lunedì 4 gennaio 2016

La morte del soggetto

trenkle

Lotta senza classe: perché nel processo di crisi capitalista non risorge il proletariato?
di Norbert Trenkle

Dalla lotta di classe al declassamento
1.
Mentre avanza la precarizzazione della vita, unitamente alla precarizzazione delle condizioni di lavoro, e coinvolge settori sempre più ampi della popolazione, ritorna con forza il discorso sulla lotta di classe, la quale negli ultimi decenni sembra essere quasi scomparsa. Dapprima, data la crescente polarizzazione sociale, questo può sembrare plausibile. Tuttavia, come di solito avviene quando si ricorre a modelli interpretativi ed esplicativi del passato, questi non servono a chiarire il presente. Al contrario di quel che appare a prima vista, le categorie dell'antagonismo di classe non spiegano adeguatamente la crescente diseguaglianza sociale. Né, tantomeno, i conflitti di interessi derivanti da tale diseguaglianza coincidono con quello che, storicamente, è stato designato come lotta di classe.

2. Il grande conflitto sociale che ha modellato in maniera decisiva la società capitalista nel corso di tutto il periodo storico della sua formazione ed imposizione è stato, com'è noto, il conflitto fra capitale e lavoro. In questo conflitto si è espressa l'opposizione di interessi fra le due categorie immanenti alla società produttrice di merci: tra i rappresentanti del capitale che governano ed organizzano il processo di produzione con l'obiettivo di conseguire la valorizzazione del capitale ed i salariati, i quali con il loro lavoro "generano" il plusvalore necessario a questo obiettivo. In quanto tale, si tratta di un conflitto interno al sistema capitalista in merito alle condizioni in cui il valore viene prodotto (condizioni di lavoro, orario di lavoro, ecc.) ed alle modalità della sua distribuzione (salari, profitti, prestazioni sociali, ecc.). Questo conflitto di interessi si è espresso storicamente come lotta di classe in quanto, sulla base di determinate condizioni storiche, i salariati si erano costituiti come soggetto collettivo. Nella difesa dei loro interessi, avevano sviluppato un'identità ed una soggettività collettiva di "classe operaia" e, come tale, erano riusciti ad essere riconosciuti come cittadini e come soggetti del mercato, ossia: come proprietari e venditori di una merce assai specifica, la merce forza lavoro.

3. Ora, se nella seconda metà del 20° secolo la lotta di classe è andata perdendo sempre più la sua propria dinamica, ciò non è successo, ovviamente, perché la società capitalista prescinde dalla produzione di plusvalore. La contraddizione oggettiva fra le categorie funzionali del capitale e del lavoro è ancora valida, sebbene nel corso dello sviluppo capitalista sia cambiata la sua fisionomia concreta. Tuttavia i salariati hanno perso il loro carattere di classe, nella misura in cui sono stati integrati nell'universo della società capitalista come cittadini e soggetti del mercato. Vale a dire: via via che l'esistenza sociale basata sul lavoro astratto si generalizzava, e praticamente tutti i membri della società si convertivano in proprietari e venditori di forza lavoro, si diluiva l'idea per cui i salariati rappresentavano un soggetto rivoluzionario.

4. Questa trasformazione del conflitto fra capitale e lavoro, che una volta appariva come un antagonismo irriducibile, si è riflessa nel fatto che oggigiorno i conflitti lavorativi per lo più non avvengono sulla base della premessa di un confronto fondamentale, di un'incompatibilità oggettiva fra gli interessi del venditore di forza lavoro e quelli del capitale. Ma piuttosto, quella che viene enfatizzata, in generale, è la base comune agli interessi opposti, quale il rafforzamento della domanda interna sul mercato nazionale oppure l'aumento della produttività imprenditoriale attraverso migliori condizioni di lavoro. Non viene criticato il profitto in quanto tale, ma vengono piuttosto criticati i "guadagni esorbitanti", la "inutile rilocalizzazione industriale" o ciò che viene designato come "avvoltoi del capitale finanziario". Tutto questo non deve sorprendere, dal momento che i soggetti moderni sanno che il loro benessere nella società produttrice di merci, pur se precario, dipende dal fatto che continuino a marciare i processi della valorizzazione del capitale, dell'incremento della produttività e della crescita forzata.

5. Questa percezione è dovuta certamente al fatto che la società produttrice di merci si sia ormai imposta in maniera quasi totale, assumendo le apparenze di una legge naturale irrevocabile. Allo stesso tempo, le modificazioni nella relazione capitale-lavoro, introdotte nell'era post-fordista, hanno contribuito a stabilire un'estrema polarizzazione sociale, che ha senza dubbio non ha formato la base di una nuova costituzione di classe, ma piuttosto ha avviato un processo generale di "declassamento" che si è espresso in almeno quattro tendenze.

6. In primo luogo, già nella fase finale del fordismo, il lavoro diretto sul prodotto aveva ceduto il passo alle funzioni di supervisione e controllo, nonché aveva dato luogo a mansioni di pre e post produzione. Ciò aveva implicato il fatto che la mano d'opera industriale produttrice di valore, che era sempre stata considerata come il nucleo della classe operaia, perdesse importanza rispetto alle altre categorie di salariati, quali i lavoratoti impiegati nella circolazione, nell'apparato statale e nei diversi "settori dei servizi". Allo stesso tempo, una parte significativa di funzioni direttive e di controllo a basso e medio livello venivano integrate nelle attività lavorative; in questo modo, la contraddizione fra lavoro e capitale veniva trasferita direttamente all'interno degli individui (ed eufemisticamente designata come "responsabilità personale", "arricchimento della mansione", "orizzontalità gerarchica", ecc.). Tale tendenza venne ad essere esacerbata dalla crescente pressione della concorrenza e dalla precarizzazione generalizzata delle condizioni di lavoro. Il caso più lampante è quello dei "lavoratori autonomi", i quali sono obbligati a svolgere lo stesso lavoro che svolge un dipendente, pagandosi però i contributi ed a proprio rischio. Ma anche dentro le piccole imprese si acutizza la tendenza ad organizzare le mansioni in modo tale che i lavoratori "gestiscano" sé stessi e la propria area di lavoro (ad esempio, attraverso l'installazione dei cosiddetti "centri di profitto"). E infine, l'amministrazione statale della disoccupazione elogia la "autogestione" e la "responsabilità personale", tanto più quando è evidente l'incapacità del mercato del lavoro a riassorbire tutti quelli che ne sono stati espulsi.

