lunedì 7 dicembre 2015

Mégu, mégun

sciascia

La medicalizzazione della vita
- di Leonardo Sciascia -

Leggendo gli Essais sur l’histoire de la mort en Occident di Philippe Ariès, mi è avvenuto di fare questa ovvia importante considerazione (tanto ovvia che non l’avevo mai fatta; e tanto importante da mettere in moto tutti gli ingranaggi della memoria); che l’esser vissuto – stando alla misura dantesca – per più di metà della vita in un paese siciliano piuttosto chiuso e remoto, mi aveva consentito di vedere un mutamento «des attitudes de l’homne occidental devant la mort» che altrove si è svolto in un arco di tempo addirittura secolare e che, ora dallo storico percepito e analizzato, è corso impercettibile, inavvertito, attraverso più generazioni. Non solo dunque ho il ricordo – di meraviglia, di stupore – del passaggio dal lume a petrolio alla luce elettrica (un senso di inondazione, di inondazione di luce, la prima sera che girando l’interruttore si accesero le lampade nella mia e nelle altre case), dalla carrozza all’automobile, dal grammofono alla radio, dalla neve, che d’estate i carretti portavano dalle «neviere» montane, al ghiaccio fabbricato in paese, dal film muto a quello (helas!) parlato; ho anche il ricordo del passaggio da un’idea della morte all’interdetto sulla morte. Dell’interdetto sulla morte, della interdizione della morte, è parte dominante quella che Ariès chiama «medicalisation de l’idée de la vie». E su questa, ricordando e riflettendo, voglio brevemente intrattenermi.

Negli anni della mia infanzia, nel paese di contadini e zolfatari in cui vivevo, il «chiamare il medico» era in corrispondenza col «chiamare il prete». Il prete si chiamava per far sì che il morituro si mettesse in regola con l’aldilà; il medico perché i familiari restassero in regola coi conoscenti, coi vicini; insomma, con la società. Che non si dicesse, imputando la famiglia di disaffezione e insieme di tirchieria: «non gli hanno nemmeno chiamato il medico». Pertanto, mentre il chiamare il prete era un fatto di sostanziale importanza, perché tra il chiamarlo e il non chiamarlo correva per il morituro la differenza tra un temporaneo soggiorno in purgatorio (di pochissimi ricordo di aver sentito dire che erano aspettati in paradiso) e l’eterno arrostirsi nell’inferno, il chiamare il medico era un atto puramente formale, di convenienza sociale. S’apparteneva, pirandellianamente, alle regole dell’apparire. Coloro che lo chiamavano (sempre troppo tardi) a visitare un ammalato, non credevano che davvero il medico potesse guarirlo (e infatti, a quel punto, non lo guariva): sicché quando il medico, a sua volta per stare alla regola, scriveva una ricetta, l’andare ad acquistare i medicinali era un estremo sacrificare alle apparenze: e se ne aveva sentimento, risentimento, come di capriccio e sopruso da parte del medico (da ciò la valutazione di buono, di bravo, al medico che si limitava a raccomandare cautela di coltri, lavaggi esterni e intestinali, diete; e la fama di asino appiccicata a quello che prescriveva medicine). In molti casi, consumato il sacrificio dell’acquisto, le medicine non venivano somministrate: a timore «spresciassero» (affrettassero) la fine o che comunque servissero soltanto a disgustare col sapore e ad agitare di paura (paura di ogni medicinale che non fosse l’olio di ricino o il chinino) l’ammalato: e inutilmente. Medici e medicine facevano insomma parte di quel decoro cui una famiglia si teneva obbligata a dar prova nella morte di una persona cara; erano elementi di un cerimoniale che preludeva a quello funerario. Di conoscere la diagnosi, nessuno si preoccupava: e peraltro quel che diceva il medico non era più chiaro del latino del prete. E alle cure nessuno credeva. La morte era «muerte y solo muerte», che s’annunciasse da lontano o improvvisamente prendesse.

