lunedì 18 dicembre 2023

La classe di Marx …

Sull'ambiguità del concetto di proletariato in Marx
- di Maurilio Lima Botelho -

In Marx, il concetto di proletariato - così come quello di lavoro - non è solamente ambiguo, ma è anche contraddittorio. Appare chiaro come, in giovinezza, nel corso delle sue riflessioni puramente filosofiche, Marx abbia "trovato" il carattere rivoluzionario del proletariato, facendo uso di un ragionamento che - a partire da delle contrapposizioni. e in base a "determinazioni riflessive" - arrivava alla formula a proposito dei proletari, che «non hanno nulla da perdere, se non le loro catene. E che hanno tutto un mondo da guadagnare» (Manifesto del Partito Comunista), vale a dire, riguardo un gruppo sociale che non ha alcuna particolarità, e che pertanto, di conseguenza, punta all'universalità...

Consapevole del fatto che ciò non sarebbe bastato, al fine di dare consistenza sociologica e contenuto storico a tali affermazioni, Marx si rivolgerà all'economia. Ma il fare questo, lo avrebbe gradualmente portato ad abbandonare la relazione diretta esistente tra la vendita di forza-lavoro (il proletariato, in senso generale) e il carattere rivoluzionario (del proletariato, politicamente organizzato e visto come soggetto della storia). La nuda vita, la condizione assoluta per cui non si possiede nient'altro che la propria forza-lavoro, smette pian piano di essere un criterio rivoluzionario, sebbene Marx, in diversi passaggi, senza però metterlo in evidenza, continui a fare riferimento al carattere rivoluzionario del proletariato. Tuttavia, nel corso di quella che sarà l'elaborazione della sua "critica dell'economia politica" - vista nel suo complesso - ci sono in effetti dei momenti in cui Marx ribadisce il carattere rivoluzionario del proletariato («cresce la massa della miseria, dell’alienazione, dell’oppressione, della schiavitù, della degradazione umana e dello sfruttamento, ma cresce anche la resistenza della classe operaia, sempre più numerosa e sempre più istruita, unita e organizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzione capitalistico»; in Marx, Il Capitale, Libro I, p. 1042), così come ci sono altri momenti, in cui invece sottolinea il dominio del capitale («con il progresso della produzione capitalistica si forma, si sviluppa una classe operaia che – per educazione, tradizione e abitudine – si convince e riconosce come leggi naturali e indiscutibili le esigenze di quel modo di produzione, {e quindi lo subisce tanto spontaneamente quanto i cambiamenti di stagione}. L’organizzazione del processo di produzione capitalistico, appena ha acquistato una certa stabilità, infrange tutte le antiche catene. Ogni resistenza è inutile. La costante presenza di una sovrappopolazione relativa mantiene la legge dell’offerta e della domanda di lavoro, e quindi il salario lavorativo, entro i confini rispondenti ai bisogni di valorizzazione del Capitale, e la silenziosa coazione appone ai rapporti economici il suggello di comando, di dominio, di dispotismo del capitalista sull’operaio. [...] Nel corso ordinario delle cose, il lavoratore può rimanere affidato alle "leggi di natura della produzione", ovvero alla dipendenza dal Capitale, generata, garantita e perpetuata dallo stesso meccanismo [impersonale] di produzione.» (Marx, Il Capitale, Libro I, op. cit., p.1006).

Ma qui, il Marx della "maturità" - malgrado queste contraddizioni nelle quali, ogni qual volta viene sistematicamente affermato il carattere rivoluzionario del proletariato, si vede che egli fa riferimento non tanto al proletariato in generale (visto come venditore di forza-lavoro), quanto piuttosto all'operaio di fabbrica, immediatamente legato al processo di produzione. Detto in altri termini, è l'organizzazione del processo di produzione, la coesione del gruppo nelle condizioni della fabbrica, il raggruppamento, lo scambio di esperienze, il riunirsi in dei luoghi a creare delle occasioni che diventano altrettante scintille per la rivolta; è tutto questo, ciò che conferisce e assegna un carattere rivoluzionario, a una parte del proletariato. E così avviene anche che i lavoratori improduttivi, quelli che vivono grazie al plusvalore altrui, talvolta vengono addirittura definiti come dei «parassiti»; ragion per cui vi troviamo degli accenti quasi "antisemiti" (e questo, in Engels è ancora più vero).

In ogni caso, è ben chiaro, a chiunque legga le critiche di Marx all'economia, che a essere rivoluzionario è il proletariato urbano e di fabbrica: «La dispersione dei lavoratori dei campi su vaste superfici spezza la loro forza di resistenza, mentre la concentrazione in città esalta la forza di resistenza dei lavoratori urbani» (Il Capitale, Libro I, op. cit., p. 690). Qui, Marx parla del proletariato agricolo («industrializzazione dell'agricoltura») ponendolo in contrapposizione al proletariato urbano rivoluzionario. Resta da chiedersi se stia parlando di una «rivoluzione urbana» (come avviene in quei capitoli de "L'ideologia tedesca" che nessuno legge: « Un movimento comunista, in genere, non può mai muovere dalla campagna, ma sempre e soltanto dalla città »). E c’è da dire che quest'approccio piacque così tanto a Henri Lefebvre, al punto di scriverci un libro in cui sosteneva che in diversi parti dell'opera di Marx, è la città il vero «soggetto della storia» (H. Lefebvre, "Il marxismo e la città").

