Il testo di Marx che segue è l’ultimo suo scritto di carattere economico. L’argomento trattato è la teoria del valore-lavoro, che viene qui ribadita e precisata, in tono polemico, soprattutto per quanto attiene al valore d’uso. Le Glosse si trovano in un quaderno di estratti ed annotazioni degli anni 1881-82, che porta il titolo di Oekonomisches en general (X). La traduzione è di Mario Tronti, e sono state riprese dalla raccolta da lui curata: Marx, Scritti inediti di economia politica, Editori Riuniti 1963, pp.207.
K. Marx: Glosse marginali al Manuale di economia politica di Adolph Wagner
(…) Valore. Secondo il signor Wagner la teoria del valore di Marx è “la pietra angolare del suo sistema socialista” (p.45). Poiché io non ho mai costruito un “sistema socialista”, questa è dunque una fantasia di Wagner, Schäffle e tutti quanti. Inoltre: Marx “trova la sostanza sociale comune del valore di scambio, qui da lui soltanto considerato, nel lavoro, la misura di grandezza del valore di scambio nel tempo di lavoro socialmente necessario ecc.”.
In nessun luogo io parlo della “sostanza sociale comune del valore di scambio”. Dico piuttosto che i valori di scambio (il valore di scambio al singolare non esiste) rappresentano qualcosa di comune fra loro – il “valore” appunto, come viene chiamato [nel primo Libro del Capitale] – che è “del tutto indipendente dai loro valori d’uso” (cioè qui dalla loro forma naturale). “L’elemento comune che si manifesta nel rapporto di scambio o valore di scambio delle merci, è dunque il loro valore. Il seguito della ricerca ci ricondurrà al valore di scambio in quanto modo necessario di espressione o forma fenomenica del valore, il quale in un primo tempo è da trattare tuttavia indipendentemente da questa forma.”
Io non dico dunque che “la sostanza sociale comune del valore di scambio” sia il “lavoro”; e dal momento che considero per esteso in una sezione speciale la forma di valore, cioè lo sviluppo del valore di scambio, sarebbe strano ridurre questa “forma” alla “sostanza sociale comune”, al lavoro. Il signor Wagner dimentica anche che per me non sono soggetti né il “valore” né il “valore di scambio”, ma la merce.
Ancora: “Ma questa teoria (di Marx) non è tanto una teoria generale del valore, quanto una teoria del costo, che si riallaccia a Ricardo”. (Ivi.) Tanto dal Capitale quanto dallo scritto di Sieber [1] (se egli sapesse il russo), il signor Wagner avrebbe potuto conoscere la differenza tra me e Ricardo; il quale in effetti si occupò del lavoro solo come misura della grandezza di valore, e perciò non trovò alcun nesso tra la sua teoria del valore e la natura del denaro.
Quando il signor Wagner dice che questa “non è una teoria generale del valore” ha interamente ragione dal suo punto di vista, poiché per teoria generale del valore egli intende il fantasticare sulla parola “valore”; il che gli permette di rimanere nella tradizionale confusione che i professori tedeschi fanno tra “valore d’uso” e “valore”, per il fatto che ambedue hanno in comune la parola “valore”. Ma quando egli aggiunge che questa è una “teoria del costo”, allora o ne viene fuori una tautologia: le merci in quanto valori rappresentano solo qualcosa di sociale, lavoro umano, in quanto cioè la grandezza di valore di una merce è determinata secondo me dalla grandezza del tempo di lavoro in essa contenuto, dunque dalla quantità normale di lavoro che costa la produzione di un oggetto ecc.; e il signor Wagner dimostra il contrario assicurando che questa teoria del valore non è “quella generale” perché questo non è il punto di vista del signor Wagner sulla “teoria generale del valore”. Oppure egli dice qualcosa di falso: Ricardo (seguendo Smith) confonde insieme valore e costi di produzione; ma già in Per la critica dell’economia politica e ancora in note al Capitale, ho espressamente indicato che valore e prezzi di produzione (i quali esprimono solo in denaro i costi di produzione) non coincidono. Perché non coincidono non l’ho detto al signor Wagner.