7. In secondo luogo, si aggiunge la flessibilizzazione forzata nel mercato del lavoro. Com'è ben noto, oggi il peccato peggiore che si può commettere contro la legge capitalista è quello di continuare ad essere collegato ad una determinata funzione o attività lavorativa. Per sopravvivere uno deve essere disposto a cambiare continuamente fra diverse attività e categorie di lavoro salariato ed autonomo (ivi incluse forme di lavoro non remunerate come i tirocini ed il "lavoro in prova") senza identificarsi con nessuna di esse, secondo l'oscillazione di domanda ed offerta. Questo chiaramente porta ad una competitività generalizzata e mina le basi di qualsiasi solidarietà lavorativa.

8. Terzo, le nuove gerarchie e divisioni sociali non sono segnate da una delimitazione fra le categorie di capitale e di lavoro, ma tali categorie vi si sovrappongono. Detta in maniera più specifica: tra gli stessi salariati le differenze sociali sono talmente abissali quanto lo sono nell'insieme della società. Questo può essere osservato già all'interno delle stesse imprese, dove il personale in pianta stabile (in diminuzione) ed anche assicurato dal contratto nazionale di lavoro svolge gli stessi compiti di un numero sempre più crescente di lavoratori a contratto, temporanei ed autonomi, in condizioni lavorative precarizzate. Anche maggiori sono le differenze fra i diversi settori industriali, segmenti di produzione e sedi regionali. Ed infine, le discrepanze in termini di reddito e di condizioni di lavoro fra i differenti paesi e regioni che concorrono sul mercato globale sono enormi.

9. In quarto ed ultimo luogo, il declassamento significa che un numero crescente di persone a livello mondiale sono escluse, nel senso che per loro non c'è più alcun posto nel sistema produttore di merci, il quale ha sempre meno capacità di integrare forza lavoro produttiva. Devono fare i conti con la situazione per cui non solo sono sostituibili in qualsiasi momento, ma anche col fatto di essere "superflui" per il capitalismo in  misura sempre più crescente. I "privilegiati" oggigiorno sono quelli che vengono ancora richiesti per svolgere una qualche funzione sistemica. Ma dal momento che queste stesse funzioni sono diventate precarie, anche mantenersi in equilibrio su una corda allentata diventa sempre più difficile. Nella misura in cui le strutture funzionali si disintegrano, si incrementa anche il numero degli individui esclusi. La loro quantità differisce a seconda del posto che un paese o una regione occupa sulla scala della concorrenza globale, ma quella che aleggia è soprattutto la minaccia di cadere nel nulla sociale. La tendenza è chiara ed inequivocabile: a livello mondiale è andato conformandosi un segmento crescente di nuove classi basse, le quali non hanno niente in comune con il vecchio proletariato, dal momento che non formano un nuovo soggetto sociale né oggettivamente (per la loro funzione e posizione nel processo di produzione) né soggettivamente (per la loro coscienza). Relativamente alla valorizzazione del capitale, questo segmento sociale è nettamente negativo, in quanto è superfluo come forza lavoro. Ciò impone di riformulare in maniera del tutto nuova la questione di un possibile movimento emancipatorio.

I tentativi di salvare il soggetto morto
10.
Il resuscitato discorso sulla lotta di classe contribuisce ben poco a far chiarezza sulla questione. Nonostante il fatto che tale discorso, in qualche modo, tiene conto delle trasformazioni sociali che hanno avuto luogo, alla fine non riesce a rompere con il concetto metafisico di lotta di classe del marxismo tradizionale. Questo concetto si riproduce costantemente, benché il soggetto evocato ormai non esista più. In un altro testo ho cercato di dimostrare che tanto Hardt/Negri quanto John Holloway nelle loro teorie riproducono tale concetto metafisico- [*1] Qui cerco di volgere lo sguardo verso altri approcci la cui inclinazione metafisica non è così tanto ovvia e che argomentano in maniera più sociologica ed empirica. Voglio dimostrare che sono proprio i risultati empirici delle loro indagini a smentire il paradigma della lotta di classe. Nel tentativo di preservare questo paradigma per mezzo di ogni tipo di aggregato, gli autori, nel loro ragionamento, restano impigliati in contraddizioni insolubili che mettono in evidenza il fallimento di tale operazione di salvataggio. Pertanto solo una demolizione dell'edificio del pensiero tradizional-marxista può aprire la strada ad una rinnovata prospettiva dell'agire emancipatorio.

11. Per cominciare, ascoltiamo il teorico gramsciano Frank Deppe: "La classe operaia", scrive la rivista Fantômas [*2], "non è sparita in alcun modo, il capitalismo si basa ancora sullo sfruttamento del lavoro salariato, risorse naturali e condizioni sociali e politiche di produzione ed appropriazione del plusvalore. Il numero di lavoratori in relazione di dipendenza lavorativa è quasi raddoppiato fra il 1970 ed il 2000 e comprende circa la metà della popolazione mondiale. Ciò è dovuto principalmente allo sviluppo in Cina ed in altre parti dell'Asia, dove in seguito all'industrializzazione una grande parte della popolazione rurale è entrata nel mercato del lavoro. Nei paesi capitalisti sviluppati, la proporzione di lavoratori salariati è ora del 90% e più" (Deppe, 2003, p.11). Quel che colpisce a prima vista in questo argomento è il fatto che si muova su almeno due significati fluttuanti in relazione al concetto di classe operaia. Dapprima, sembra che Deppe identifichi la classa operaia, in maniera abbastanza tradizionale, con i lavoratori salariati che producono plusvalore in senso stretto, che viene estratto direttamente dal loro pluslavoro ai fini della valorizzazione del capitale. Tuttavia, questo concetto di classe sfocia in un altro concetto molto più ampio, quello di tutti i "lavoratoti in relazione di dipendenza lavorativa", per mezzo del quale si abbraccia la "metà della popolazione mondiale" e nelle metropoli capitaliste quasi la totalità della popolazione (cioè, oltre il 90%).

