Una prospettiva nuova da cui guardare alla crisi delle democrazie contemporanee.
i tempi della demagogia populista, c’è ancora spazio per un’esperienza democratica dell’agire politico? C’è ancora l’occasione, magari quando manifestiamo il nostro dissenso nelle piazze, di riscoprire quell’emozione del partecipare che Hannah Arendt chiama felicità pubblica? Appellandosi a questa emozione, Adriana Cavarero riflette qui sulla fase nascente di una democrazia esperita collettivamente nell’atto del suo sorgere. La democrazia sorgiva vive della creatività non violenta di un potere diffuso, partecipativo e relazionale, condiviso alla pari, anzi, costituito da una pluralità di attori, uguali proprio perché condividono orizzontalmente questo spazio. Rivisitando alcuni snodi del pensiero politico arendtiano, ma attraversando anche testi di Zola, Canetti, Pasternak e Barthes, il libro non manca di confrontarsi con il tema contemporaneo della ‘democrazia digitale’, del fenomeno dei ‘selfie’ e, più in generale, del populismo.
dal risvolto di copertina di: Adriana Cavarero, "Democrazia Sorgiva". Raffaelo Cortina.)
Adriana Cavarero, democrazia sorgiva
- di Davide D'Alessandro -
Quando arriva in libreria un libro di Adriana Cavarero, devi comprarlo, mettere da parte ciò che stai facendo, sederti comodamente e leggerlo, perché ti aiuta a riflettere e, dopo la riflessione, che non è poco, persino a essere migliore, ad avere pensieri migliori. Non è una seduta psicoanalitica, ma è comunque uno scavo profondo sul tema. Democrazia sorgiva. Note sul pensiero politico di Hannah Arendt, edito da Raffaello Cortina, è uno scavo su una parola, democrazia, che ci accompagna e tradisce, ci fa sperare e allarma. Quale democrazia? Quella così, democrazia e basta, o quella seguita da un aggettivo? La democrazia radicale di Judith Butler o la democrazia anarchica di Jacques Rancière, la democrazia insorgente di Miguel Abensour o la democrazia selvaggia di Claude Lefort, la democrazia democratizzata di Étienne Balibar o la democrazia antagonistica di Chantal Mouffe? O la tanto decantata democrazia diretta?
Calma, sembra dirci Cavarero. È vero che “il bisogno dell’aggettivo sta a segnalare la difficoltà di parlare, oggi come un tempo, di democrazia senza correre il rischio che la parola venga immediatamente a designare una forma di governo, un regime politico, un certo assetto istituzionale, se non uno stile di vita o un’organizzazione sociale. Anche il linguaggio politico ordinario tende del resto ad aggettivare la democrazia, definendola, a seconda dei casi, rappresentativa, liberale, parlamentare, popolare, elettorale, formale, reale o in altri modi ancora”, ma cerchiamo di tornare ad Arendt o di stare su Arendt. Lei “usa raramente il termine ‘democrazia’. […] Ricorre, se mai - in testi minori e con chiaro intento semplificatorio -, all’espressione ‘democrazia partecipativa’, mettendola fra virgolette”.
Anche sul termine ‘politica’, Cavarero apre un distinguo fondamentale. Ciò che la tradizione occidentale, da Platone in poi, chiama ‘politica’, per Arendt è una definizione indebita. Dove si lotta per il potere, dov'è in gioco la questione di chi domina e di chi è dominato, non è politica. La politica, per Arendt, “implica una pluralità di attori, allo stesso tempo uguali e distanti, e nasce fra ‘gli uomini in quanto si muovono nell’ambito che è fra loro’ la politica nasce nell’infra, e si afferma come relazione”. Platone, per Arendt, “ha oscurato la genuina esperienza della polis, radicata nella condizione umana della pluralità, rimpiazzandola con una nozione di politica intesa come tecnica per governare gli uomini e amministrare i loro interessi. Essere liberi nella polis, Arendt non si stanca di ribadire, significava ‘essere liberi dalla disuguaglianza connessa a ogni tipo di dominio e muoversi in una sfera dove non si doveva governare né essere governati’. Ossia significava concepire la politica nei termini di un’esperienza partecipativa, paritaria e plurale, del tutto incompatibile con lo schema di un’organizzazione gerarchica e verticale del comando, fosse questo il comando di uno solo, di alcuni o dei molti, secondo la classica tipologia delle forme di governo che ancora chiamiamo monarchia, oligarchia e democrazia. O, ancora peggio, fosse il comando del padrone su donne e schiavi nell’ambito domestico”.
