Com’è noto, poco prima della morte, Kafka chiese all’amico Max Brod di distruggere tutti i suoi «scarabocchi». Alludeva non solo agli scritti, ma anche a quei disegni che, dando prova di autentico talento, aveva tracciato nel corso degli anni su fogli sparsi, pagine di diario e un intero quaderno. Max Brod non distrusse né gli uni né gli altri – e mai disobbedienza fu più provvidenziale. Rese tuttavia pubblico solo un numero ristretto di disegni: i restanti, la maggior parte, sono rimasti occultati per decenni in una cassetta di sicurezza, prima a Tel Aviv e poi a Zurigo. E solo quando, di recente, sono tornati alla luce, si è svelato pienamente il volto artistico di Kafka. Un volto che ora potremo conoscere grazie a questo libro, in cui è riprodotto – sul supporto originale, e quasi sempre a grandezza naturale – l’intero corpus dei disegni che si sono conservati. Pagina dopo pagina, incontreremo esili silhouette nere di omini curvilinei che ora camminano frettolosi, ora s’inerpicano chissà dove, ora sembrano danzare; figure angolose, dal volto appena accennato, talvolta comico; e ancora: esseri ibridi, spesso rappresentati con pochi tratti magistrali, immagini evanescenti, come in affannoso movimento, enigmatiche apparizioni. Ravviseremo così un artista imparentato con lo scrittore, ma che percorre un’autonoma strada parallela – una strada per Kafka non meno vitale, se a Felice Bauer poteva scrivere: «Una volta ero un grande disegnatore ... a quel tempo, ormai anni fa, quei disegni mi hanno appagato più di qualsiasi altra cosa»
- dal risvolto di copertina di: I disegni di Kafka. A cura di Andreas Kilcher. Traduzione di Ada Vigliani, con una nota di Roberto Calasso. Adelphi, pagg. 367, € 48)
Spettri con Humor negli schizzi di Franz
- Kafka disegnatore. Negli anni universitari, lo scrittore lasciò immagini su fogli, buste, cartoline e a margine degli appunti delle lezioni. Poi, questo corpus grafico viaggiò avventurosamente tra Praga, Israele e Zurigo -
di Giulio Busi
Tra il 1901 e il 1906, negli anni universitari, Franz studia legge, s’annoia, s’entusiasma. E disegna. Dove gli capita, su fogli sparsi, su buste e cartoline, a margine degli appunti delle lezioni. Visita le mostre, si appassiona all’arte giapponese, pensa forse, almeno per un momento, di farsi strada nel gran mondo con china e matite. Se c’è un’opera grafica ai margini è quella di Franz Kafka. Non perché sia minore, anzi, ma perché lì, di sghimbescio, ai bordi dei fogli, le immagini sbocciano più volentieri. Lui le lascia fare, le segue, le fa entrare senza porsi troppe domande.
I disegni di Kafka, splendidamente curato da Andreas Kilcher per Adelphi, è l’atlante di un altro Novecento. Ci mostra come il secolo degli spettri e dei tormenti avrebbe potuto essere e non è stato. Sarebbe diventato così, come lo schizza il giovanissimo praghese, se gli incubi fossero restati sulla carta, metamorfosi di sogni prima che si dileguino, parvenze notturne traboccanti luce. Se Franz avesse continuato a disegnare, e a scrivere, e non si fosse spento quarantenne in un sanatorio della Bassa Austria, forse sarebbe riuscito a imbrigliare tutti i fantasmi deformi, li avrebbe addomesticati, resi visibili, dicibili. Una delle caratteristiche più avvincenti di Kafka, dello scrittore inarrivabile e del disegnatore che scopriamo grazie a questo libro, è la sua fluidità. Immagini capovolte, tremori, sarcastici frammenti di realtà, persone perbene e diavoli per male, tutti si muovono in libertà sulla sua pagina, passano dal visivo all’uditivo, dall’alfabeto alla linea e al contorno, senza soluzione di continuità. Per decenni, i 163 disegni catalogati, riprodotti e commentati nel libro hanno vissuto la vita delle ombre. La maggior parte è rimasta in quattro cassette di sicurezza, sepolte nel caveau di una banca. Non che avessero commesso qualche crimine, anzi. Forse li aveva condannati il troppo amore. Salvati con gran parte del lascito kafkiano grazie all’abnegazione di Max Brod, i disegni erano sfuggiti per un soffio alla distruzione nazista. Da Praga, abbandonata in treno quando già i tedeschi entravano in città, Brod se li era portati nella Terra d’Israele. E qui li aveva donati, quasi tutti, alla propria segretaria, Ilse Ester Hoffe. Trasportati, per sicurezza, di nuovo in Europa, a Zurigo, oggetto di una lunga causa giudiziaria tra le figlie di Ester e lo Stato ebraico, questi geniali tratti grafici sono tornati definitivamente in Israele nel luglio 2019, per essere conservati alla Biblioteca Nazionale di Gerusalemme. Dai margini dei fogli al buio di una banca, e dal caveau di nuovo alla vita, ci rivelano un aspetto ben poco noto, eppure fondamentale del magistero kafkiano.
Sarebbe un grave errore interpretare i disegni come un completamento o peggio un’appendice della narrazione verbale. Frutto di un’essenzialità rigorosa, la linea di Kafka risente della possente astrazione della tradizione giapponese, da cui il giovane studente di giurisprudenza era stato irresistibilmente attratto. Tanto era l’entusiasmo per i modi espressivi orientali, che nel 1902-1903 Kafka aveva addirittura in animo di tenere una conferenza su Il Giappone e noi, poi annullata. Dal “giapponismo” kafkiano escono silhouette flessuose, a un tempo misticheggianti e ironiche. Si parlano tra loro, i personaggi abbozzati in fretta e furia, e ci parlano, con toni ora patetici ora striduli. La normalità accademica è qui fuori posto. Sebbene tenti qualche ritratto, e autoritratto, Franz dà il meglio di sé nel caricaturale e nell’esorbitante. Coppie stralunate s’allargano e rimpiccioliscono con grazia, o disgrazia, anamorfica, s’affrontano platealmente o si scontrano di schiena, ballando una danza a scatti e a sberleffi. Anche nei momenti più cupi della propria scrittura, Kafka mantiene un invidiabile senso dell’humor. E ancora più umoristico, o francamente comico, è il mondo delle sue forme grafiche. Le immagini non sono solo “di traverso” al foglio. Lo sono, di traverso, anche rispetto alla vita. Significano molto più di ciò che raffigurano, proprio come la scrittura kafkiana contiene infinitamente di più di quanto non dica.
Ho sempre pensato a una pagina di Kafka come a una cassetta di caratteri, da cui un tipografo esperto potrebbe trarre tutto il necessario per comporre altri dieci, venti prove per il torchio. Kafka scrive a caratteri mobili, lasciando libero ciascuno di mutare a proprio piacimento l’ordine alfabetico, e così, a linee mobili, disegna. Scrittura e disegno sono immersi nello stesso mistero dell’intercambiabilità, in nome della condensazione dei significati propria della dimensione onirica. Andreas Kilcher guida il lettore, con passione e sapienza, attraverso le brume del disegno/scrittura di Kafka. Kafka, da parte sua, si limita ad aprire una dopo l’altra le cassette di sicurezza zurighesi. Ci mostra un foglio, lo sventola davanti ai nostri occhi, poi lo ripone. Ma se pretendiamo di afferrarlo con le mani, il foglio si svuota, le immagini scompaiono, la carta si dissolve nell’aria.
- Giulio Busi - Pubblicato su La Domenica dell'11/12/2022 -
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