Inoltre, io “procedo arbitrariamente” poiché “riconduco questi costi soltanto alla cosiddetta prestazione di lavoro nel senso più stretto. Ciò presuppone sempre una dimostrazione che finora manca, e cioè che il processo di produzione sia interamente possibile senza che intervenga l’attività dei capitalisti privati a formare e impiegare il capitale” (p.45).
Invece di accollare a me questa dimostrazione a venire, il signor Wagner avrebbe dovuto al contrario dimostrare che non esiste un processo sociale di produzione – del processo di produzione in generale non è neppure da parlare – in quelle comunità molto numerose che esistevano prima dell’apparizione dei capitalisti privati (antiche comunità indiane, comunità familiari tra gli slavi del sud ecc). Inoltre Wagner poteva solo dire: lo sfruttamento della classe operaia da parte della classe capitalista, in breve, il carattere della produzione capitalistica, come Marx lo presenta, è giusto, ma egli sbaglia nel considerare transitoria questa economia, mentre invece Aristotele sbagliava nel non considerare transitoria l’economia schiavistica.
“Finché una tale prova non viene portata (in altre parole, finché esiste l’economia capitalistica), di fatto (e qui si mostra il piede forcuto e l’orecchio d’asino) “anche il guadagno del capitale è un elemento ‘costitutivo’ del valore e non, come vuole la concezione socialista, solo una detrazione o ‘furto’ che si fa all’operaio” (pp.45-46). Che cosa sia questa “detrazione (Abzug) che si fa all’operaio”, detrazione dalla sua pelle, è difficile immaginare. Ora nella “mia esposizione in effetti anche il guadagno del capitale” non è “solo una detrazione o ‘furto’ che si fa all’operaio”. Io rappresento al contrario il capitalista come un funzionario necessario della produzione capitalistica, e mostro molto estesamente che non solo “detrae” o “ruba”, ma estorce la produzione del plusvalore, e dunque aiuta a creare ciò che viene poi detratto. Mostro inoltre ampiamente che nello scambio stesso delle merci si scambiano solo equivalenti, e che il capitalista – appena ha pagato all’operaio l’effettivo valore della sua forza-lavoro – si appropria il plusvalore con pieno diritto, cioè con il diritto che corrisponde a questo modo di produzione. Tutto questo però non fa del “guadagno del capitale” un elemento “costitutivo” del valore, ma dimostra solo che nel valore, non “costituito” dal lavoro del capitalista, c’è una parte di cui egli può appropriarsi “legalmente”, cioè senza violare il diritto corrispondente allo scambio delle merci.