Quando s’annunciava, quando si sentiva, quando non arrivava «subitanea», e cioè inaspettata, improvvisa, (l’augurare «morte subitanea» era massima espressione di odio), la morte non veniva nascosta a chi ne sarebbe stato preda. L’ammalato veniva informato del suo stato: affinché si preparasse. Quando poi, dal respiro che si faceva rantolo, si avvertiva che stava cominciando l’agonia, c’erano gli estremi saluti e le estreme raccomandazioni tra i familiari e il morente. E le raccomandazioni non andavano soltanto dal morente ai familiari, ma anche dai familiari al morente. Gli raccomandavano di cercar d’incontrare, tra le anime sante del purgatorio, quel tale parente da poco o da tanto morto: e a volte di dargli anche notizie di avvenimenti familiari e messaggi di questo tipo: che continuavano a fargli dire messe; che intercedesse, a conto di quando sarebbero morti, per la salvezza della loro anima… Di ciò io mi ricordo vagamente, come di una usanza in via di sparizione che i miei dicevano sciocca e crudele: poiché già cominciava ad agire l’interdizione, dentro quelle categorie sociali che con invidia e diffidenza i contadini dicevano «alletterate», e cioè letterate: il che si riduceva a volte al saper leggere il giornale o a scrivere una lettera. Ma un mio amico, di un paese vicino al mio (Delia, in provincia di Caltanissetta), di tale usanza ha viva (e ora terribile) memoria; e ricorda anche, non come aneddoto sentito raccontare ma come precisa cronaca, che sul punto di spirare, ai familiari e ai vicini che lo incaricavano di portare notizie e messaggi ai parenti morti, un vecchio trovò fiato e spirito per dire: «scrivetemeli su dei biglietti, ché se no me scordo». E anche questo aneddoto può servire a segnare il tramonto dell’usanza, se attendibilmente lo si può collocare alla fine degli anni venti (1928-29). La reazione «spiritosa» – o che così fu intesa – del morente, dimostra che quella idea della morte cominciava a diventare insopportabile.

