domenica 24 gennaio 2016

Pausa Pranzo

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               C’era una volta la Mensa

                                         - di Marco Belpoliti -

Sta consumando il pasto seduto per terra, lo sguardo chino sul piatto, il filone di pane appoggiato di fianco su un ripiano di legno. La foto scattata da Odoardo Fontanella è degli Anni Cinquanta e ritrae il pranzo di mezzogiorno di un operaio, o più facilmente un muratore (la tuta è sporca di bianco, forse calcina). Con questa immagine si apre Pausa pranzo. Cibo e lavoro nelle fabbriche, il libro che illustra una recente mostra a Sesto San Giovanni, curata da Giorgio Bigatti e Sara Zanisi e organizzata dall’Isec, Istituto per lo studio della storia contemporanea. In una serie di scatti provenienti da vari archivi aziendali è raccontata la storia delle mense italiane. Ci sono immagini della mensa operaia della Breda tra gli Anni Venti e Trenta, la prima azienda ad aver realizzato un servizio del genere, ma anche istantanee dei tavoli su cui i lavoratori consumano il loro pasto a Dalmine negli Anni Quaranta: spezzatino, pane e bottiglia di vino.

L’istituzione del refettorio – questo il nome iniziale di origine monastica, indica il luogo in cui ci si «ristora» – è piuttosto recente. Sono i primi decenni del Novecento quando l’aumento dei ritmi lavorativi, subito dopo la Prima guerra mondiale che ha portato alla «mobilitazione totale» dell’industria, produce la riduzione progressiva della sosta del pranzo a mezzogiorno. Si razionalizzano le consuetudini alimentari d’origine contadina che comprendevano soste più lunghe a seconda delle stagioni o del lavoro all’aperto. Il sistema americano sperimentato nelle fabbriche della Ford viene esportato nella vecchia Europa; i ritmi tayloristici impongono un lunch breve e semplificato rispetto all’alimentazione contadina fondata sulle minestre e le verdure.

In Italia per ancora un paio di decenni, o forse più, l’operaio delle grandi fabbriche sarà l’erede degli usi della società tradizionale, dove le pause per nutrirsi e il riposo dopo il pasto erano consueti e necessari. Nel regime alimentare americano domina invece una robusta colazione mattutina che supplisce al pasto di mezzodì più rapido e meno impegnativo. Ma prima di arrivare alle mense, documentate nel piccolo catalogo da straordinarie foto d’epoca, c’è la gamella, di memoria militare o, come si chiama in Lombardia, la schiscêtta: contenitore metallico dove il cibo preparato a casa dalle donne è «schiacciato». In un’altra foto si vedono gli operai di un’azienda di Treviso in lotta per ottenere la mensa, che nel 1977 mangiano su un tavolo all’aperto con gamelle, bottiglioni di vino, Coca-Cola e tovaglie.

Dal pane ai precotti

Il pane è l’alimento più presente, sino al giro di boa degli Anni Ottanta, in una continuità alimentare che Piero Camporesi ha descritto in La terra e la luna (Garzanti). Secondo lo studioso romagnolo lo stesso self service deriverebbe dalla fabbrica, e dalla invenzione delle mense aziendali, almeno in Italia. Nascono allora i cibi precotti figli della struttura industriale: riscaldati, refrigerati o surgelati. Appaiono negli Anni Settanta le vaschette di plastica e alluminio, confezioni di polistirolo, contro cui si scaglia Camporesi, che portano alla scomparsa del paese del pane e del vino, l’Italia divisa tra polenta e spaghetti, a favore invece di una cucina della «leggerezza» che ha nelle mozzarelle confezionate nella plastica il suo tripudio.

La maggior parte delle immagini del libro riguardano il periodo precedente, quando ancora l’Italia è il «paese della fame», per dirla con lo studioso romagnolo, uscito da una guerra disastrosa e deciso a guadagnare rapidamente il progresso delle altre nazioni europee. La grande trasformazione alle porte è documentata nell’immagine del refettorio Fiat a Mirafiori e dallo stabilimento Pirelli-Bicocca, con l’interno della modernissima mensa progettata da Giulio Minoletti nel 1957, purtroppo demolita per far posto a una nuova struttura postmoderna, la stecca di Vittorio Gregotti, entro cui si muove oggi la popolazione studentesca della Università, erede non solo virtuale di quei ritmi di vita e di alimentazione: l’epoca del panino.

Fine del pasto in comune

Un altro scatto ritrae la mensa degli impiegati, sempre al Lingotto, nel 1927, con tovaglie, posate, piatti, saliere e oliere, sopra tavoli lunghissimi e ben allineati che coprono l’intera superficie del capannone. La divisione tra colletti bianchi e colletti blu, tra impiegati e operai, è netta. Andrà smarrendosi man mano che si entra negli Anni Ottanta, quando i processi di deindustrializzazione modificheranno anche le mense operaie con l’introduzione dei coupon che verranno spesi in tavole calde, tavole fredde, piccoli ristoranti e bar nei pressi dell’azienda.

L’Italia si fonda sul terziario avanzato e il popolo delle mezze maniche domina nelle fabbriche sopravvissute. Sarà allora la volta di un nuovo elettrodomestico che modellerà di sé i pasti dei lavoratori scampati alla delocalizzazione e alle trasformazioni tecnologiche degli Anni Novanta e Duemila: il forno a microonde. Inventato alla fine degli Anni Quaranta negli Stati Uniti, verrà introdotto in Italia tardi, e il passaggio dal pasto comune al pasto solitario davanti al microonde segnerà di sé la nuova epoca. L’età del nascente narcisismo di massa descritto da Christopher Lasch è definita da questo nuovo strumento. Ciascuno è solo davanti al forno a microonde, ed è subito sera.

- Marco BelpolitiPubblicato su La Stampa dell’8 dicembre 2015 -

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