Arendt non intende affatto il potere “in termini di lotta, e nemmeno di contrasto e opposizione. Il suo non è un modello contro il governo, qualunque ne sia la forma, che ovviamente mostra la sua degenerazione peggiore nel regime totalitario. È piuttosto un modello alternativo alla politica modellata sul governo, un’altra idea di politica rispetto a quella fondata sul governo, nei cui confronti può porsi come resistente ma non come costitutivamente e, per così dire, vitalmente eversiva. Il che significa che la dimensione dell’insorgenza, con tutto il corredo di lotta e violenza che l’immaginario rivoluzionario porta con sé, è decisamente fuori dal quadro che Arendt riserva al concetto puro di politica”.
Democrazia, dunque, non insorgente, ma sorgiva. Continua Cavarero: “Ci sono buoni motivi per proporre questa espressione, preferendola ad altre. Mentre il concetto di ‘democrazia insorgente’ evoca energie vitali, effervescenti e impetuose, che tendono a esprimersi mediante il conflitto e la lotta antagonistica, il concetto di ‘democrazia sorgiva’ ha per lo meno la virtù, tutta arendtiana, di esaltare l’aspetto generativo invece che quello oppositivo dell’interazione plurale. Si potrebbe anche semplicemente dire che la democrazia sorgiva evita di sostanziarsi innanzitutto nel suo essere contro, ovvero si propone essenzialmente come affermativa invece che negativa”.
Il libro, che si chiude con un rapporto cronachistico dedicato al telefonino, al selfie oggi imperante, si sviluppa attraverso un quartetto composto da idea di democrazia, pluralità, felicità pubblica e piazze politiche e attraverso un duo sulle fonosfere del politico, comprendente la voce della massa e la voce della pluralità. Qui troviamo pagine decisive sull’opera di Zola, di Pasternak, di Barthes ma, soprattutto, su quella di Canetti, da Le voci di Marrakech a Massa e potere, da La lingua salvata a Commedia della vanità, perché, per Cavarero, “vale la pena soffermarsi sulla straordinaria capacità di Canetti di esplorare a tutto campo la sfera vocale, tematizzando non solo la sonorità della massa, ma anche l’unicità di ogni voce, da lui sempre inserita in un contesto relazionale e plurale caratterizzato dalla distinzione invece che dalla fusione”. Come Canetti, anche Barthes, con Il brusio della lingua, viene utilizzato per un invito al godimento plurale, a cogliere la sonorità della lingua emessa da una pluralità di voci. Chiude Cavarero: “L’infanzia fa da tramite e preannuncia, per così dire, l’impronta fonica di una democrazia a venire. Come se la voce archetipica della pluralità fosse appunto la voce di una primavera, pura e piena di speranza, vibrante e gioiosa, felice del suo essere plurale. Una voce la cui manifestazione emozionale, lungi dal consistere nel piacere del dissolversi in un sol corpo, viene invece dal godimento di una pluralità in relazionale corporea e vocale. Come se la democrazia sorgiva avesse un suono che rivocalizza, ogni volta e anche da adulti, la felicità creativa e generativa dell’inizio”.
Capite perché è importante comprare l’ultimo libro di Adriana Cavarero, mettere da parte ciò che stai facendo, sederti comodamente e leggerlo? Perché genera rigenerando. Democrazia non è parola vuota, come non lo è la parola politica. È parola antica e contemporanea, ma occorre vestirla con abiti che non le cambino le fattezze e le bellezze dell’inizio.
Davide D'Alessandro - Pubblicato sul Foglio del 9/10/2019 -
Il tessuto sonoro della pluralità
- di Francesca Rigotti -
Il saggio, scritto da una delle voci più alte della filosofia contemporanea, è scoppiettante di idee, di concetti, di immagini, di suono persino. Diviso in tre parti con riferimenti musicali («quartetto», «duo», «scherzo») rivela già dall'indice l'inclinazione di chi l'ha scritto al mondo sonoro della filosofia. Caravero ne aveva già dato prova in "A più voci. Filosofia dell'espressione vocale" (uscito per Feltrinelli nel 2003 e tradotto in inglese per la Stanford University Press nel 2005), nel quale già privilegiava in qualche modo rispetto alla vista, senso sovrano della filosofia, l'udito, senso relazionale in grado di cogliere la pluralità delle voci della comunità risonanti l'una con l'altra. Vi ritorna qui in dialogo con Hanna Arendt e Elias Canetti, e in alcuni assolo disseminati nel testo.