“Quella teoria tiene conto troppo unilateralmente del solo momento determinante del valore” (1.Tautologia: la teoria è falsa, perché Wagner ha una “teoria generale del valore” che non si accorda con questa; il suo “valore” infatti viene determinato dal “valore d’uso”, come dimostra appunto il suo stipendio da professore; 2. il signor Wagner sostituisce al valore il corrente “prezzo di mercato” – o prezzo della merce che da esso si scosta – che è qualcosa di molto diverso dal valore), “i costi, e non dell’altro, la fruibilità, l’ utilità, il momento del bisogno”. (Cioè essa non confonde insieme “valore” e valore d’uso, come vorrebbe quel confusionario nato che è Wagner.) “Essa non solo non corrisponde alla formazione del valore di scambio nel libero traffico odierno” (egli intende la formazione del prezzo, che non cambia assolutamente nulla nella determinazione del valore: del resto, nel traffico odierno, come sa ogni speculatore, falsificatore di merci ecc., ha luogo sicuramente formazione di valore di scambio, che non ha nulla in comune con la formazione del valore, ma mira soltanto a valori già “formati”; d’altra parte nella determinazione ad esempio del valore della forza-lavoro io parto dal fatto che il suo valore venga realmente pagato, cosa che poi, di fatto, non accade. Il signor Schäffle, in Capitalismo e socialismo (1870), pensa che questo sia “generoso” o qualcosa di simile. Ma egli intende soltanto un processo scientificamente necessario), “ma neppure ai rapporti che dovrebbero necessariamente formarsi nell’ ipotetico Stato sociale di Marx, come dimostra eccellentemente e senza dubbio definitivamente (!) anche Schäffle nella sua Quintessenza e particolarmente in Corpi sociali”[2]. (Dunque lo Stato sociale, che il signor Schäffle fu così gentile di “formare” per me, si trasforma nello “Stato sociale di Marx”, e nello Stato che è attribuito a Marx nell’ipotesi di Schäffle.) “Questo si lascia dimostrare in modo convincente specialmente nell’esempio dei cereali e simili: il cui valore di scambio, essendo i raccolti variabili e i bisogni all’incirca uguali, dovrebbe necessariamente essere regolato, anche in un sistema di “tariffe sociali”, in modo diverso che semplicemente in base ai costi”. Tante parole, altrettante stupidaggini. In primo luogo, io non ho mai parlato da nessuna parte di “tariffe sociali” e nella mia ricerca intorno al valore ho a che fare con i rapporti borghesi e non con l’applicazione di questa teoria del valore a quello “Stato sociale” che non è stato neppure costruito da me, ma dal signor Schäffle per me. In secondo luogo: se per un cattivo raccolto sale il prezzo del grano, sale dapprima il suo valore, poiché una data quantità di lavoro si è realizzata in un prodotto minore; poi sale ancor più il suo prezzo di vendita. Che cosa ha a che vedere questo con la mia teoria del valore? Quanto più il grano viene venduto al disopra del suo valore, tanto più altre merci, nella forma naturale o nella forma di denaro, vengono vendute al disotto del loro valore, e questo anche se non scende il loro prezzo in denaro. La somma di valore rimane la stessa, quand’anche fosse aumentata l’espressione in denaro di questa somma complessiva di valore, dunque quand’anche fosse salita, secondo il signor Wagner, la somma del “valore di scambio”. E’ questo il caso, se noi supponiamo che la caduta di prezzo nella somma delle altre merci non copra il prezzo che eccede il valore (l’eccedenza di prezzo) del grano. Ma in questo caso il valore di scambio del denaro è caduto pro tanto sotto il suo valore; la somma di valore di tutte le merci rimane non solo la stessa, ma rimane la stessa persino nell’ espressione in denaro, se anche il denaro viene calcolato fra le merci. Inoltre: l’aumento del prezzo del grano al disopra dell’aumento del suo valore provocato dal suo cattivo raccolto sarà in ogni caso minore nello “Stato sociale” che con gli odierni usurai del grano. Allora, però, lo “Stato sociale” regolerà fin dal principio la produzione in modo tale che l’approvvigionamento annuale di cereali dipenda solo in minima parte dai cambiamenti del clima. Il volume della produzione – l’approvvigionamento e la parte d’uso – verrà regolato razionalmente. Infine, posto che siano realizzate le fantasie di Schäffle a questo proposito, che cosa devono provare le “tariffe sociali” pro o contro la mia teoria del valore? Tanto poco, quanto le misure coercitive prese per la mancanza di generi alimentari su di una nave, in una fortezza, o durante la Rivoluzione francese, misure che non si curano certo del valore. E la cosa terribile per lo “Stato sociale” è di violare le leggi del valore dello “Stato capitalistico”, dunque anche la teoria del valore! Nient’altro che corbellerie infantili!
Lo stesso Wagner cita compiacente da Rau [3]: “Per evitare malintesi, è necessario stabilire che cosa s’intenda per valore semplicemente, ed è più appropriato in tedesco a questo scopo il termine di valore d’uso” (p.46).
