sabato 9 dicembre 2023

Come si diventava poeti …

La poesia dei trovatori occitani può essere letta secondo molte prospettive. Una di queste è quella sociologica, che fu impiegata, attorno alla metà del secolo scorso, dal grande romanista Erich Köhler per istituire una relazione tra le ragioni della fin’amor trobadorica e la conformazione della sua struttura ideologica. L’idea che sta alla base di questo studio è invece orientata a rideterminare il peso della struttura sociale entro la quale agiscono i poeti e i loro mecenati, indagando i diversi aspetti della società dei trovatori, intesi anzitutto come un gruppo sociale che si articola al suo interno mediante strutture reticolari. Nella convinzione che l’elemento socioculturale sia fondamentale per definire un fenomeno letterario nella sua interezza, le indagini qui proposte offrono un panorama rinnovato, fondato prima di tutto sull’analisi testuale e sulla considerazione del contesto storico, sociale e culturale in cui è pensabile la figura del trovatore.

(dal risvolto di copertina di: Simone Marcenaro. "La società dei poeti. Per una nuova sociologia dei trovatori". Mimesis, pagg. 272, € 26)

Sociologia dei Trovatori
- Un saggio denso e intelligente di Simone Marcenaro, critica e rivede le tesi di Erich Köhler, che suggeriva di leggere la lirica trobadorica come riflesso di una tensione di classe -
di Lorenzo Tomasin

Perché e per chi si scrive poesia? Spesso, nella storia, è perché si sono letti altri poeti e si intende farsi leggere da altri poeti. Perché, insomma, si fa (o ci si sente) parte di un gruppo: una società di poeti. L’idea, tipicamente moderna, per cui la poesia sarebbe un prodotto radicalmente individuale ha qualche fondamento, ma non può far dimenticare che la scrittura in versi è stata (e ancora è, almeno in parte) anche funzione di un gioco sociale. Perciò la si può leggere anche sociologicamente, come tutte le interazioni collettive della nostra specie. Prendiamo la poesia dei trovatori, antenata di tutte le forme di poesia lirica fiorite nell’Europa occidentale dal tardo medioevo in poi.
I trovatori, modelli di tutti i poeti moderni delle nostre tradizioni nazionali, vissero perlopiù in Provenza nel dodicesimo e tredicesimo secolo. È un gruppo di circa cinquecento autori, e qualche autrice, cui si possono ricondurre alcune migliaia di componimenti, che trattano perlopiù d’amore (ma anche di fede guerra politica e poco altro) e sono scritti in provenzale (lingua con numerose varianti locali che ai provenzalisti non piace chiamare koiné, sebbene nei canzonieri tenda a diventare di fatto una lingua scritta comune a tutto il gruppo). L’amor cortese, ossia la fin’amor, prevede un codice piuttosto definito, seppur con varianti, di comportamenti della donna e dell’uomo (tra i quali intercorrono legami di norma extra-matrimoniali), l’uso di una terminologia convenzionale relativa a valori positivi e negativi, la possibilità di trattare di alcune situazioni, e la necessità di inquadrarle in una cornice culturale altamente codificata, cioè quella delle corti signorili fiorite nella Francia meridionale dell’epoca. Fondamentale, ad esempio, è l’evocazione del contesto naturale, che nelle poesie dei trovatori è quasi ubiquo, nonché il legame con la musica – per cui tutta l’impalcatura poetica fa riferimento al canto e alle sue modalità.

A metà del secolo scorso, la critica letteraria di orientamento marxista si è interessata a fondo ai meccanismi sociali retrostanti alla poesia trobadorica. In particolare, lo studioso tedesco Erich Köhler propose di leggere il complesso di quella produzione come riflesso letterariamente elaborato di una tensione sociale di classe che opponeva la schiera dei poveri cavalieri senza feudo gravitanti attorno alle corti, ai grandi nobili dotati di tutti i privilegi della loro classe. Dietro alla dottrina dell’amor cortese, insomma, starebbe un modello sociale antagonistico rispetto a quello della classe dominante: una tensione tipicamente economico-sociale. Simili teorie, in voga anche in Italia dalla metà degli anni Settanta, hanno avuto il merito di rinfocolare l’interesse per la realtà storica presupposta da una produzione – quella trobadorica – che spesso sembra così lontana da ogni tensione socio-politica. Ma era inevitabile che prima o poi esse mostrassero il proprio limite nell’impossibilità di applicarsi in blocco e quasi automaticamente al complesso della poesia in lingua d’oc, fenomeno certamente troppo vario, socialmente stratificato e duraturo per poter essere ridotto a una simile matrice. Che essa in fondo non funzioni del tutto nemmeno per i singoli poeti sui quali Köhler l’aveva più convintamente applicata, è ora suggerito da un libro denso e intelligente, consigliabile anche a chi non s’interessi alla lirica provenzale.

Il filologo romanzo Simone Marcenaro si muove qui su più fronti. Dapprima, smonta con pacata perizia le teorie köhleriane sui trovatori documentando puntualmente la varietà piuttosto ampia di situazioni e di contesti socio-economici in cui essi scrivono: spesso, certo, si tratta di piccoli cavalieri, ma altrettanto spesso anche di aristocratici d’alto livello o addirittura di personaggi d’altra estrazione, per cui descriverli in blocco come una classe sociale non è convincente. Ciò non toglie, secondo Marcenaro, che quello dei poeti provenzali si configuri come un gruppo sociale (interclassista) di cui è utile chiedersi che cosa lo individui e ne assicuri la tenuta lungo almeno due secoli. Alcune teorie sociologiche elaborate soprattutto in ambiente anglosassone negli ultimi decenni per lo studio delle reti sociali vengono dunque applicate – cum grano salis – alla descrizione di un reticolo di persone legate da rapporti sociali sia tra loro, sia con i loro interlocutori, lettori, patroni e rivali. È una rete, insomma, di cui secondo Marcenaro la sociologia duemillesca potrebbe parlare meglio dell’ideologia novecentesca.  Qualche perplessità questa nuova sociologia la suscita, soprattutto per via delle scarsissime informazioni disponibili sulla realtà sociale delle corti provenzali. Ma l’autore se ne mostra consapevole, cosicché la parte forse migliore del suo lavoro, l’ultima, consiste nel paziente tentativo di ricostruzione dei fili di questa rete, ossia di luoghi precisi e modi concreti in cui si dovette svolgere, in scuole fondate all’ombra delle cattedrali del Midi, la formazione linguistica e letteraria dei trovatori. La ricerca sociologica, sguinzagliata tra indizi sulle biblioteche manoscritte e laconiche notizie su libri posseduti e glossati, diventa così un’istruttoria di storia culturale. E aggiunge più di qualche solido tassello a ciò che vorremmo sapere su come nel millecento si poteva diventare poeti in provenzale.

. Lorenzo Tomasin - Pubbliccato su Domenica del 30/7/2023 -

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