12. In quest'oscillazione argomentativa si esprime già il dilemma dei teorici della classe. Se la categoria di classe operaia viene interpretata secondo il primo significato (conforme alla teoria marxista così come afferma esplicitamente Deppe), allora dobbiamo riconoscere che si tratta di una minoranza globale che perde sempre più importanza nella misura in cui, nei settori della produzione di valore, vanno avanti i processi di razionalizzazione e rendono superfluo il lavoro nella produzione immediata. Nel secondo significato accennato, si può dire che l'ampliamento della categoria di classe operaia a tutti i "lavoratori in relazione di dipendenza lavorativa" si converte in un non-concetto dal momento che manca assolutamente di capacità di discriminazione. E' solamente un'altra parola per descrivere il modo di esistenza generalizzato nella società capitalista, laddove le condizioni di vita sono mediate dal lavoro e dalla produzione di merci. Per la gran parte della popolazione, questo significa essere obbligata a vendere la propria forza lavoro per poter sopravvivere. Senza dubbio, questo rappresenta un aspetto chiave della società capitalistica, però proprio per questo non fornisce la base concettuale per poter determinare una divisione di classe; in quanto il fatto di possedere soltanto una merce da offrire sul mercato, la merce forza lavoro, non è il segno distintivo di una determinata parte della popolazione (la "classe operaia"), bensì una compulsione generalizzata, rispetto alla quale tutte le persone si trovano sostanzialmente sottomesse, indipendentemente dalla loro situazione sociale, così come anche dalle circostanze concrete della loro vita.

13. Le aporie della teoria della classe sono evidenti anche nel caso dello storico Marcel van der Linden, il cui concetto di classe è ancora più ampio di quello di Deppe: Secondo van der Linden: "appartiene alla classe dei lavoratori subalterni ogni portatore/portatrice di forza lavoro la cui forza viene venduta oppure affittata ad un'altra persona sotto pressione economica o meno. E' irrilevante se tale forza viene offerta dal portatore o dalla portatrice stessa o se i mezzi di produzione appartengono loro" (van del Linden, 2003, p. 34). Con questa definizione, van der Linden vuole dar conto del fatto che nella società produttrice di merci globalizzata è sorta un'enorme varietà di situazioni lavorative differenziate e gerarchizzate che non si adattano (più) al classico schema di lavoro salariato, quali le forme di lavoro schiavista o semi-schiavista, ma anche il lavoro riproduttivo e di sussistenza non remunerato delle donne. Di conseguenza, van der Linden non parla più della classe di "lavoratori salariati liberi", ma opta piuttosto per il concetto più ampio di "lavoratori subalterni" (cf. van der Linden, 2003, p. 31-33). Tuttavia, questo non risolve il problema; anzi, lo rende ancora più complicato di quanto faccia Deppe, elevando il concetto di classe ad una metacategoria la quale, in linea di principio ricopre quasi la totalità delle persone che vivono nella società capitalista e cioè: a quasi tutta l'umanità.

14. E' logico che un concetto di classe in quanto metacategoria generalizzata perda ogni potere di determinazione. Rappresenta la parodia di un concetto di totalità capitalista che non riesce a captare adeguatamente questa totalità, dal momento che da un lato riflette indirettamente il fatto che il lavoro rappresenta il principio universale di mediazione sociale nel capitalismo; dall'altro lato, van der Linden non arriva ad analizzare questo principio per quel che è, in quanto lo identifica da subito con una categoria sociale particolare, la categoria della classe.
Il marxismo tradizionale ha sempre considerato la mediazione sociale attraverso il lavoro visto come una costante trans-storica comune a tutte le società, mentre vedeva nel dominio di classe, basato sull'estrazione del plusvalore e sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, la caratteristica specifica del capitalismo. Se tuttavia riconosciamo che il capitalismo è essenzialmente una società produttrice di merci e, pertanto, una società nella quale gli esseri umani stabiliscono le loro relazioni sociali attraverso la forma della merce e del denaro, la sua caratteristica storica-specifica che lo differenzia da tutte le altre formazioni sociali precedenti, consiste nel fatto che il lavoro (astratto), ossia l'attività che produce le merci ed il valore di scambio, costituisce e consente la sintesi della società [*3].
Da questo punto di vista, il conflitto fra capitale e lavoro non rappresenta un antagonismo fondamentale, bensì un conflitto immanente fra differenti categorie sociali corrispondenti al sistema della produzione generalizzata di merci. E quanto più si stabiliscono forme differenti di vendita della forza lavoro, tanto meno si può parlare di un conflitto, dal momento che questo si diluisce in una molteplicità di conflitti il cui unico denominatore comune è quello di essere localizzati dentro una totalità sociale costituita sal principio universalistico del lavoro astratto.

15. Tuttavia, l'idea per cui l'antagonismo di classe sia l'essenza del capitalismo è talmente radicata che viene sostenuta anche laddove dimostra di essere completamente inadeguata per l'analisi. Questo diventa evidente proprio nei tentativi di recuperare il concetto di lotta di classe a fronte dell'attuale situazione globale. Un esempio di questo ce lo fornisce lo stesso van der Linden quando cerca di delimitare e precisare il suo concetto di classe, il quale ovviamente appare insufficiente a lui stesso, e pone la domanda: "Che cosa hanno realmente in comune tutte le diversità dei subalterni?" (van der Linden, 2003, p.33) e risponde che "tutti i lavoratori subalterni vivono in maniera alienata", vale a dire in uno "stato di eteronomia istituzionalizzata" (ivi). Per spiegare tale concetto, fa riferimento a Cornelius Castoriadis: "eteronomia istituzionalizzata significa una divisione antagonistica della società, ossia, il dominio di una determinata categoria sociale su tutto l'insieme. (...) pertanto, l'economia capitalista ci aliena perché coincide con la divisione di classe fra proletari e capitalisti" (ivi).