(…) Ulteriore deduzione del concetto di valore:
Valore soggettivo e oggettivo. Soggettivo: e nel senso più generale il valore del bene equivale alla importanza che “viene attribuita al bene per la sua utilità … non qualità delle cose in sé, anche se esso presuppone oggettivamente l’utilità di una cosa (e dunque presuppone il valore ‘oggettivo’)… In senso oggettivo s’intende poi per ‘valore’, ‘valori’ e quindi anche i beni che hanno valore; dove (!) bene e valore, beni e valori diventano concetti essenzialmente identici” (pp.46-47).
Wagner, dopo aver semplicemente qualificato come “valore in generale”, come “concetto del valore”, ciò che comunemente viene chiamato “valore d’uso”, non può mancare di ricordarsi che “il valore così (!) dedotto (!)” è il “valore d’uso”. Dopo aver qualificato il “valore d’uso” come “concetto del valore” in generale, come “valore semplicemente”, scopre poi che egli sta soltanto fantasticando sul “valore d’uso”, e che dunque lo ha “dedotto”; poiché oggi fantasticare e dedurre sono “in sostanza” identiche operazioni di pensiero. Ma in questa occasione veniamo a sapere quale concezione soggettiva corrisponda alla “oggettiva” confusione concettuale propria del prof. Wagner. Egli ci svela infatti un segreto. Rodbertus ebbe a scrivergli una lettera, che si può leggere nella Rivista di Tubinga 1878, dove egli (Rodbertus) spiega perché si dà “una sola specie di valore”, il valore d’uso. “Io (Wagner) ho aderito a questa concezione di cui ho già sottolineato l’importanza una volta, nella prima edizione.” Di ciò che dice Rodbertus, Wagner dice: “Ciò è perfettamente giusto e necessario per modificare l’abituale, illogica ‘divisione’ del ‘valore’ in valore d’uso e valore di scambio, come anch’io avevo proposto nel par. 3 della prima edizione” (p. 48, nota 4), E lo stesso Wagner mi colloca fra le persone (p. 49, nota) secondo le quali il “valore d’uso” deve essere interamente “allontanato dalla scienza”.
Sono tutte “chiacchiere”. Prima di tutto, io non parto da “concetti”, quindi neppure dal “concetto di valore”, e non devo perciò in alcun modo “dividere” questo concetto. Ciò da cui io parto è la forma sociale più semplice in cui si presenta il prodotto del lavoro nell’attuale società, il prodotto in quanto “merce”. Io analizzo la merce, e precisamente dapprima nella forma in cui essa appare. Qui trovo che essa è da una parte, nella sua forma naturale, un oggetto d’uso alias valore d’uso, dall’altra portatrice di valore di scambio, e da questo punto di vista essa stessa “valore di scambio”. Un’ulteriore analisi di quest’ultimo mi mostra che il valore di scambio è solo una “forma fenomenica”, un modo di presentazione indipendente del valore contenuto nella merce, e passo allora all’analisi di quest’ultimo. [Nel Capitale] perciò si dice espressamente: “Quel che s’è detto in maniera sbrigativa all’inizio di questo capitolo, che la merce è valore d’uso e valore di scambio, è erroneo a volersi esprimere con precisione. La merce è valore d’uso, ossia oggetto d’uso, e “valore”. Essa si presenta come quella cosa duplice che è, appena il suo valore possiede una propria forma fenomenica diversa dalla sua forma naturale, quella del valore di scambio ecc.”. Io non divido dunque il valore in valore d’uso e valore di scambio come opposti in cui si scinda l’astratto, “il valore”; bensì la concreta figura sociale del prodotto del lavoro, la “merce”, è da una parte valore d’uso e dall’altra “valore”, non valore di scambio, poiché questo è semplice forma fenomenica, non il suo proprio contenuto.
In secondo luogo: solo un vir obscurus, che non ha capito una parola del Capitale, può concludere: poichè Marx, in una nota della prima edizione del Capitale, respinge tutte le corbellerie dei professori tedeschi sul “valore d’uso” in generale e rimanda i lettori che vogliono sapere qualcosa dei reali valori d’uso agli “avviamenti alla merceologia” – dunque il valore d’uso non rappresenta presso di lui alcuna parte. Esso non rappresenta naturalmente la parte del suo opposto, del “valore”, che non ha niente in comune con esso se non il fatto che la parola “valore” compare nel nome “valore d’uso”. Avrebbe potuto dire altrettanto bene che io lascio da parte il “valore di scambio”, poiché esso è solo forma fenomenica del valore, ma non è il “valore”; giacchè per me il “valore” di una merce non è né il suo valore d’uso, né il suo valore di scambio.
Se si deve analizzare la “merce” – che il concreto economico più semplice – si debbono tenere lontane tutte le relazioni che non hanno nulla a che vedere con il presente oggetto dell’analisi. Ciò che vi è da dire della merce, in quanto valore d’uso, l’ho perciò detto in poche righe, ma d’altra parte ho messo in rilievo la forma caratteristica in cui qui appare il valore d’uso, il prodotto del lavoro: “Una cosa può essere utile e prodotto di lavoro umano, senza essere merce. Chi con il suo prodotto soddisfa il proprio bisogno, crea valore d’uso, ma non crea merce. Per produrre merce, deve produrre non solo valore d’uso, ma valore d’uso per altri, valore d’uso sociale”. (Questa è la radice del “valore d’uso sociale” di Rodbertus.) Con ciò il valore d’uso – in quanto valore d’uso della “merce” – possiede esso stesso un carattere storico-specifico. Nelle comunità primitive, dove ad es. i mezzi di sussistenza vengono prodotti e ripartiti in comune tra i componenti della comunità, e il prodotto comune soddisfa direttamente i bisogni vitali di ciascun membro della comunità, di ciascun produttore – il carattere sociale del prodotto, del valore d’uso, sta nel suo carattere comunitario. (Il signor Rodbertus all’opposto trasforma il valore d’uso sociale della merce nel valore d’uso sociale semplicemente, perciò egli fantastica.)
Sarebbe dunque puro fantasticare, come risulta da quanto si è detto, se nell’analisi della merce – per il fatto che essa si presenta da una parte come valore d’uso o bene, dall’altra come “valore” – si cogliesse tale occasione per “intessere” ogni sorta di banali riflessioni su quei valori d’uso o beni che non cadono nella sfera del mondo delle merci, come i “beni statali”, i “beni della comunità” ecc. – come fa Wagner e ogni professore tedesco in genere – oppure sul bene della “salute” ecc. Là dove lo Stato stesso è produttore capitalista, come nello sfruttamento delle miniere, delle foreste ecc., il suo prodotto è “merce” e possiede perciò il carattere specifico di ogni altra merce.
D’altra parte il nostro vir obscurus non ha osservato alcune cose: 1. che, nell’analisi della merce, io non sono rimasto fermo al duplice modo in cui essa si presenta, ma sono passato subito a mostrare che in questo duplice essere della merce si presenta il duplice carattere del lavoro di cui essa è il prodotto: del lavoro utile, cioè dei modi concreti dei lavori, che creano valori d’uso, e del lavoro astratto, del lavoro come dispendio di forza-lavoro, quale che sia la maniera “utile” in cui esso viene speso (sul che poggia in seguito la rappresentazione del processo di produzione); 2. che, nello sviluppo della forma di valore della merce, in ultima istanza della sua forma di denaro, e dunque del denaro, il valore di una merce si presenta nel valore d’uso, cioè nella forma naturale, dell’altra merce; 3. che il plusvalore stesso viene dedotto da uno “specifico” valore d’uso della forza-lavoro, che spetta esclusivamente ad essa ecc. 4. che dunque per me il valore d’uso ha una parte importante del tutto diversa da quella che ha nell’economia precedente, ma che esso – nota bene – è preso in considerazione sempre nel caso in cui tale considerazione scaturisce soltanto dall’analisi di una data formazione economica, e non dal ragionare in libertà intorno ai concetti o alle parole “valore d’uso” e “valore”.
