesciamento, implementato e consumato dalla forma totalitaria della merce nell'arte e nella cultura, a costituire il programma dell'estetizzazione.
Si tratta di un processo storico che dopo la seconda guerra mondiale ha avuto la sua conclusione nell'estetica delle merci e che ora può solo sfociare, in quanto qualità del mercato mondiale della "mancanza barbara", in nuova estetizzazione della politica, essa stessa da tempo già de-realizzata. Ora il terrore è ancora più agghiacciante e lo è in maniera diversa in quanto presenta tutti i tratti dell'assurdità. E' stato proprio il nuovo centro, verde, socialdemocratico e social-ecologico, che non solo ha stretto il laccio emostatico dell'amministrazione sociale della crise ed ha attuato l'Hartz IV, ma simultaneamente ha portato a termine la sua "vendita" democratica come pantomima del design pubblicitario. Non è un caso che siano i quadri e gli autoproclamati "rivoluzionari della cultura" della vecchia nuova sinistra del 1968 a produrre un simile sviluppo. Già allora avevano assunto anticipatamente il postmodernismo di sinistra, e oggi ne mostrano il suo futuro, anche se questo non deve più portare ai ministeri, ma semplicemente a dei mandati per il "partito dei pirati". Questa generazione già invecchiata di figli e nipoti del "nuovo centro" non ha più bisogno di alcun passato radicale di sinistra per il design della sua entrata in scena.
La metamorfosi delle vecchie scenografie che ha ben presto portato i rappresentanti comumali ed i combattenti di strada a maturare in uomini di Stato, dimostra ineluttabilmente che non può esserci alcuna "rivoluzione culturale" autonoma nel senso di un semplice rivoluzionamento di atteggiamenti, di stile, di "modalità del discorso", "modi di pensare" e vita quotidiana, o acconciature, cultura del consumo o anche cibo, ecc.. Se la generazione del 68 cresciuta politicamente si permette una modernizzazione ed una democratizzazione "culturale rivoluzionaria" della Repubblica Federale Tedesca, in quanto ha fallito come generazione rivoluzionaria, in questo modo comprova soltanto che lo pseudo-radicalismo performativo serve soltanto a culture di protesta a buon mercato e superficiali per poter superare la pubertà e serve anche per il "rivoluzionamento" del capitalismo stesso e del suo stile di management. Una bohéme della classe media che si mostra come arte del quotidiano, della sperimentazione sessuale e della ribellione abituale ha sempre svolto questo ruolo. Tuttavia, la "rivoluzione culturale" così limitata della nuova sinistra è stata l'ultima della sua specie anche perché non c'è più niente da rivoluzionare in termini economico-culturali, a causa della mancanza di sostanza reale del valore, ed il treno della sinistra pop e postmoderna è da tempo che è uscito dai binari.
In futuro, si potrà avere una "rivoluzione culturale" solo se essa sarà al tempo stesso espressione di un movimento sociale rivoluzionario che abbia un effettivo potere di intervento, e non una performance meramente simbolica. Un simile movimento attualmente non esiste e pertanto non può essere sviluppata neanche una qualsiasi estetica della critica, ma soltanto una critica dell'estetica dominante in quanto critica dell'industria culturale. Non si può indossare un abito senza che ci sia un corpo per poterlo fare. Il culto postmoderno della superficialità, nel suo atteggiamento di critica apparente cui non credono nemmeno gli stessi protagonisti, è altrettanto senza sostanza della valorizzazione virtualizzata del capitale della postmodernità. La condizione perché avvenga una nuova integrazione del movimento sociale con il movimento culturale rivoluzionario, è che penetri nella coscienza di massa una nuova critica radicale del contesto della forma feticista, cosa di cui la sinistra postmoderna non vuole sapere assolutamente niente.
Quello che attualmente il culturalismo ideologico persegue ancora al servizio del capitale è unicamente ed esclusivamente l'indebolimento interno della stessa critica categoriale. In quanto questa critica ora corre il rischio di trasformarsi in un oggetto puramente estetico proprio a causa della ricezione parziale ed apparente della critica del "lavoro", del valore e della dissociazione sessuale, ossia, rischia di trasformarsi in un accessorio effimero di auto-messinscena che viene presentato senza alcun tipo di impegno. Con la totalizzazione del design pubblicitario cammina di pari passo la sussunzione in generale di tutti i contenuti nella corrente cieca dello spirito del tempo o nella moda.
Non si tratta solo di abiti alla moda, ma anche di delitti alla moda, di malattie alla moda e di ideologie alla moda, perfino di indecenze alla moda. E' proprio la sinistra postmoderna a diffondere dappertutto i suoi motti banali per mezzo del suo pensiero da piccolo paesino di provincia. Per questo le personalità sociali postmoderne sono per principio persone inaffidabili; non ci possiamo aspettare da loro alcuna posizione salda e vincolante, nemmeno in relazione alla critica categoriale, anche quando suppongono di essersene appropriati.
Come il vecchio patriarca verde del 1968, Joschka Fischer, espande periodicamente il perimetro della suo corpo, per poi tornare a restringerlo, come una fisarmonica, trasformandosi da panciuto in maratoneta e viceversa, così anche gli strateghi individualizzati del look trasformano periodicamente il loro comportamento, i loro atteggiamenti e le loro convinzioni, senza alcuna coerenza interna. Si sa già che qualsiasi contenuto cui si mette mano dovrà ben presto essere nuovamente rimosso. Interi periodi della vita appassiscono in un'estate, o possibilmente in una sera soltanto; tutte le relazioni si dissolvono quasi già prima di cominciare. Vale la massima di Berlusconi, il quale ha detto che: "Sono stato spesso sincero". Dato che il puro nulla non può restare unito al nulla, non impara nulla, neanche la propria madrelingua. Il cittadino del mondo postmoderno non sa bene né il tedesco né l'inglese; non sa bene niente, ma ha già provato tutto, una volta o l'altra.
Come antidoto a questa spiacevole situazione si raccomanda in senso emancipatorio un totale rifiuto dell'estetizzazione e della moda, senza alcun compromesso, cosa che implica una critica radicale del culturalismo postmoderno. Il contenuto dev'essere ristabilito nel suo diritto prioritario. Questo vale sia per la critica superficiale della superficialità, fatta da quello che rimane dello stock della coscienza della borghesia culturale, sia che per il contro-polo postmoderno. Il mondo non è un accessorio; il culto della superficialità dev'essere coperto di disprezzo e di maledizioni. L'industria culturale non può essere abolita per mezzo di un'iper-affermazione postmoderna di sinistra, ma solamente attraverso la svalorizzazione militante in ogni senso del mero design. Nelle pubblicazioni della critica radicale a volte va incoraggiata la pubblicazione di testi pesanti e, nel look, la semplicità cosciente.
Non possiamo concludere la discussione del capitolo sull'Industria Culturale della "Dialettica dell'illuminismo" senza qualche rottura, ma la ricezione critica della concezione lì sviluppata rimane indispensabile. Il postmodernismo, che ha ritenuto di essere al di là di tutto questo, non ha più niente da dire al mondo della crisi del 21° secolo. Rimane la speranza che sia pronta a sollevarsi una generazione che dica, in tutta simpatia, agli ideologhi pop appassionati delle loro proprie carriere giovanili che adesso sono loro stessi ad essere i vecchi insopportabilmente noiosi di ieri, e che è arrivato il momento di interrompere le trasmissioni.
- Robert Kurz - Pubblicato su EXIT! n° 9 del marzo 2012 – (3 di 3 – Fine) -
fonte: EXIT!
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