Mentre si leggono con intenso piacere intellettuale le sue pagine, un'altra voce si leva in sottofondo, non citata, forse nemmeno consapevolmente ascoltata. Un testo italiano del 1979 di grande acutezza, "Innamoramento e amore" di Francesco Alberoni che, per quanto distante per vari aspetti dalle problematiche di Arendt - Cavarero, insiste a sua volta con lucidità sullo stato nascente dei grandi processi storici (rivoluzioni, religioni). In tali momenti le persone, intuiva Alberoni, hanno l'impressione di essere trascinati da forze che non dominano, di vivere in maniera intensa e differente dal solito: vi regnano creatività e entusiasmo in una sorta di rinascita interiore. Sono momenti circonfusi di sacralità e mito che si contrappongono alla consuetudine delle istituzioni. Lo stato nascente rompe l'istituzione consolidata per creare un'alternativa, fa morire e rinascere; così fa l'innamoramento, un tipo di esperienza straordinaria, scrive Alberoni, che rende particolare e diversa la relazione tra due persone, rendendole entrambe uniche e straordinarie. Come unico e straordinario è il nuovo bambino che viene al mondo per Arendt, come lo sono il nuovo giorno e la nuova primavera.
È importante però comprendere come la dimensione politica non sia per Arendt caratterizzata dalla gestione del potere ne é dal governo dei governanti sui governati nelle sue svariate forme, e nemmeno dalla grande conquista della democrazia che oggi ci scivola via tra le dita. No, per Arendt politica è esperienza di un potere diffuso, partecipativo, relazionale, e ancor più - ecco la parola chiave - plurale. Perché essere liberi nella polis è essere liberi dalla diseguaglianza connessa a ogni tipo di dominio - afferma una Arendt quasi anarchica -; è esperire la politica come interagire plurale in uno spazio pubblico condiviso, quale venne riscoperto dalla Rivoluzione America, sempre a detta di Arendt, meno invece dalla Rivoluzione Francese, troppo coinvolta questa dagli aspetti dell'economico e del sociale per lasciare respiro al politico puro. La pura facoltà arendtiana di essere liberi, fonte di ogni attività umana, è espressa da Cavarero col binomio «democrazia sorgiva» che ne esalta l'aspetto sorgente, generativo, germinale. Benché dunque lo stato nascente dei movimenti politici di cui tratti la sociologia evochi energie effervescenti e intellettuali che alterano l'equilibrio del modello arendtiano, è importante notare e sottolineare l'affinità di tutte queste nascite, ognuna con la sua unicità e straordinarietà.
Uscite di individui che vanno a comporre la pluralità arendtiana, che non è certo la massa e nemmeno la folla che canta all'unisono; è invece la pluralità quale struttura relazionale che comunica anche vocalmente l'unicità e la straordinarietà di ognuno. Il tessuto sonoro della pluralità è infatti tale che ogni voce può essere ascoltata e riconosciuta, come nello struggente canto degli scolaretti di Marrakech che alimenta Canetti col suo nutrimento sonoro. Qui Cavarero, per assegnare un nome specifico alla voce della pluralità in quanto opposta all'urlo della massa, conia il termine di plurifonia, come aveva coniato nel 2007 quello di orrorismo, accolto ormai dalla comunità scientifica, per definire il terrorismo visto dalla parte delle vittime (Adriana Cavarero, "Orrorismo, ovvero della violenza sull'inerme". Milano, Feltrinelli, 2007). E non è un caso che il richiamo comune di Cavarero, Canetti, Arendt sia ai bambini e alle loro voci. Perché i bambini sono vicini alla fase sorgiva della vita umana, l'infanzia, non ancora politica ma preannunciante fonicamente la democrazia a venire; sia quella delle primavere che non sono riuscite a diventare le successive stagioni istituzionali; sia delle primavere che ce l'hanno fatta, rinsaldando nella fase istituzionale l'energia creativa e generativa dell'inizio.
Francesca Rigotti - Pubblicato sul Sole dell'8/12/2019 -
Nessun commento:
Posta un commento