Perciò, nell’analisi della merce, neanche a proposito del suo “valore d’uso” vengono inserite subito definizioni del “capitale”, giacchè queste devono risultare puro non senso finchè inizialmente rimaniamo all’analisi degli elementi della merce.
Ciò che urta il signor Wagner, nella mia esposizione, è che io non gli uso la compiacenza di seguire gli “sforzi” professorali tedesco-patriottici nel confondere valore d’uso e valore. La società tedesca, sia pure molto post festum, è tuttavia giunta a poco a poco dall’economia naturale feudale, o almeno dal prevalere di essa, all’economia capitalistica; ma i professori stanno ancora sempre, com’è naturale, con un piede nel vecchio sudiciume. Da servi della gleba dei proprietari fondiari essi si sono trasformati in servi della gleba dello Stato, vulgo del governo. Anche il nostro vir obscurus – il quale non ha mai rilevato che il mio metodo analitico, che non parte dall’”uomo” ma da un dato periodo economico della società, non ha nulla in comune con il metodo dei professori tedeschi di combinare assieme dei concetti (“con le parole si contende bene, con le parole si può costruire un sistema”) – dice perciò: “Io dò la preminenza, d’accordo con la concezione di Rodbertus e anche con quella di Schäffle, al carattere di valore d’uso di ogni valore, e tanto più metto in rilievo la valutazione del valore d’uso in quanto la valutazione del valore di scambio non è assolutamente applicabile a molti dei più importanti beni economici” (che cosa lo costringe a trovare delle scuse? E’ dunque come servitore dello Stato che si sente in dovere di confondere valore d’uso e valore!); “così ad esempio non è applicabile allo Stato e alle sue prestazioni, e neppure ad altri rapporti di economia pubblica” (p. 49 nota). Ciò ricorda gli antichi chimici, prima che esistesse una scienza della chimica; poiché il burro da cucina, che ordinariamente si chiama semplicemente burro (secondo un costume nordico), ha una consistenza molle, essi chiamavano materie burrose la clorite, il burro di zinco, il burro d’antimonio ecc., e dunque si tenevano, per parlare con il vis obscurus, al carattere burroso di tutte le combinazioni di cloruro, zinco, antimonio. Tali chiacchiere concludono a questo: poiché certi beni, come appunto lo Stato (un bene!) e le sue “prestazioni” (ossia le prestazioni dei suoi professori di economia politica) non sono “merci”, i caratteri opposti contenuti nelle “merci” stesse (che appaiono espressamente anche nella forma di merce del prodotto del lavoro) devono essere confusi l’un con l’altro. Di Wagner e consorti è del resto difficile dire che guadagnano di più quando le loro prestazioni vengono valutate secondo il loro “valore d’uso”, secondo il loro “contenuto” materiale, che non quando lo sono secondo il loro “contenuto” (determinato dalle “tariffe sociali”, come si esprime Wagner), ossia secondo la loro remunerazione.
(L’unica cosa chiara che sta al fondo della confusione tedesca è che, nella lingua, le parole valore o pregio (Wert oder Würde) furono dapprima applicate alle cose utili stesse, che esistevano da lungo tempo, come “prodotti del lavoro”, prima di diventare merci. Ma questo ha tanto a che vedere con la definizione scientifica del “valore delle merci” quanto la circostanza che presso gli antichi la parola sale fu dapprima usata per il sale da cucina e che perciò anche lo zucchero ecc., da Plinio in poi, figura come specie salina [come tutti i corpi solidi incolori solubili in acqua e con gusto particolare], - dunque la categoria chimica “sale” contiene in sé zucchero ecc.)