16. Il fatto che Castoriadis derivi la "eteronomia istituzionalizzata" immediatamente dalla relazione di classe, attira l'attenzione. Questa definizione, nel suo essere semplificatrice, aveva un certo qual senso nel contesto della teoria delle classi del marxismo tradizionale, con la sua solita fissazione sul proletariato. Ma perde ogni forza esplicativa se, come avviene in van der Linden, si estende il concetto di classe fino all'infinito e si finisce per sussumervi in misura maggiore o minore tutta l'umanità. Implicitamente, van der Linden non dice altro se non che l'alienazione è una caratteristica di base universale della società capitalistica. Però non arriva ad analizzare questa caratteristica in maniera coerente, in quanto non si libera dal paradigma del marxismo tradizionale. Ancora una volta, l'intento di voler salvare questo paradigma per mezzo della sua estensione ne rivela le contraddizioni ed i limiti. Già Marx aveva dimostrato che l'alienazione ed il feticismo della merce non possono essere dedotti dal dominio di classe, ma piuttosto essi costituiscono le caratteristiche essenziali di una società basata sulla produzione di merci e sul lavoro astratto. Per il movimento operaio tradizionale, nella sua lotta lotta per ottenere il riconoscimento all'interno della società capitalista, questo poteva sembrare un problema secondario. Oggi, però, questo dev'essere l'obiettivo principale di una critica del capitalismo che sia all'altezza dei tempi; e l'adesione anacronistica al paradigma della lotta di classe ostacola questa comprensione.

La "classe" come totalità positiva
17.
Come ho cercato di dimostrare, anche gli stessi difensori di quel paradigma devono implicitamente ammettere che il concetto di classe si è svuotato. Tuttavia questo non li induce ad un cambio di prospettiva, bensì a cercare ogni genere di scappatoia e a cancellare le stesse prove. Di conseguenza si spalanca un abisso incolmabile fra l'obiettivo teorico e l'analisi empirica. Da un lato, si mantiene il concetto di classe, ampliandolo fino a farlo diventare una metacategoria astratta vuota di contenuto la quale, proprio per questo, diventa immune a qualsiasi critica. Dall'altro lato, viene furtivamente eliminato questo stesso concetto dal momento che non svolge più alcun ruolo reale nelle analisi empiriche, se non come un'istanza diffusa di evocazione che pervade la prospettiva della ricerca e colora i risultati in una determinata maniera.

18. C'è dell'ironia inconscia quando van der Linden conclude la sua introduzione con il seguente commento: "Occorre osservare che questa grande teoria è empiricamente vuota" (ivi, p.34), perché è proprio questo ciò che caratterizza esattamente il suo approccio e quello di tutti i nuovi protagonisti del discorso di classe: la sua teoria rimane empiricamente vuota mentre allo stesso tempo la sua analisi empirica non ha base teorica; si aggrappa al mito della lotta di classe nonostante il fatto che nella realtà sociale non si trovi né soggetto né movimento che la rivendichi, senza fare delle grandi acrobazie argomentative. Autori come Deppe e van der Linden descrivono in maniera empiricamente corretta le gerarchie e le disuguaglianze sociali che si attuano e si acutizzano nel contesto del capitalismo globale in crisi; ma riassumere tutti questi risultati sotto il titolo di "Frammentazione della classe operaia" implica una prospettiva forzata, del tutto intrinseca alla loro analisi. Viene qui presunta un'unità fondamentale, precedentemente presupposta a tutte queste "frammentazioni", ivi incluso anche quando non è possibile spiegare in che cosa consiste. Perché il fatto che tutti i gruppi e tutte le persone cui si riferisce l'analisi in qualche forma sono obbligati a vendere la loro forza lavoro non costituisce alcuna base comune se non quella che tutti partecipano alla competizione del mercato del lavoro. Deppe e van der Linden, invece, implicitamente presuppongono un soggetto collettivo, il quale successivamente è stato "frammentato"; vale a dire, secondo loro esiste qualcosa come una sostanziale unità di classe, essenzialmente anticapitalista, che seppure attualmente non appare a livello empirico, può e dev'essere ricostituita.

19. Anche Deppe estende questo costrutto esistenzialista, allorché, riferendosi a Gramsci, parla di un "nuovo blocco di subalterni" che, insieme alla "classe operaia", include tutti i movimenti sociali degli ultimi anni ("le proteste dei sem tierra in Brasile, il sollevamento nel Chapas, le manifestazioni di massa che a livello mondiale si sono pronunciate contro la guerra o la sua minaccia"). Tuttavia, questo blocco non è ancora articolato "politicamente, a causa dell'assenza di un programma e di una prassi adeguata per affrontare il neoliberismo in modo tale da poter far confluire le diverse fazioni" (ivi, p.11). Vale a dire, questo blocco già esiste "in sé" però non si è ancora espresso politicamente come tale.
Non è un caso che in questo modo si evochi la costruzione forzata della "coscienza di classe attribuita", inventata dal filosofo leninista Georg Luckàcs negli anni 1920 per spiegare perché la maggioranza degli operai non disponeva di una coscienza rivoluzionaria, in contrasto con quanto predicava la dottrina marxista. Proviene da qui l'idea metafisica di una "classe in sé" che dev'essere coscientizzata per poter arrivare ad essere "classe per sé", cosa che giustificava tutte le misure "educative" messe in campo dai partiti comunisti definiti come rappresentanti di una "coscienza avanzata di classe", e pertanto "avanguardia del proletariato [*4]. Deppe non si eleva all'altezza di simili speculazioni metafisiche (ed autoritarie), ma non in quanto le abbia superate, bensì perché se le porta implicitamente dietro senza mai metterle in discussione. Solo a partire da questo si può ridurre il problema di come superare la "frammentazione" alla domanda superficiale di un "programma alternativo, che potrebbe saldare le differenti "frazioni" di quel "blocco" già in sostanza presupposto.

20. In tal modo, Depp, senza rifletterci sopra, riproduce simultaneamente un'altra delle classiche figure argomentative del marxismo tradizionale, secondo cui la classe operaia rappresenterebbe, in sostanza, l'universalità sociale, la quale, secondo il marxismo tradizionale, era costituita dal lavoro. Quindi, la classe operaia aveva ricevuto l'eredità dalla borghesia, la quale nel corso del suo periodo rivoluzionario pretendeva di rappresentare l'intera società, per poi tradire questo punto di vista in favore dei suoi interessi particolari di classe [*5]. Di conseguenza, l'obiettivo rivoluzionario della classe operaia doveva consistere nel realizzare finalmente l'obiettivo della rivoluzione francese e generare una totalità sociale, mediata in maniera "cosciente" dal lavoro. Come ha esaustivamente dimostrato Moishe Postone nel suo libro "Tempo, lavoro e dominio sociale", quest'idea equivale doppiamente ad una proiezione deformata delle relazioni capitaliste. In primo luogo, è una contraddizione in sé voler configurare come "cosciente" la mediazione attraverso il lavoro, in quanto questa di per sé è identica alla mediazione attraverso la produzione di merci, la quale obbedisce alle sue proprie leggi reificate, che si impongono sulla società come se fossero leggi naturali; ogni tentativo di "maneggiare" in maniera cosciente questa dinamica reificata è condannata al fallimento. Piuttosto, si dovrebbero creare nuove forme di mediazione diretta al di là della forma merce-denaro.
In secondo luogo, la costituzione dell'insieme sociale in quanto totalità è anche una caratteristica storica assai specifica della società capitalista, la quale, a differenza di qualsiasi altra configurazione sociale mai esistita, è mediata da un unico principio. Per questo l'emancipazione sociale non può consistere nel realizzare la totalità sociale (suppostamente mediata in maniera cosciente), bensì nel superarla, per poter aprire la strada ad una società di individui liberamente associati. Moishe Postone ha spiegato molto chiaramente perché ed in che modo la società capitalista può essere considerata come totalità in un senso storico-specifico: "La formazione sociale capitalistica, secondo Marx, è unica in quanto è costituita da una "sostanza" sociale qualitativamente omogenea, e quindi esiste come totalità sociale. Altre formazioni sociali non sono totalizzate in tale forma, le loro relazioni sociali fondamentali non sono qualitativamente omogenee. Non possono essere concepite secondo il concetto di "sostanza", né possono svilupparsi a partire da un unico principio strutturante. Né, tanto meno, presentano una logica storica immanente e necessaria che è loro propria" (Postone, 2003, p.133). La conseguenza logica di questa determinazione è "che la negazione storica del capitalismo non implica la realizzazione,  bensì l'abolizione della totalità" (ivi, p.133).

21. Sebbene il nuovo discorso classista pretenda di criticare le false unificazioni attuate dal marxismo tradizionale, tuttavia si contraddice a causa della sua persistente fissazione sulla categoria de "la classe". Inoltre e di più: la tendenza a sovradimensionare tale categoria particolare fino a fare di essa una metacategoria della società come un tutto, esagera l'affermazione della totalità ad un tal punto che ricade nell'assurdo. Poiché se una maggioranza quasi assoluta dell'umanità appartiene a "la classe" (o al "blocco dei subalterni"), la totalità sociale che il marxismo tradizionale tratteggiava nell'orizzonte del futuro sarebbe allora già potenzialmente realizzata. Ma così si perde la base per una critica adeguata del capitalismo. La totalità costituita attraverso la merce ed il lavoro astratto non dovrebbe essere superata, ma dovrebbe solo prendere coscienza di sé. Pochi dicono questo nella maniera esplicita in cui lo affermano Hardt e Negri, i quali vedono ormai emergere il comunismo dappertutto, coperto dal mantello sottile del capitalismo, ma questo, da parte loro, non è un capriccio individuale, ma piuttosto una conseguenza logica dell'approccio teorico che essi fondamentalmente condividono con tutto il nuovo discorso sulla classe.

22. Questo discorso pretende di situarsi al di là del marxismo tradizionale, in quanto rompe con l'idea di unità del soggetto ed al suo posto evoca in maniera permanente l'eterogeneità della presunta classe operaia. Però con questo, in effetti, ci si riferisce solamente alla rottura interna nella società produttrice di merci, la quale a causa delle sue contraddizioni interne si disintegra in innumerevoli soggetti particolare, in competizione fra loro. Se questa totalità frammentata si identifica con la "classe operaia" definita come soggetto collettivo essenzialmente anticapitalista, allora risulta quasi impossibile criticare le dinamiche regressive e distruttive scatenate dalla concorrenza generalizzata e gli effetti della crisi globale, e questo si manifesta sotto forma di violenza razzista e sessista, deliri antisemiti, etnicismi aggressivi o fondamentalismi religiosi. A partire dal punto di vista di classe, queste dinamiche non possono essere decifrate come una prassi inerente alla soggettività moderna, ossia, alla forma della soggettività propria di tutti gli individui membri della società capitalista, qualunque sia la loro posizione sociale. Nella misura in cui questa critica non concorda con il riferimento positivo al presunto soggetto di classe, tutto quello che perturba tale prospettiva viene trattato come una sorta di fattore esterno che in un maniera o nell'altra può frazionare quel soggetto, ma che non ha niente a che vedere con quello che viene in segreto supposto come "essenza della classe".
Pertanto, in ultima analisi rimarrebbe più o meno come una faccenda di gusto personale se movimenti etnicisti come il separatismo catalano o organizzazioni fondamentaliste come Hamas vengono incluse o meno nel grande consesso della lotta anticapitalista.

No more Making of the Working Class
23.
In contrasto con i tentativi di salvare la classe operaia per mezzo dell'estensione eccessiva delle sue determinazioni oggettive, si trovano coloro che argomentano fondamentalmente dal punto di vista soggettivo. Secondo quest'impostazione, la classe non si definisce a partire dalla sua posizione nel processo di produzione e valorizzazione, bensì a partire dal fatto che si costituisce costantemente e nuovamente attraverso variazioni permanenti che sono essenzialmente soggetti alla dinamica della lotta di classe. Tale prospettiva è molto più aperta, in quanto si concentra principalmente sui conflitti, sul carattere di processo e sulle possibilità di sviluppo soggettivo in essi contenute. Tuttavia, anche così si basa su un assioma aprioristico, il quale precede tutte le analisi specifiche e ne restringe la prospettiva: come qualcosa di autoevidente, la lotta di classe viene presupposta come un principio trans-storico valido, da cui a sua volta può essere derivata la classe. "Sempre già presente in tutte le relazioni sociali, la lotta di classe precede le classi storiche", scrive la redazione della rivista Fantômas nell'editoriale di un numero già qui citato (N°4, 2003, p.4). Ma quest'argomento diventa circolare. Sia il concetto di classe che quello di lotta di classe vengono definiti in maniera arbitraria. Secondo quest'approccio, tutti i conflitti sociali sarebbero suscettibili, in linea di principio, di essere dichiarati lotta di classe, e tutti coloro che lottano in qualsiasi forma essere dichiarati soggetti di classe, senza che venga reso chiaro quali sono i criteri per distinguere fra i diversi tipi di lotta e di soggettività.
In questo modo, il paradigma soggettivista della classe perviene, in linea di principio, a risultati uguali a quelli della sua controparte oggettivista. Poiché dal momento che ovviamente hanno luogo lotte di ogni tipo in ogni momento in qualche parte del mondo, secondo questa prospettiva esiste una dinamica permanente di "lotta di classe" e, pertanto, di "formazione di classe". Il concetto applicato è talmente ampio che in una maniera o nell'altra può sempre essere suppostamente verificato. Ma tale "verifica empirica" è sempre determinata dall'assioma che la precede. Il risultato è noto in anticipo: l'insieme sociale non è altro che un insieme di lotte di classe. Non sorprende allora che i vecchi avversari teorici, "oggettivisti" e "soggettivisti", vadano sempre più riconciliandosi e coesistano in pace (come, ad esempio nel numero di Fantômas). Infatti, quando si perde ogni precisione concettuale, e la "classe" può essere questo o quello e si trova sempre dappertutto, le vecchie differenze teoriche non svolgono più alcun ruolo significativo.

24. Fondamentalmente il problema consiste nel fatto che qui il concetto di lotta di classe è slegato dal suo contesto storico specifico, nel quale aveva senso: le lotte del movimento operaio nel 19° e nel 20° secolo. Con tale decontestualizzazione viene a mancare non solo il vigore concettuale ma, insieme ad esso, anche la capacità di differenziare fra lotte anticapitaliste ed emancipatorie in un senso più ampio, da un lato, e conflitti che corrispondono piuttosto a quello che Hobbes ha chiamato la "guerra di tutti contro tutti". Questo, ancora una volta, è evidente specialmente in Hardt e Negri, i quali glorificano la lotta quotidiana per l'esistenza individuale come una forma di espressione della lotta di classe e mancano di qualsiasi criterio per distinguere la violenza puramente regressiva, la concorrenza generalizzata ed i movimenti fondamentalisti. Il concetto della "lotta di classe" diventa così una formula astratta e, in ultima analisi affermativa, che comprende sia lo stato di guerra permanente della società capitalistica e la sua disintegrazione provocata dalla crisi globale, che gli sforzi per opporvisi.
Naturalmente, molti rappresentanti della prospettiva soggettivista della classe, nella loro analisi empirica, cercano di distinguere fra diversi tipi di lotta; tuttavia questi sforzi fluttuano nell'aria dacché non coincidono con la base teorica in sé. Il paradigma decontestualizzato della lotta di classe non fornisce alcun strumento concettuale per poter attuare queste distinzioni. Perciò per salvare quel paradigma devono ricorrere ad ogni genere di argomenti addizionali, provenienti da altri contesti teorici, come ad esempio teorie postmoderne. Ciò spiega il carattere del tutto eclettico soprattutto dei concetti post-operaisti, ma dimostra anche quanto ben poco possono contribuire a chiarire le dinamiche sociali scatenate dalla crisi globale del sistema produttore di merci.

25. Uno dei testimoni chiave della teoria soggettivista di classe è lo storico inglese E.P. Thompson, il quale ha sempre enfatizzato l'aspetto attivo nell'origine della classe operaia. Nel prologo al suo studio storico più importante, che originalmente aveva il titolo di "The Making of the English Working Class" ("La formazione della classe operaia in Inghilterra"), scrive: " Formazione in quanto è lo studio di un processo attivo, dovuto tanto all'azione quanto al condizionamento. La classe operaia non sorse come il sole, ad un'ora determinata. Era presente alla sua propria formazione". Ma di certo l'analisi di Thompson si riferisce a processi che sono inquadrati in una situazione storica assai specifica: lo sviluppo della società capitalista in Inghilterra fra l'ultimo terzo del 18° secolo ed il primo terzo del 19° secolo. E' ovvio che quella situazione differisse in maniera fondamentale dalla situazione attuale. Si trovava caratterizzata da una dinamica di emarginazione e distruzione delle condizioni di vita e lavoro relativamente eterogenee pre e proto-capitaliste. Questo si verificò sotto la pressione unificatrice sempre maggiore delle forme di produzione e di vita capitalistica; ciò diede luogo alla generazione di massa di "lavoratori doppiamente liberi", obbligati a vendere la loro forza lavoro se volevano sopravvivere. Nella sua ricerca, Thompson si è concentrato sulle rivolte e sulle lotte difensive, provocate da questo processo, ed ha mostrato come, a partire da esse (ed anche a partire dall'esperienza delle sconfitte), abbia potuto cominciare a formarsi una sorta di coscienza di classe.

26. E' stato, senza alcun dubbio, un contributo molto importante quello di evidenziare questi processi soggettivi trascurati dal marxismo ortodosso. Tanto più per il fatto di evitare di trarre conclusioni a partire dalle conoscenze acquisite da Thompson nel proprio contesto storico, in quanto la solo cosa che si ottiene in questo modo sono delle astrazioni astoriche che hanno alcun senso. Anche se la costituzione di una coscienza di classe non è sorta in maniera automatica dal processo di valorizzazione del capitale che arrivò ad imporsi, tuttavia questo processo segna il contesto oggettivo di tale costituzione. Fu la subordinazione di tutte le relazioni sociali al principio universalista del lavoro astratto e della produzione di merci che provocò quelle lotte sociali, le quali contribuirono alla formazione della classe operaia come soggetto collettivo, a difesa dei propri interessi, per un periodo storico durato più o meno 150 anni. I momenti oggettivi e soggettivi di tale costituzione di classe si intrecciano strettamente con le influenze reciproche. E' Thompson stesso a segnalare: "L'esperienza di classe è in gran parte determinata dalle relazioni di produzione dentro le quali nei quali si nasce - o in cui si entra contro la propria volontà. La coscienza di classe è la forma secondo la quale quest'esperienza viene interpretata e mediata culturalmente: è incarnata nelle tradizioni, sistemi di valori, idee e forme istituzionali. L'esperienza di classe è determinata, in contrasto con la coscienza di classe".

27. Se applichiamo quest'affermazione alla situazione attuale, la prima cosa che richiama l'attenzione è il fatto che il quadro oggettivo dentro il quale hanno luogo le esperienze ed i conflitti sociali è fondamentalmente differente rispetto al contesto storico analizzato da Thompson. Oggi non ci troviamo in una situazione in cui il modo di produzione e di vita capitalistica ha appena cominciato ad imporsi violentemente nella società, distruggendo tutto un tessuto eterogeneo di forme di vita tradizionali, rette da norme del tutto diverse (Thompson parla della "economia morale"). Piuttosto: il sistema produttore di merci si è generalizzato nel mondo ed ha sottomesso tutte le relazioni sociali sotto i suoi principi universali; ma allo stesso tempo è subentrato un processo di crisi globale, una crisi che non è solo di carattere economico, ma che mina anche le basi della società fondata sulla valorizzazione del capitale ed innesca un'enorme dinamica di disintegrazione sociale.
Questa tendenza è esattamente l'opposto dei processi che nel 19° secolo portarono alla formazione della società capitalista. La crescente precarizzazione delle condizioni di lavoro e di vita non indica l'esistenza di un esercito industriale di riserva che in un futuro verrà integrato nella produzione di massa in funzione dell'accumulazione di capitale; al contrario, in essa si riflette il fatto che sempre più persone in tutto il mondo diventano superflue per la produzione del valore e pertanto vengono escluse in senso economico, sociale e politico. Pertanto non ci troviamo di fronte alla ricostituzione di una nuova classe operaia globale, bensì davanti alla crescente decomposizione di una società basata sul lavoro astratto. Quello che si sta imponendo non è una forma sociale universale a fronte di una pluralità di modi di vita precapitalista; ma piuttosto questa forma universale si disintegra attraverso una molteplicità di conflitti e di scontri assai spesso violenti e fa sì che gli individui atomizzati perdano ogni base solida sotto i piedi. Questa tendenza è universale solo nel senso per cui equivale ad un generale declassamento; ma questo è di per sé un processo meramente negativo che non genera una nuova sintesi sociale di lotte solidali.

28. I movimenti sociali del prima metà del 19° secolo in Inghilterra analizzati da Thompson sorsero a partire dall'esperienza dell'essersi confrontati con l'emarginazione delle condizioni di vita non capitaliste e proto-capitaliste, incompatibili con il modo di produzione del capitalismo industriale. A fronte di quest'esperienza collettiva e davanti alla tremenda imposizione del lavoro in fabbrica, si svilupparono forme di solidarietà pratica e modelli culturali comuni, ed allo stesso tempo so costituì un'identità collettiva della classe operaia. Tuttavia, un simile processo non può più avere luogo, in quanto manca il centro gravitazionale necessario a focalizzare ed unificare le lotte eterogenee. Ma questa decentralizzazione del campo sociale non solo ha aperto la strada ad una pluralità di movimenti emancipatori al di là della questione del lavoro, come i movimenti femministi ed ecologisti, ma ha anche promosso la massiccia proliferazione di correnti settarie, fondamentaliste e reazionarie di ogni genere. Sono proprio queste correnti quelle che, a livello globale, hanno esercitato un'attrazione enorme, in quanto offrono non solo appoggio materiale alla loro clientela ma soprattutto anche un sostegno soggettivo agli individui esposti alla concorrenza totale, oppure emarginati come superflui dal capitalismo.
Ma tale sostegno non è per niente emancipatorio. Piuttosto riproduce e rafforza i momenti più regressivi e repressivi della soggettività moderna anziché superarla. Qui non sorge una nuova Working Class, bensì si formano collettivi sociali che offrono un modello dentro il quale gli individui vengono formattati, secondo le condizioni della società capitalista, affinché possano continuare a funzionare a livello precario, senza alcuna auto-riflessione critica.

29. Tuttavia, la frammentazione sociale causata dalla crisi capitalista non solo innesca i momenti regressivi della soggettività moderna, ma attiva anche una molteplicità di impulsi e di aspirazioni di emancipazione. Ma dal momento che questi hanno perduto il loro centro di gravità, costituito storicamente dalla lotta di classe, si trovano continuamente esposti al pericolo di riprodurre essi stessi le tendenze centrifughe del processo della crisi capitalistica. Si pone pertanto la sfida di riformulare una prospettiva di lotta anticapitalista globale, che sia capace di collegare tutte le diverse lotte di carattere emancipatorio senza false unificazioni né gerarchizzazioni. Una prospettiva comune deve senza dubbio essere quella di affrontare le tendenze alla disintegrazione sociale dovute alla crisi e ai movimenti e alle correnti regressive, che si generano a partire da questi processi. Ma questo collegamento non risulta a partire da determinazioni oggettive e soggettive presupposte (quali il punto di vista della classe, o della lotta di classe). Può emergere soltanto dalla cooperazione cosciente dei movimenti sociali che aspirano all'abolizione del dominio in tutte le sue manifestazioni, e non solo come una meta astratta e distante, ma anche dentro le loro stesse strutture e relazioni interne.

30. Ciò che può contribuire alla teoria critica ed all'analisi della crisi globale, è dare un nome ai possibili punti di partenza per poter realizzare tali collegamenti. Se possiamo imparare qualcosa dalla ricerca di Thompson, questa è l'importanza dell'esperienza pratica-concreta al fine di costituire i movimenti sociali. Perciò sono di speciale importanza tutti questi processi in cui ha luogo la resistenza alle imposizioni del capitalismo, sottraendosi ai tentativi gerarchici, populisti ed autoritari di integrazione, come le lotte rivendicative che aspirano a generare strutture auto-organizzate. Tali movimenti (come i zapatisti, la corrente autonoma dei piqueteros ed altri movimenti di base) ovviamente sono minoritari a livello mondiale e sono costantemente minacciati dall'emarginazione e dalla cooptazione. Tuttavia, seppur contraddittori sotto molti aspetti, in essi si trovano quei momenti embrionali che puntano alla prospettiva di una liberazione dalla totalità capitalista. Il futuro non appartiene alla lotta di classe, ma ad una lotta emancipatrice senza classi.

- Norbert Trenkle - 

Questo testo è la traduzione di un articolo pubblicato sul numero 30 della rivista Krisis, nel 2006          (www.krisis.org/2006/kampf-ohne-klassen). Per questa versione, destinata alla rivista Herramienta, quell'articolo è stato rivisto e parzialmente modificato dall'autore. Va sottolineato che il testo si riferisce al discorso marxista in Germania ed in Europa, dove il concetto di lotta di classe ha perso importanza per quasi vent'anni, per poi rinascere parzialmente nel primo decennio del nuovo secolo. Il testo si pone nei confronti di questa tendenza ed auspica una ridefinizione della critica anticapitalista che vada oltre quell'approccio tradizionale.

NOTE:

[*1] - Vedere Trenkle (2005). Parlo di una sorta di metafisica, in quanto il concetto di lotta di classe da sempre si fonda sulla costruzione teorica essenzialista (ed in un certo modo idealista) di una sostanziale unità di classe, anteposta ad ogni analisi empirica. L'espressione filosofica più elaborata di tale costruzione di trova nel famoso testo di Georg Lukàcs, "La reificazione e la coscienza del proletariato" (1922), dove inventa il concetto di "classe in sé" e di "classe per sé", al fine di spiegare perché non abbia avuto luogo la rivoluzione mondiale. Più avanti tornerò su questa critica. Per ora voglio sottolineare come Holloway o Hardt/Negri, sebbene sotto molti aspetti si siano staccati dal marxismo tradizionale e soprattutto dal marxismo ortodosso leninista, continuano a trascinare inconsciamente con loro quel concetto metafisico di classe.

[*2] - Rivista pubblicata ad Amburgo negli anni dal 2002 al 2008.

[*3] - Spiego più dettagliatamente quest'aspetto in un altro testo: "Il lavoro astratto è il principio centrale dell'organizzazione e del dominio della società capitalista. Lo affermiamo non solo per il fatto che la realizzazione del capitale dipende dall'applicazione della forza lavoro viva nel processo di produzione, ma anche per una ragione più fondamentale: il lavoro astratto costituisce e consente la sintesi della società capitalista. Dal momento che questa è, in sostanza, una società produttrice di merci e, pertanto, una società nella quale gli esseri umani stabiliscono le loro relazioni sociali attraverso la forma delle merci e del denaro. Però, dato che una merce, considerata sotto l'aspetto del valore di scambio non è altro che portatrice di valore - ossia di "lavoro morto" - la mediazione o la trasmissione sociale che viene conferita dalla merce è identica alla mediazione o trasmissione sociale che avviene per mezzo del lavoro astratto. L'espressione più diretta ed evidente di questo è l'obbligatorietà generalizzata a dover vendere la propria forza lavoro per poter sopravvivere. Pertanto uno deve convertire sé stesso in merce per avere accesso, attraverso l'acquisto di beni di consumo, alla ricchezza della società. La sintesi o la mediazione sociale attraverso le merci ed il lavoro è, in sostanza, mediazione cosificata. Ossia: le relazioni sociali (relazioni fra esseri umani) si stabiliscono per mezzo delle cose (merci) ed in tal maniera assumono una forma del tutto demenziale. In un certo senso, le cose comunicano dall'alto come devono vivere gli esseri umani. Detto in altro modo: nella società capitalista, i prodotti del lavoro umano acquisiscono vita propria e si presentano alle persone come configurazione di costrizioni apparentemente aliene. Per un simile stato di cose, Marx coniò l'espressione di feticismo della merce (Trenkle, 2007, p. 1). Si veda anche a tal proposito Postone (2003, soprattutto p. 229-245).

[*4] - Si veda Trenkle, 2005.

[*5] - L'abate Joseph Sieyés (1748-1836), alla vigilia della Rivoluzione francese, scrisse un opuscolo intitolato "Cos'è il Terzo Stato?", il quale ebbe una grande risonanza. Nelle sue prime righe, al fine di spiegarne il contenuto, si poteva leggere: "Il piano di questo scritto è abbastanza semplice. Dobbiamo porci tre domande: 1°) Cos'è il Terzo Stato? Tutto. 2°) Cos'è stato finora nell'ordine politico? Niente. 3°) Cosa chiede? Arrivare ad essere qualcosa".

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

1 commento:

Vitalij ha detto...

Per fare la lotta di classe bisogna incontrarsi di persona ed essere seri sulla questione. Bisogna anche abbandonare termini come classe operaia, che non hanno più senso. Anche i partiti politici che fingono di fare lotta di classe ma non la fanno, devono essere smascherati.