Ma esiste inoltre anche una certa ambiguità a proposito del fatto che l'operaio rivoluzionario corrisponderebbe soltanto al proletariato di fabbrica, ovvero all'operaio produttivo in generale. A volte Marx definisce il lavoro salariato come se fosse solo «lavoro libero che viene scambiato con il capitale, lavoro il quale si trasforma in capitale, e valorizza il capitale» (Karl Marx, "Capitale e tecnologia. Manoscritti 1861-1863"); vale a dire, che ciò che conta è il carattere formale-sostanziale della produzione di valore. Mentre, altre volte, invece, l'operaio è colui che partecipa «al processo stesso di produzione materiale» (Ivi); cioè, sembra che a contare sia la produzione materiale.

Per cui, è a partire da questo che si pone la questione della condizione della rivoluzione: vale a dire, se essa dipenda dalla situazione centrale dello sfruttamento nel contesto di questa forma sociale (lo sfruttamento del plusvalore), oppure se dipenda invece da una condizione materiale di assemblaggio, da uno scambio immediato di esperienze e di organizzazione collettiva dei lavoratori (la fabbrica). Alla fine, però, tutto ciò poco importa, dal momento che Marx ritiene la proletarizzazione generalizzata della società come una tendenza inevitabile nello sviluppo e nella crescita delle attività nella fabbrica. Del resto, è chiaro come  il dibattito non si sposti mai su un piano "morale", o sullo "sfruttamento fisico" che riguardi le condizioni degradanti del lavoratore (sebbene il degrado appaia come il risultato di queste condizioni che vengono determinate dalla forma sociale). Per il fatto che una persona o un gruppo soffra, ciò non significa che possa essere per questo chiamato rivoluzionario; da qui il disprezzo di Marx per il sottoproletariato, per i contadini (alla fine della sua vita Marx cambia posizione, ma non sulla miccia rivoluzionaria, che continua a rimanere appannaggio dell'operaio): da qui anche quella che sarà sempre la sua posizione circa il limite e il fallimento delle rivoluzioni schiaviste del passato. Su questo argomento, si sono già espressi due diversi autori:

Ernest Mandel: «La storia ha dimostrato che non basta che una classe sociale non abbia più nulla da perdere e non disponga di proprietà privata perché sia capace di realizzare una rivoluzione sociale che abolisca ogni proprietà privata. Precisando più tardi la loro diagnosi, Marx ed Engels hanno attribuito al proletariato il ruolo chiave nell'avvento del socialismo non tanto a causa della miseria che subisce quanto in funzione del posto che occupa nel processo produttivo e della capacità che perciò stesso possiede d'acquisire una capacità di organizzazione e una coesione nell'azione senza comune misura con tutte le classi oppresse del passato» (da: Ernest Mandel, "La formazione del pensiero economico di Karl Marx. Dal 1843 alla redazione del Capitale”, Editori Laterza 1970, pag. 23).

Anselm Jappe: «Per Marx, il proletariato è la classe rivoluzionaria, non perché è quella che ha maggiore motivo di insoddisfazione, ma perché il suo posto nel processo di produzione, la sua compattezza e la sua massiccia concentrazione in pochi luoghi gli danno anche i mezzi per rovesciare l'ordine esistente» (Anselm Jappe, "Guy Debord". Il manifesto 1999, p. 40).

Ma ad ogni modo, tralasciando se Marx avesse o meno ragione sul carattere rivoluzionario che in passato avrebbe avuto il proletariato urbano o di fabbrica, e se esso fosse, in termini di plusvalore, produttivo o meno, ecc., va comunque detto che tutte queste considerazioni sono oramai storicamente superate, e questo a causa della simultanea scomparsa, da parte della capacità industriale, di assorbire forza lavoro su larga scala. Inoltre, anche senza parlare della grande esclusione che rende superflua una grandissima parte di forza lavoro, sena affrontare il problema della disoccupazione e quello dell'informalità (crisi del lavoro salariato), rimane il fatto che la grande massa di coloro i quali ancora vendono la propria forza-lavoro non ha più alcun legame diretto con il processo produttivo immediato. In questo, Marx rimane legato al proprio tempo e alla sua «società industriale» (che viene qui definita come un mezzo di integrazione sociale, e non come una condizione produttiva, dal momento che oggi tutto è ormai industrializzato). Ma a far emergere la contraddizione interna del capitale, è stato proprio Marx , parlando della sua autodissoluzione, mostrando proprio il perché, e il modo in cui il capitale si riproduce solo per mezzo dello sfruttamento del plusvalore, e lo fa proprio mentre, a livello di sistema, agisce simultaneamente abolendo le condizioni pe cui si possa continuare a produrre valore. Ed è questo oggi il Marx che, nel XXI secolo continua a essere più attuale e necessario che mai.

- Maurilio Lima Botelho - Pubblicato il 17/12/2023 -

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

Nessun commento: