domenica 13 dicembre 2015

L'orgoglio dei produttori e la "dignità" del lavoro


La sostanza del capitale (6 di 10)- Il lavoro astratto come metafisica reale sociale ed il limite interno assoluto della valorizzazione - di Robert Kurz
Prima parte: La qualità storico-sociale negativa dell'astrazione "lavoro".
*** L'Assoluto [Absolutheit] e la relatività nella Storia. Per la critica della riduzione fenomenologica della teoria sociale *** Il concetto filosofico di sostanza e la metafisica reale capitalista *** Il concetto negativo di sostanza del lavoro astratto nella critica dell'economia politica di Marx *** Il concetto positivo di lavoro astratto nell'ontologia del lavoro marxista *** Per la critica del concetto di lavoro in Moishe Postone *** Il lavoro astratto ed il valore come a priori sociale *** Che cosa è astratto e che cosa è reale nel lavoro astratto *** Il tempo storico concreto del capitalismo ***

*** Il lavoro astratto ed il valore come a priori sociale ***Quello che comincia a manifestarsi nel dibattito critico del valore circa l'astrazione lavoro, che viene tematizzato anche da Postone, è il problema dell'a priori reale nella costituzione sociale. Per meglio dire: il lavoro astratto è un concetto della produzione o solamente della circolazione, è il punto di partenza o solo un punto di passaggio? Qui bisogna tornare in maniera più dettagliata su questo problema - già precedentemente affrontato - della riduzione alla circolazione del concetto di lavoro astratto nel marxismo tradizionale, al fine di analizzarne le implicazioni. In fondo è strano che questo problema non si sia presentato nel marxismo del movimento operaio classico, cosa che può essere attribuita essenzialmente alla sua funzione di ideologia della modernizzazione. Il lavoro astratto si converte così, da un lato, in una definizione positivista ed irriflessa (nel socialismo reale, positivizzata ad "uso domestico", come ha fatto Günter Mittag). Dall'altro lato, viene trattato implicitamente come concetto della circolazione, il che, come sottolineato, diventa esplicito nei teorici occidentali che come Sohn-Rethel riflettono sul concetto di lavoro astratto in quanto "astrazione dello scambio" solo al di là della sfera di produzione. Lo stesso evidentemente avviene anche in Dieter Wolf: "Soltanto nello scambio i vari lavori sono relazionati gli uni con gli altri come lavoro umano astratto, di modo che questo diventi lavoro nella forma storicamente specifica" (Dieter Wolf, La contraddizione dialettica nel capitale, p.79).
Ovviamente, ciò corrisponde completamente alla suddivisione del processo di riproduzione capitalista. Da un lato, in una sfera ontologica-trans-storica del lavoro concreto e del processo di produzione materiale e, dall'altro lato, in una sfera specificamente di scambio capitalistico, o di mercato, di regolamentazione "anarchica" del mercato, dove peraltro si pretende di "liberare" la sfera ontologizzata della produzione dalla sfera specificamente capitalista della circolazione ("liberazione del lavoro"). Paradossalmente, "il lavoro" come "lavoro nella sua forma storicamente specifica", "si converte" così nel lavoro stesso, e perciò anche in tutto quello che non è dispendio effettivo di forza lavoro nel processo di produzione reale, ma che è solamente sociale, in quanto processo di scambio o atto di mercato al di fuori dal lavoro; quando addirittura non si tratta nemmeno di lavoro attivo, ma soltanto del suo riflesso feticista nei prodotti in quanto merce.
Postone ha rotto questo modello sottraendo esplicitamente il lavoro astratto alla sua mera determinazione nella circolazione, ed ha in tal modo de-ontologizzato la riproduzione capitalista nel suo complesso. Come si può facilmente capire, un simile principio non avrebbe potuto nascere soltanto dal contesto di uno sforzo di analisi critica della storia della teoria marxista, ma doveva avere come campo di riferimento il contesto del dibattito socio-ecologico degli anni 80. A quel tempo, la distruzione dei presupposti naturali della vita da parte della "esternalizzazione dei costi" dell'economia imprenditoriale si trovava in primo piano nel dibattito, ed erano in voga parole d'ordine quali "Lavorare in un altro modo, vivere in un altro modo". Questo dibattito rimaneva ancora totalmente irriflesso rispetto alla determinazione della forma sociale da parte del lavoro astratto e della logica del valore; Postone è stato il primo a voler far valere questa discussione dentro un ulteriore sviluppo della teoria di Marx, trasformata dalla critica del lavoro e del valore. Questa formulazione del problema è oggi più attuale ed urgente che mai.
Se il marxismo tradizionale ha sempre fatto derivare in maniera ridotta la dimensione sociale del processo reale di produzione capitalista - il carattere di sottomissione sociale alla sfera funzionale dell'economia imprenditoriale - dalla determinazione giuridica della proprietà, intesa soltanto in maniera superficiale e conforme alla volontà soggettiva (i mezzi di produzione non "appartengono" ai produttori), e non dall'essenza della logica stessa della produzione concreto-astratta in quanto processo di valorizzazione - cosa che corrisponde alla sua positivizzazione ed ontologizzazione della sfera di produzione che si pretende sia solo "concreta"; allora il marxismo tradizionale deve, come conseguenza, o nascondere completamente il carattere ecologicamente distruttivo del processo di produzione capitalista (come è avvenuto con alcuni ideologhi del socialismo reale e con la loro apologia dell'economia d'impresa "socialista", ugualmente distruttiva per i presupposti naturali della vita), oppure deve ridurre questo problema alla questione giuridica della proprietà intesa nella sua accezione tradizionale.
L'idea, in fondo ovvia, di sfruttare il concetto marxiano di lavoro astratto, nel senso di una critica socio-ecologica del processo di produzione capitalista anche per quel che attiene alla sua "logica di produzione materiale", è stata in questo modo bloccata. Il marxismo, con la sua tradizionale impostazione nella circolazione (anarchia del mercato), nella distribuzione (lotta per la distribuzione sotto forma di denaro) e, insieme, nella dimensione politico-giuridica intesa in modo superficiale (relazioni di proprietà, interventi dello Stato), doveva perciò trascurare la problematica socio-ecologica che aveva guadagnato attualità in seno alla società, laddove il movimento socio-ecologico, da parte sua, restava senza concetti e concretista, ossia, incapace di una critica della "sostanza del capitale"; cosa che poteva soltanto aggravarsi anziché essere superata dal fatto che i marxisti avevano fallito in materia.
Il punto decisivo consiste nel sapere se l'astrazione lavoro o l'astrazione reale possa essere conseguentemente pensata come logica di produzione, oppure se rimane ridotta alla circolazione. A questo corrisponde la questione della priorità del lavoro astratto. Essa costituisce l'apriori della riproduzione capitalista nel suo insieme, dal momento che così la sua validità viene ormai stabilita nel processo stesso di produzione "concreta"; oppure si tratta solamente di una secondaria "astrazione dello scambio"? Nella maggior parte dei casi, il marxismo tradizionale ammette implicitamente che si tratta della seconda possibilità, dal momento che è stato capace di pensare la forma capitalista di produzione industriale solo in maniera molto superficiale, e la logica di astrazione come forza distruttiva totalitaria non era ancora giunta storicamente a maturazione; e laddove la formulazione è stata esplicitata, come in Sohn-Rethel, non è arrivata ad una posizione definitiva.
Il lavoro astratto come apriori sociale o soltanto come "astrazione dello scambio", e quindi prodotto secondario della circolazione, dal momento che questa alternativa è identica a quella che si interroga sul fatto se il valore delle merci venga "prodotto" nel corso del processo della loro produzione, oppure se "sorga" solamente nella sfera della circolazione. Gli è che il lavoro astratto in quanto sostanza del capitale alla fine non è altra cosa che la "sostanza formatrice del valore", ossia, quello che costituisce il valore. A prima vista, il problema sembra essere sconcertante. Perché è evidente che il valore è prodotto dal lavoro, o no? Non è forse questo il credo solenne del marxismo del movimento operaio, il suo "punto di vista sul lavoro", la sua glorificazione del proletariato "creatore di valore"? L'ironia di tutta la questione sta nel fatto che il marxismo tradizionale si capovolge, mettendosi a testa in giù e con i piedi per aria, rispetto al suo "punto di vista", quando - sebbene affermi come produttiva la "classe creatrice di valore" - riduce allo stesso tempo l'astrazione valore alla sfera della circolazione.
Da un lato si pretende che la produzione sia determinata soltanto dal "lavoro concreto", e quindi dalla produzione di "valore d'uso", mentre si suppone che il processo di astrazione dovrebbe essere svolto secondariamente solo nella sfera della circolazione; dall'altro lato, si parla di un modo assolutamente positivo di "produzione" di valore per mezzo del "lavoro". Pertanto, da un lato abbiamo l'orgoglio dei produttori nel senso di una creazione del valore d'uso supposto come superiore all'irrisorio valore di scambio e che si sarebbe sovrapposto solo esteriormente alla logica del valore capitalista (nel senso della definizione giuridica di proprietà, intesa in maniera riduttiva); dall'altro lato, abbiamo il medesimo orgoglio dei produttori, nel senso della stessa "creazione di valore", dove è la generalità astratta capitalista ad apparire immediatamente come "dignità" del lavoro. E' significativo che il marxismo non abbia svolto una lettura di questa contraddizione flagrante. Muovendosi dentro una tale contraddizione, se così si può dire, questo pensiero riflette la totalità, o unità negativa, del lavoro astratto e concreto, ma lo fa in maniera incosciente e senza una concezione critica di questa totalità.
Tuttavia, il problema è maturato, sia in termini oggettivi, nello sviluppo storico delle forze distruttive del capitalismo, che in termini discorsivi, attraverso la formulazione del principio della critica del valore, che ormai dev'essere formulato esplicitamente anche dalla auto-apologetica del marxismo tradizionale. Così, ad esempio, il politologo berlinese Michael Heinrich, che preconizza una sorta di mistura della teoria del valore fatta da posizioni mezzo marxiste tradizionali e mezzo postmoderne, intitola espressamente il capitolo dedicato alla "oggettività fantasmatica" della forma merce, nella sua recente pubblicazione di introduzione alla critica dell'economia politica, con la domanda: "Teoria della produzione o teoria della circolazione del valore?" (Michael Heinrich, Kritik der politischen Ökonomie. Eine Einführung, Stoccarda 2004, p.51). Ed evidentemente sceglie la teoria della circolazione: "E' quindi solo lo scambio che realizza l'astrazione che si trova alla base del lavoro astratto... Le merci non posseggono oggettività di valore in quanto oggettivizzazione del lavoro concreto, ma in quanto oggettivizzazione del lavoro astratto. Ma se, come abbiamo appena finito di abbozzare, il lavoro astratto è una relazione di validità sociale esistente soltanto nello scambio (lavoro speso a titolo privato viene considerato lavoro astratto, creatore del valore), allora anche l'oggettività del valore delle merci esiste soltanto nello scambio" (Heinrich, ivi, p.48).Pertanto, per Heinrich, in sintonia assoluta col marxismo tradizionale, il lavoro astratto non è una relazione di produzione, ma è solo una relazione secondaria della circolazione, o "relazione di validità" in questo senso che implica che nel capitalismo l'attività produttiva reale e propriamente detta è "solo concreta", e che la "relazione di produzione" in quanto capitalista è determinata unicamente dalla questione della proprietà giuridica stabilita in forma puramente esteriore. A fronte della situazione avanzata del problema, Heinrich, nella sua delimitazione del principio della critica del valore, è orgoglioso di rappresentare un Marx pretesamente "autentico" ed "intero", opposto alla storicizzazione del "doppio Marx" della critica del valore; ma proprio a questo punto è lo stesso Marx autentico a smentire Heinrich.
Per un'argomentazione come quella svolta da Heinrich, il valore o l'oggettività del valore è identico al valore di scambio, cioè, il relazionamento reciproco delle merci dentro la relazione fra "forma relativa del valore" e "forma equivalente", dove quest'ultima "rappresenta" il valore di scambio della prima nella sua forma naturale, fino alla costituzione del denaro come la "forma equivalente generale" (la "merce a parte" che assume tale forma di rappresentazione di tutte le altre merci). Ma se il valore, l'oggettività del valore o la "forma valore", è identico al valore di scambio, in tal caso il valore si costituisce realmente soltanto nella circolazione, come "forma del valore" nel senso della relazione mutua delle merci. In questo caso il valore non "è" altro che questa relazione, e non può esistere una merce unica solitaria - i prodotti al termine del processo di produzione, per esempio quelli nel magazzino della fabbrica, non sarebbero ancora merci nel senso della forma valore, ma sarebbero i primi semplici beni d'uso, che solo attraverso la vendita sul mercato possono alla fine assumere la forma di valore, e insieme ad essa la forma di merce. Heinrich lo dice in maniera esplicita: "L'oggettività del valore non è nemmeno una qualità che una cosa possa possedere isolatamente, di per sé. La sostanza del valore che sta alla base di questa oggettività non arriva ad essere merce a titolo individuale, ma solo in comune e nello scambio" (Heinrich, ivi, p.51).
Ora, questa non è nemmeno per sogno l'argomentazione di Marx. Non è neppure un punto di visto puramente logico o "metodico", visto che in questo caso la determinazione della sostanza "valore" sarebbe identica alla forma di apparenza "valore di scambio", ossia, la sostanza e l'apparenza sarebbero immediatamente coincidenti (cosa che, del resto, è tipica del pensiero postmoderno, che proprio per questo passa sistematicamente miglia lontano dalla problematica della costituzione socio-storica). Marx, al contrario, stabilisce la differenza fra sostanza ed apparenza, nella quale differenza egli vede fondata, innanzi tutto, la necessità della riflessione teorica: "... tutta la scienza sarebbe superflua se la forma di apparenza e la sostanza delle cose fossero immediatamente coincidenti" (Karl Marx. Il Capitale, vol. III). Perciò, Marx torna sempre a far riferimento alla differenza decisiva "fra tutte le forme di apparenza ed il loro sfondo occulto. Le prime si riproducono in maniera immediatamente spontanea, come forme usuali di pensiero, l'altro dev'essere scoperto dalla scienza" (Il Capitale, vol.I).
Com'è perfettamente ovvio, Heinrich, nel far coincidere immediatamente l'essenza e l'apparenza, il valore o l'oggettività del valore al valore di scambio, si accontenta di quello che si "riproduce spontaneamente", delle "forme usuali di pensiero". Resta incollato alla forma di apparenza e perde di vista il suo "sfondo occulto", e così ad un certo punto si rivela pubblicamente come un economista marxista volgare. Marx, al contrario, riflette in maniera perfettamente chiara, per quel che riguarda il lavoro astratto ed il valore, sulla differenza riguardo la forma di apparenza del valore di scambio. Partendo innanzi tutto da quest'ultima, dimostra proprio l'impossibilità di spiegare la forma di apparenza di per sé: "Il valore di scambio appare, perciò, come qualcosa di fortuito e di puramente relativo, un valore di scambio interno, immanente alla merce... ossia, una contraddizione in termini" (Karl Marx, Il Capitale).
Nell'equiparazione delle diverse merci esistenti sul mercato, però, è implicita la loro sostanza comune, cioè, qualcosa di comune che è inerente a tutte e quindi a ciascuna di per sé, e che deve già esistere prima ancora che vengano messe in relazione le une con le altre: "Qual è il significato di quest'equazione? Che cosa esiste, di comune e della stessa dimensione, in due cose differenti... Di modo che, entrambe siano uguali ad una terza, la quale in sé e per sé non è né l'una né l'altra. Ciascuna delle due, nella misura in cui possiede valore di scambio, deve poter essere ridotta a questa terza". Perciò, le merci come oggettività del valore "sono", già prima dello scambio, "gelatine" del "dispendio della forza lavoro umana senza cura per la forma di tale dispendio. Queste cose rappresentano solo il fatto che nella loro produzione è stata spesa forza di lavoro umana, è stato accumulato lavoro umano. In quanto cristalli di questa sostanza sociale che è loro comune, sono valori - valori di merce". Sono pertanto valori, non soltanto in quanto valori di scambio, ma come oggetti e come risultato della produzione, non solo della circolazione. Perciò, il valore ed il valore di scambio non sono immediatamente identici; il valore è determinato dalla sostanza, il valore di scambio dalla sua forma di apparenza: "L'elemento comune che si presenta nella relazione di scambio o nel valore di scambio della merce è quindi il suo valore. La continuazione dell'inchiesta ci porterà di nuovo al valore di scambio, come espressione o forma di apparenza necessaria del valore, il quale però innanzi tutto dev'essere esaminato indipendentemente da questa forma" (Karl Marx, Il Capitale).
Proprio questo, ossia, esaminare per prima cosa la "forma valore" indipendentemente dalla sua "forma di apparenza valore di scambio", è così impossibile per Michael Heinrich, come lo è per tutto il marxismo tradizionale e per tutta l'economia volgare borghese. Tutti loro considerano il valore solo in quanto valore di scambio, soltanto come un fenomeno che si verifica nella mutua relazione delle diverse merci. Marx, al contrario, dice espressamente che una simile considerazione è ridotta e sbagliata: "Se, nell'introduzione al presente capitalo, si è detto in maniera usuale: la merce è valore d'uso e valore di scambio, questo è stato, a rigore, sbagliato. La merce è valore d'uso, o oggetto d'uso e ‘valore’. Essa si presenta come il duplicato che è, quasi che il suo valore possegga una forma di apparenza propria differente dalla forma naturale, la forma del valore di scambio, ed essa non ha mai posseduto questa forma quando viene osservata isolatamente, ma sempre soltanto in relazione al valore rispetto a, o di scambio con, una seconda merce differente. Ma, una volta che si sa questo, il relativo modo di parlare non si porta dietro alcun pregiudizio, ma serve come scorciatoia" (Karl Marx, Il Capitale).
La merce in sé, anche a titolo individuale, "è", pertanto, oggettività d'uso ed oggettività di valore; quest'ultima, però, "appare" ("si presenta") soltanto nella relazione di scambio. Ma, affinché qualcosa possa apparire o possa presentarsi, deve esistere in sé. Perciò, Marx spara di nuovo, rafforzando: "La contraddizione interna sviluppata nella merce, fra valore d'uso e valore, è pertanto rappresentata da una contraddizione esterna, cioè, dalla relazione fra due merci". Ciascuna merce individuale contiene già in sé la contraddizione interna fra valore d'uso e valore, ma questa può essere solo "rappresentata" per mezzo della contraddizione esterna della relazione fra la forma del valore relativa e la forma equivalente, nella relazione di scambio. In Heinrich, al contrario, la contraddizione interna neppure esiste, e rimane solo quella esterna; egli confonde la "rappresentazione" della cosa con la cosa stessa, l'essenza con la forma di apparenza. In questo modo, non sa o non vuole sapere quello che Marx presuppone circa la consapevolezza per cui il "modo di parlare" del valore di scambio "non trascina nessun pregiudizio"; ed è per questo che in Heinrich continua a portare pregiudizio, vale a dire la banalizzazione dell'analisi concettuale di Marx.
Il valore è l'oggettività sociale della merce, anche della merce individuale, della merce prima della - ed indipendentemente dalla - relazione di scambio secondaria, nella quale, sotto le condizioni capitalistiche, il fenomeno del valore di scambio nella forma equivalente generale del denaro è identico alla realizzazione del plusvalore, cioè, al regresso del capitale alla sua forma di denaro quantitativamente accresciuta. Il valore ed il plusvalore, però, sono già determinazioni dell'essenza della merce in quanto oggettività del valore prima di questa "realizzazione" (nella misura in cui la merce è da sempre determinata come forma specifica della ricchezza delle società capitalistiche), realtà che non cambia in niente quando tale realizzazione non avviene - il carattere del valore della merce, in tal caso, si manifesta nel fatto che viene trattata esclusivamente come un rifiuto anziché essere consumata, il che è possibile proprio solamente per il fatto che la sua essenza sociale consiste a priori nell'oggettività del valore, e non nell'oggettività della necessità.
La merce individuale è oggettività del valore, non nel senso quantitativo, contabilizzabile isolatamente, che - come si è preteso di dimostrare prima - è determinato nel medium sociale, ma in senso qualitativo, come cosa individuale sociale, come cosa del valore. Questa non è una determinazione giuridica, politica o relativa a qualche altro dominio esterno (la relazione giuridica, erroneamente interpretata come relazione di volontà soltanto soggettiva, nella comprensione del marxismo tradizionale, può apparire soltanto in maniera ridotta, come esterna), ma la determinazione dell'essenza interna della merce stessa, che arrivi o no ad essere scambiata. Proprio per questo, l'oggettività della merce è il fantasmatico, l'occulto, quel che non è immediatamente visibile nel corpo della merce, come Marx rende subito chiaro all'inizio della sua analisi della forma valore: "L'oggettività del valore delle merci si distingue dalla signora Quickly per il fatto che non si sa dove trovarla. In diretta contrapposizione all'oggettività rozzamente sensibile dei corpi delle merci, nemmeno un atomo di materiale naturale passa nell'oggettività del valore delle merci stesse. Quindi potremo voltare e rivoltare una singola merce quanto vorremo, ma come cosa di valore rimarrà inafferrabile. Tuttavia, ricordiamoci che le merci posseggono oggettività di valore soltanto in quanto esse sono espressioni di una identica unità sociale, di lavoro umano, e che dunque la loro oggettività di valore è puramente sociale, e allora sarà ovvio che quest'ultima può presentarsi soltanto nel rapporto sociale fra merce e merce.”(Karl Marx, Il Capitale).
La merce individuale, nella sua essenza, è qualitativamente una cosa di valore, ma in quanto tale "non è palpabile" in termini sensibili. Riducendo il problema dell'oggettività del valore, a mo' di economia volgare, come "palpabilità" apparente nella "relazione sociale di una merce con un'altra", Heinrich gira intorno al carattere fantasmatico dell'oggettività della merce, rifugiandosi nella plausibilità apparente della sfera della circolazione. E' un fatto che egli avverta che così si apre una breccia nella sua argomentazione, in particolare per quel che riguarda la produzione, e sotto questo aspetto egli tenti di sfuggire all'assunto come fa un paralitico, dopo aver fatto un breve riferimento al fatto che secondo Marx il carattere del valore delle cose "è già rilevante nella loro produzione". Heinrich interpreta questo fatto nel modo seguente: "Il fatto del valore di 'essere rilevante', il fatto che il valore futuro sia desunto dai produttori, tuttavia, è diverso dal dire che il valore già esista". Con questo, però, il valore, l'oggettività del valore, viene stabilito come qualcosa di completamente esterno alla produzione, come il pensiero, meramente soggettivo, di qualcosa di "futuro" che si suppone avvenga soltanto nella sfera della circolazione.
Il Marx "autentico", da parte sua, dice proprio il contrario. Egli divide la sua analisi del processo di produzione in due sotto-capitoli, ossia, il processo di produzione come processo di lavoro e come processo di valorizzazione. Sul passaggio a quest'ultimo, dice: "Infatti, dal momento che qui si tratta di produzione di merci, finora, evidentemente, abbiamo osservato soltanto un lato del processo. Dal momento che la stessa merce è un'unità fra valore d'uso e valore, il suo processo di produzione deve essere l'unità fra i processi di lavoro e la costituzione di valore". Lungi dal situare l'oggettività del valore solo al di là del processo di produzione, nella sua forma di apparenza della sfera della circolazione, Marx intende il processo stesso della produzione come un processo di costituzione del valore. Cosa che è oggetto di riferimento esplicito anche in un altro passaggio: "Tutto questo percorso, la trasformazione del suo (del capitalista) denaro in capitale, avviene e non avviene nella sfera della circolazione. Attraverso la mediazione della circolazione, in quanto dipende dall'acquisto di forza lavoro sul mercato delle merci. Non nella circolazione, dal momento che questa è soltanto un mero preludio al processo di valorizzazione, che si svolge nella sfera della produzione" (Karl Marx, Il Capitale). Nella circolazione, la costituzione del valore procede soltanto nella misura in cui la circolazione svolge un ruolo "mediatore", attraverso l'acquisto di merce forza lavoro sul mercato del lavoro. La relazione tra produzione e circolazione, in ultima analisi ne è attraversata; qualsiasi produzione è preceduta da atti di circolazione e qualsiasi circolazione è preceduta da atti di produzione. La costituzione del valore come tale, però, chiaramente non avviene nella circolazione, bensì nella sfera della produzione. Il processo di produzione è un processo di costituzione di valore, e nel caso del capitalismo lo è in maniera essenziale. Il fatto che la sua "validità" quantitativa si realizzi soltanto nell'ambito di tutto il processo sociale di produzione e di circolazione (realizzazione), non cambia in niente questo fatto.
Con questa definizione di merce individuale già come oggettività del valore, e del processo di produzione come processo di costituzione di valore, non ci troviamo tuttavia davanti ad una cosiddetta "teoria premonetaria del valore" (un concetto coniato da Hans-Georg Backhaus nel dibattito sul contenuto concettuale dell'analisi della forma di valore di Marx), ossia, davanti alla presunzione di una relazione di valore precedente alla relazione del denaro ed indipendente da questa in senso storico. Com'è noto, Marx comincia esplicitamente con il concetto di merce come la forma di ricchezza nelle società capitalistiche moderne - le sue deduzioni sono essenzialmente logiche, e non storiche. Perciò il denaro è sempre già presupposto, non solo come equivalente generale, ma come forma di capitale, come fine in sé processante e come forma di realizzazione del plusvalore. Si tratta di spiegare questo, già presupposto, con dei passaggi deduttivi logici; non di dedurre la genesi storica del denaro a partire da una relazione di valore premonetaria.
E' precisamente questo il presupposto del capitale, ossia, della forma del denaro riaccoppiata a sé stessa in quanto processo di valorizzazione, che fa del processo di produzione già un processo di costituzione di valore; questo non avviene in alcun modo fuori dalla forma di riproduzione capitalista, e quindi dalla forma di denaro già pienamente sviluppata. La merce individuale è già a priori oggettività del valore, solo perché la produzione è innanzitutto un processo di valorizzazione, finalizzato unicamente alla realizzazione del plusvalore incorporato. Così come l'Uomo socializzato nel capitalismo è già sempre a priori un soggetto del denaro; indipendentemente dal fatto che venga pagata con una banconota o con un assegno, la merce prodotta in maniera capitalista è sempre già oggettività del valore. Indipendentemente dal fatto che ad un dato momento sia venduta sul mercato.
Heinrich, pertanto, non può invocare Marx in nessun modo. Però, quello che qui è in gioco non è la lettera di un'ortodossia, ma proprio la cosa in sé. E qui bisogna dar ragione a Marx, a detrimento di Heinrich: il valore viene prodotto, è una relazione di produzione, e non una mera "relazione di validità" nella circolazione (vedremo nella seconda parte di questo studio che quest'aspetto gioca un ruolo decisivo nella determinazione del lavoro astratto come relazione quantitativa, e quindi nella teoria della crisi).