Il passaggio dall’idea della morte all’interdetto sulla morte che preminentemente si realizza attraverso la «medicalisation de l’idée de la vie», io l’ho visto dunque svolgersi tra il 1925 e gli anni della seconda guerra mondiale: a livello popolare e in un’area di particolare arretratezza. A livello di borghesia europea, questo trapasso avviene almeno mezzo secolo prima, se teniamo come datazione ad quem il racconto della morte di Ivan Il’ic di Tolstoj. Ivan Il’ic muore, al tempo stesso, come si moriva prima, e come si morirà dopo: e siamo al 1884 (la stesura definitiva del racconto è del 1886). Soggettivamente, Ivan Il’ic vive (propriamente: vive, e nel senso che proprio dal morire ha rivelazione della vita) l’antica morte: indiagnosticata, senza nome. Oggettivamente, la sua è una morte «moderna»: per coloro che lo circondano, per noi lettori di oggi. La sua morte ha un nome, per noi; e forse l’ebbe anche per i familiari, che già «modernamente» glielo nascosero: cancro. Ed avviene, questa sua morte, e si potrebbe anche dire progredisce, con sufficiente, anche se non ancora preminente, «medicalizzazione». I familiari non credono ai medici e alle medicine più di quanto ci creda lo stesso Ivan, ma all’ammalato impongono le visite di tre medici celebri (Ivan Il’ic, nei momenti in cui spera nella medicina, preferisce andare da quelli non celebri di cui ha sentito che hanno guarito qualcuno; e una volta, di nascosto, da un omeopatico) e quelle assidue del medico curante, tanto più assidue quanto più si avvicina la fine. Gli impongono anche di seguirne le prescrizioni, di prendere le medicine. E vigilano, lo colgono nelle infrazioni e gliele rimproverano, con uno zelo che va al di là di quello che il mantenimento delle apparenze richiede. Vediamo così che una nuova, diversa, tremenda ipocrisia – non più quella soltanto voluta dal decoro – comincia ora a circondare la malattia, la morte. I familiari non credono che medici e medicine possano far qualcosa per Ivan Il’ic: ma si comportano intorno a lui – questo è il punto – come se assolutamente ci credessero. possibile, ritengo, avanzare l’idea che i medici e le medicine siano per loro, inconsciamente, strumenti punitivi: verso colui che impudicamente li fa spettatori della propria morte, della morte. «L’idea palese di Praskov’ja Fedorovna sulla malattia di suo marito, espressa agli altri e a lui stesso, era che la colpa fosse tutta di Ivan Il’ic appunto e che quello fosse soltanto un nuovo dispetto che le faceva». Del resto, il luogo in cui Ivan Il’ic vive la propria morte («Da quando s’era ammalato dormiva solo, in una piccola stanza vicino allo studio») già prelude alla morte «fuori di casa», alla morte in ospedale. «Si sentiva con tre porte chiuse in mezzo», il lamento di Ivan Il’ic: «era una cosa insopportabile, non so come io abbia fatto a resistere», dice la moglie. Tre porte chiuse in mezzo, evidentemente non bastavano; ci volevano mura, occorreva una dislocazione istituzionale. Che allora non c’era, che allora era impensabile se non al livello dello squallore economico: e quindi in un venir meno al decoro. E qui debbo dire di avere assistito anche a questo passaggio: da una concezione dell’ospedale in cui il terrore di chi doveva finirvi corrispondeva alla vergogna dei familiari che erano costretti a portarvelo, a una concezione esattamente opposta: dell’andare in ospedale e del portarvi uno della famiglia, come segno di decoro e di mentalità moderna e civile. Non si ammetteva, prima, che si potesse nascere e morire fuori della propria casa; è considerato, oggi, segno di arretratezza e di indigenza il fatto che un parto avvenga in casa o che un ammalato, specialmente se grave, non venga portato in ospedale.
Ma tornando alla morte di Ivan Il’ic: ci sono tante cose, in ordine all’atteggiamento dell’uomo occidentale di fronte alla morte e alla medicalizzazione della vita, che su questo racconto di meno che cento pagine se ne potrebbero scrivere, di riflessione, di analisi, trecento. Ma mi fermerò soltanto su tre punti che mi pare segnino il mutare dell’atteggiamento con più evidenza. Il primo è quello della confessione e comunione del morente: che chiaramente non ha più la funzione di metterlo in regola con l’aldilà, ma è ormai una formalità che fa da diversivo, da pausa, da distrazione dal dolore; che conduce i pensieri dell’agonizzante, invece che alla morte e a Dio, alla vita, alla possibilità di guarire. «Ricominciò per un momento a pensare all’intestino cieco e alla possibilità di guarirlo. Si comunicò con le lacrime agli occhi. Quando lo ridistesero, stava quasi bene. Si mise a pensare alla possibilità dell’operazione che gli avevano proposto». In effetti, quel che a questo punto accade a Ivan Il’ic conferma il suo trovarsi, nel morire, sul crinale tra due epoche, tra due concezioni del mondo. In lui si sta operando una sostituzione, ma confusamente, ma larvaticamente, che nel futuro sarà precisata e perfezionata: il medico, in cui non è riuscito a credere, sostituisce il prete, in cui non crede più. E come se al suo capezzale il prete avesse fatto consegna al medico della vecchia, antica idea della morte; e il medico non potrà che vanificarla, che surrogarla totalmente con l’idea della vita medicalizzata. Il secondo punto è in quella specie di saluto al figlio (che nella sua apparente casualità è come una sopravvivenza del saluto dei familiari al morente nel mondo contadino) che è per il moribondo sollievo e preoccupazione insieme: sollievo, pacificazione, avvento di serenità, in quel che s’appartiene alla sua morte secondo l’antica idea della morte; preoccupazione in quel che s’appartiene alla vita del figlio: che non veda la morte, che cominci a rispettare l’interdizione che sta per cadere sulla morte. E infine quel punto di straordinaria, mirabile, «avveniristica» intuizione che è nel paragone che sorge in Ivan Il’ic tra il giudice – sé stesso giudice – e il medico. «Ogni cosa insomma andò come al tribunale. La faccia che lui faceva all’accusato, la stessa precisa faccia fece a lui il celebre medico… Lo guardò severo traverso le lenti con un occhio solo, come a dire: accusato, se non restate nei termini delle questioni che vi vengono poste, sarò costretto a farvi allontanare dalla sala d’udienza». Imperscrutabile, come il giudice. Come il giudice, non tenuto a render conto di nulla – e soprattutto delle sentenze che emette. E così come il giudice può dar torto o ragione facendo astrazione dal torto e dalla ragione, poiché quel che conta è l’affermazione della legge comunque interpretata, il medico fa astrazione dalla malattia e dalla salute, poiché quel che conta è l’affermazione della medicina, cioè della «medicalisation de l’idée de la vie». Col medico-giudice di Tolstoj siamo quasi al dottor Knock di Jules Romains. Knock ou le triomphe de la medicine. Anno 1923.

Da quell’anno ad oggi, il processo di medicalizzazione della vita si fa a tal punto travolgente che la letteratura non se ne occupa più – o almeno che non se ne occupa più apprezzabilmente, in opere significative e durature. Cinquanta anni dopo, il problema della medicalizzazione viene assunto – contestativamente, polemicamente, come in un grido di allarme, – dalla sociologia. La punta avanzata di tale contestazione ha un nome: Ivan Illich, nato a Vienna nel 1926.
Nelle tre traduzioni italiane del racconto di Tolstoj che ho sotto gli occhi, il nome del protagonista è trascritto in tre modi diversi: Ivan Il’ic, Ivàn Iljíc, Ivàn Ilíc. Si potrebbe, forse, trascrivere più semplicemente Ivan Illich. E siamo in una dimensione da racconto di Borges.

- Leonardo Sciascia - da "Cruciverba", Einaudi, 1983 -

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