Veniamo ora alla fonte del vir obscurus, a Rodbertus (di cui è da vedere l’articolo nella Rivista di Tubinga). Egli cita da Rodbertus il passo seguente:
“Esiste un solo genere di valore, il valore d’uso. Questo è: o valore d’uso individuale o valore d’uso sociale. Il primo sta di fronte all’individuo e ai suoi bisogni senza alcun riguardo a una organizzazione sociale” (p. 48). (E questa è già una sciocchezza) (Confronta il Capitale, dove è detto invece che il processo lavorativo, come attività che ha lo scopo di produrre valori d’uso ecc., “è comune ugualmente a tutte le forme di società [della vita umana] e indipendente da ciascuna di esse”.) (In primo luogo, di fronte all’individuo non sta la parola “valore d’uso”, ma valori d’uso concreti, e quali di questi “stanno di fronte” a lui [per questi uomini tutto “sta”, tutto è “ständisch” [4]], dipende interamente dal grado del
processo sociale di produzione, e non corrisponde dunque mai ad “una organizzazione sociale”. Ma se Rodbertus vuol dire qui solo questa cosa triviale, che il valore d’uso, che effettivamente sta di fronte a un individuo come oggetto d’uso, gli sta di fronte come valore d’uso individuale per lui, allora questa è una tautologia triviale, oppure è una cosa falsa; poiché, per non parlare di cose come riso, grano, granturco o carne [che a un Indù non sta di fronte come alimento], per un individuo il bisogno di un titolo di professore o di consigliere segreto, o di una onorificenza, è possibile solo in una ben determinata “organizzazione sociale”.) “Il secondo è il valore d’uso che ha un organismo sociale, che consiste di molti organismi individuali (ossia di molti individui).” (p. 48). Bel linguaggio! Si tratta qui di “valore d’uso” dell’”organismo sociale” o di un valore d’uso che si trova in possesso di un “organismo sociale” (come per es. la terra nelle comunità primitive), oppure della determinata forma “sociale” del valore d’uso, in un organismo sociale, come ad esempio dove è predominante la produzione delle merci e dove il valore d’uso, che un produttore fornisce, deve essere “valore d’uso per altri” e in questo senso “valore d’uso sociale”? Con simili confusioni non c’è niente da fare.
Passiamo dunque all’altra proposizione del Faustus di Wagner [5]: “Il valore di scambio è soltanto l’appendice storica del valore d’uso sociale di un determinato periodo storico. Quando si contrappone al valore d’uso un valore di scambio come antitesi logica, si pone in antitesi logica un concetto storico con un concetto logico, il che logicamente non va” (p. 48, nota 4). E “questo è perfettamente giusto” giubila ibidem Wagner. Ma chi è “la persona” che commette questa colpa? Che Rodbertus qui pensi proprio a me è sicuro, poiché secondo R. Meyer, suo famulus, egli ha scritto un grosso e denso manoscritto contro il Capitale. Chi pone in antitesi logica? Il signor Rodbertus, per il quale “valore d’uso” e “valore di scambio” sono ambedue, per natura, meri “concetti”. Infatti, in ogni listino corrente dei prezzi, ciascun singolo genere di merce compie questo processo illogico di distinguersi come bene, o valore d’uso, come cotone, filo, ferro, grano ecc., dalle altre merci, di rappresentare un “bene” toto coelo qualitativamente diverso dagli altri, mentre al tempo stesso il suo prezzo è della medesima natura dei prezzi delle altre merci, qualitativamente uguale e solo quantitativamente differente. Una merce si presenta nella sua forma naturale per colui che ne ha bisogno, e nella forma di valore, completamente diversa da questa e “comune” ad essa insieme a tutte le altre merci, nonché come valore di scambio. Si tratta qui di una antitesi “logica” solo per Rodbertus e per i professori maestri di scuola tedeschi suoi amici, i quali partono dal “concetto” di valore, non dalla “cosa sociale”, dalla “merce”, e fanno che questo concetto si divida duplicandosi in se stesso per contendere poi tra loro su quale di questi due fantasmi sia il vero Giacobbe!