Ma se il valore viene regolarmente prodotto, allora la merce già prima del suo ingresso nel mercato, vale a dire, nella circolazione, è una "oggettività del valore", ossia, una "oggettività fantasmatica", in quanto non "palpabile" come tale nella sua forma sensibile. Tuttavia, per poter comprendere il valore in generale, dobbiamo determinarlo precisamente sotto questa forma fantasmatica, che non è immediatamente palpabile, e non solo nella forma di apparenza del valore di scambio.
Avevo già tematizzato questo problema in un saggio del 1987 (Lavoro astratto e socialismo), su Marxistische Kritik 4, come "I due livelli del concetto della forma del valore", descrivendo il valore di scambio, che appare nella relazione fra due merci, ossia nella relazione fra la forma del valore relativa e la forma equivalente, come "forma di una forma": la forma sociale in sé è la forma del valore nel senso dell'oggettività del valore della merce individuale, il cui valore  è stato "prodotto" nella sfera della produzione. Questa forma essenziale, che non è "palpabile" nella merce individuale, la "forma valore", "appare" sotto la forma secondaria del valore di scambio, ed in questa misura come (apparente) "forma della forma" (della forma essenziale "valore"). Ossia, esattamente in maniera conforme alla presentazione che ne fa Marx, sebbene in Marx il problema non venga esplicitato, nel senso del confronto con in neomarxisti con un tocco postmoderno come Heinrich; forse Marx non era in grado di poter immaginare qualcosa come un economista marxista volgare.
Ora, questa definizione di "forma di una forma" appare oggi del tutto incomprensibile anche ad un marxista tradizionale anticritico del valore come Alexander Gallas: "... 'forma di una forma'?... Queste sciocchezze non sono il prodotto di una svista, ma il sintomo di un problema di peculiarità critica" (Alexander Gallas, Marx als Monist?, 2003). Una simile mancanza di concetti, che per giunta si inalbera ad anticritica, si riferisce al fatto che, tanto per i marxisti tradizionali quanto per i neomarxisti (soprattutto per quelli con un simile arricchimento postmoderno), molto diversamente da Marx, non esiste differenza tra forma di sostanza e forma di apparenza, fra valore e valore di scambio; essi rimangono attaccati alla superficie del concetto circolatorio del valore di scambio, dal momento che non vogliono intendere il concetto di lavoro astratto come apriori del processo di riproduzione, ma soltanto come una secondaria "astrazione dello scambio".
Il lavoro astratto è precisamente un prius, non solo nel senso di essere precedente all'astrazione dello scambio che appare nella circolazione, come momento dello stesso processo di produzione nel senso di un processo reale di costituzione del valore, ossia, non solo come priorità di una determinata sfera particolare, quella della produzione, a fronte di un altra sfera particolare, della circolazione. Al contrario, la determinazione come apriori sociale del lavoro astratto è una determinazione della totalità (qui, totalità designa la riproduzione determinata dalla forma capitalista come un tutto in senso più ristretto, che non è tuttavia identico alla riproduzione totale reale, la quale include anche sempre altri momenti dissociati). Questo significa che il lavoro astratto si estende a tutto il processo di riproduzione capitalista, come forza motrice dell'astrazione del valore. Quello che "appare" nel valore di scambio della sfera della circolazione, è l'oggettività pre-processata del valore delle merci, in cui si manifesta il lavoro astratto, che definisce il processo di produzione stesso. Lavoro astratto ed oggettività del valore non sono altro che diversi stadi di aggregazione dell'unica e stessa astrazione reale, in cui si muovono il processo di riproduzione determinato dalla forma capitalista e la sua storia; di cui il valore di scambio è la forma di apparenza quotidiana, apparentemente senza storia.
- Robert Kurz - pubblicato sulla rivista Exit!, 1/2004(6 di 10 – continua…) -
fonte: EXIT!

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