Ma, ciò che sta nell’oscuro sfondo di queste frasi pompose è semplicemente la scoperta immortale che in tutte le condizioni l’uomo deve mangiare, bere ecc. (non si può nemmeno aggiungere: vestirsi, o avere coltello e forchetta, o letti, o abitazioni, poichè questo caso non ricorre in tutte le condizioni); in breve, che in tutte le condizioni egli deve trovare pronti in natura oggetti esterni per la soddisfazione dei suoi bisogni e impadronirsene o approntarli sulla base dei materiali naturali; in questo suo comportamento effettivo egli in realtà si rapporta sempre a certi oggetti esterni come “valori d’uso”, cioè li tratta sempre come oggetti per il suo uso. Perciò il valore d’uso è secondo Rodbertus un concetto “logico”: dunque, poiché l’uomo deve anche respirare, il “respirare” è così un concetto “logico”, ma non, Dio ne guardi, un concetto “fisiologico”. Tutta la superficialità di Rodbertus, però, vien fuori nella sua contrapposizione di concetto “logico” e “storico”! Egli prende il “valore” (quello economico in antitesi al valore d’uso della merce) solo nella sua forma fenomenica, come valore di scambio; e poiché esso appare solo dove almeno una qualche parte dei prodotti del lavoro, degli oggetti d’uso, funziona come “merce”, il che non accade fin dall’inizio, ma solo in un certo periodo dello sviluppo sociale, dunque solo a uno stadio determinato dello sviluppo storico – così il valore di scambio è un concetto “storico”. Ora, se Rodbertus avesse analizzato ulteriormente il valore di scambio delle merci – più avanti dirò perché non lo ha fatto – giacchè questo esiste solamente dove il termine merci compare al plurale, dove ci siano cioè diversi generi di merci – egli avrebbe trovato dietro questa forma fenomenica il “valore”. Se poi egli avesse ancora indagato il valore, avrebbe inoltre trovato che qui la cosa, il “valore d’uso”, vale come pura e semplice oggettivazione di lavoro umano, come dispendio di uguale forza lavorativa umana e che perciò questo contenuto è presentato come carattere oggettivo della cosa, come [carattere] che spetta ad essa oggettivamente, sebbene questa oggettività non appaia nella sua forma naturale (il che rende appunto necessaria una forma di valore particolare). Avrebbe insomma trovato che il “valore” della merce esprime soltanto in una forma storicamente sviluppata ciò che esiste parimenti in tutte le altre forme storiche di società, sebbene in forma diversa, cioè il carattere sociale del lavoro, in quanto esso esiste come dispendio di forza-lavoro sociale. Se “il valore” della merce è così soltanto una forma storica determinata, qualcosa che esiste in tutte le forme di società, lo è anche però il “valore d’uso sociale”, come egli caratterizza il “valore d’uso” della merce. Il signor Rodbertus ha la misura della grandezza di valore di Ricardo: ma, come Ricardo, ha indagato o compreso ben poco la sostanza del valore stesso: ad esempio il carattere “comune” del processo lavorativo nella comunità primitiva, come organismo complessivo delle forze lavorative che ne fanno parte e perciò [carattere “comune”] del loro lavoro, cioè del dispendio di queste forze.
Superfluo aggiungere altro, in questa occasione, sulle corbellerie del signor Wagner.
- Karl Marx -
[1] N. Sieber, Teoria del valore e del capitale di D. Ricardo, in russo.
[2] A. E. F. Schaffle, Die Quintessenz des Sozialismus (1875) e Bau und Leben des sozialen Korpers (4 voll. 1875-78).
[3] K. H. Rau, Lehrbuch der politischen Oekonomie (3 voll. 1826-37).
[4] Relativo a un ordine o stato sociale.
[5] Qui sta per Rodbertus.
Nessun commento:
Posta un commento