Un ragazzo e una ragazza scappano sui tetti della Londra elisabettiana. È il 1601, Shay è un'addestratrice di falconi e sacerdotessa di un antico culto degli uccelli, Nonesuch è un attore adolescente, stella oscura dei Blackfriars Boys, compagnia teatrale di giovanissimi interpreti noti in tutta Londra per le loro incredibili performance. È un incontro destinale tra due outsider che non sapevano di cercarsi a vicenda: il loro rapporto si consuma in fuga lungo le vie buie della città, nelle case vuote dei nobili, sul palcoscenico, mentre con gli altri mettono su il Teatro fantasma, che appare e scompare nei luoghi più nascosti grazie all'aiuto dei trucchi dell'occultista John Dee. Presto la loro fama cresce: perfino la regina Elisabetta viene a conoscenza delle doti medianiche di Shay, che cantando vede nel futuro. E sarà proprio una profezia di Shay alla regina a innescare una catena di eventi che insanguinerà tutta l'Inghilterra fino all'assoluto e bruciante dramma finale. Intrecciando con sapienza realtà storica e dimensione immaginifica, Mat Osman dà vita a un romanzo magico e mozzafiato che mette in scena l'eterno scontro tra appartenenza e destino, passato e futuro, inganno e verità.
(dal risvolto di copertina di: MAT OSMAN, "Il teatro fantasma". Traduzione di Paola Olivetto e Mirko Zilahy. ATLANTIDE Pagine 400, €19,50)
Nel mondo l’eroe muore. In teatro no
- di Orazio Labbate -
Offre uno stile pimpante, visionario e pirotecnico Il teatro fantasma, romanzo fantastico, dallo sfondo storico, scritto da Mat Osman, bassista dell’iconica band britannica Suede. Attraverso la lingua esplosiva propone, infatti, una macedonia di immagini variopinte, di figure retoriche accese, di dettagli preziosi e scintillanti. È una specie di colorato tetris, il linguaggio. Non è pertanto rischioso avvicinare il romanzo di Osman — per quanto riguarda l’inventiva — al primo volume della Trilogia di Gormenghast, Tito di Gormenghast dell’inglese Mervyn Peake. I due autori non si limitano a navigare nel genere fantastico, decidono di alimentarlo secondo un massimalismo mai indigesto. Si riscontra, nel cuore del meccanismo fraseologico, un’abbuffata equilibrata tra pura orizzontalità narrativa e costanti azioni rocambolesche che si manifestano sulla pagina a suon di cortocircuiti sintattici. Questa mistione originale funziona come l’interfaccia di un videogioco di avventura punta e clicca (è possibile citare il pittoresco videogame The Secret of Monkey Island). Se nel caso videoludico trionfa, nella schermata principale, un inventario ricco di oggetti con cui interagire; nel caso del romanzo, ogni luogo è disseminato di cose e personalità sempre pronte all’interazione narrativa. In virtù dell’originalità che Il teatro fantasma imbastisce, c’è altresì un film a esso accostabile, Parnassus di Terry Gilliam. Pellicola e libro si servono in egual modo di una città dalle storie magiche, Londra, nonché della funzione simbolica, camaleontica, metafisica dello spettacolo teatrale, in grado di fungere da perno letterario, grazie a cui esistono i personaggi, come fossero burattini caduti all’improvviso dall’alto, pronti però a vivere.
Mat Osman costruisce la trama, difatti, attorno a un gruppo di giovani artisti, di una compagnia teatrale chiamata Blackfriars Boys. Siamo in una straripante Londra elisabettiana, il gruppo è noto, lo è soprattutto il suo leader carismatico Nonesuch, per le fantasmatiche performance — che si svolgono nella «vaghezza di un sogno» —, su un palcoscenico pantagruelico dagli addobbi stellari. I copioni non servono a molto durante l’attrazione poiché gli attori tutti paiono incarnare non solo la figura, l’opera, che intendono rappresentare, che recitano, ma anche una sorta di loro nuova identità. A queste folgoranti apparizioni artistiche improvvisate vuole unirsi, per pochi penny, una giovane addestratrice di falchi, Shay, colei che sostiene che «gli uccelli sono dèi». Vive a Birdland, vagabonda lungo il Tamigi con il padre, su un’imbarcazione stretta, il cui nome è Barcacigno, mentre il ricordo della madre scomparsa, Ava (anche lei dotata di veggenza), immalinconisce lei e il padre, Lonan, senza requie. «Shay adorava gli istanti che precedevano qualcosa. Lo stesso silenzio che era calato con il sipario al Blackfriars. Un centinaio di occhi erano rivolti al cielo quando apparve un unico uccello, un solitario segno di matita sopra un cielo di carta. Poi un altro paio, uno sgocciolio, quindi un fiume e infine un nubifragio di migliaia di volatili rese il cielo illeggibile: troppi da contare, persino da vedere; la miriade si bloccò e si contrasse. Il cielo ribollì finché, con una grazia che ancora le mozzava il fiato, gli uccelli divennero un’unica entità. Cos’erano? Prendevano la forma del fumo di candela o del volteggio delle stelle che illumina le notti limpide. Erano seta nera». È proprio la sua magica relazione con gli uccelli a permettere a Shay di poter leggere il futuro, attraverso le loro traiettorie, un dono che esercita in compagnia dello stesso Nonesuch, con il quale crea un legame professionale esotico e originale, mentre comincia a nascere un profondo sentimento d’amore. Entra, quindi, anche lei a far parte del Blackfriars Theatre. Tra esibizioni che sembrano crudeli sogni e incubi delicati (si inizia con un palcoscenico inondato di soppiatto di sangue e si finisce con l’apparizione di regine bambine dietro lo specchio), Shay prova terrore, amore, forza. Un pazzesco teatro di strada, dunque, fatto di meraviglioso orrore, frutto di semplici finzioni organizzate a regola d’arte e che paiono orchestrate da chissà quale disordinata divinità in terra. Ma può uno spettacolo così fuori dal comune andare bene a tutti o desta invidie, anche da parte della stessa regina? E ancora, può la magia sistemare discordie, conflitti tra il reame e gli artisti, oppure ci vuole l’amore per evitare una possibile tragedia? Meglio dare un nome nuovo a questa banda, per sfuggire e nascondersi dall’odio e dalla legge, il nome giusto è Ghost Theatre.
Mat Osman consegna un romanzo immaginifico che quasi imprime sulle pagine lo stesso ritmo vulcanico delle scenografie di Baz Luhrmann. Allo stesso modo del regista australiano, Osman passa da una pagina all’altra senza troppo badare alla rigidità della narrazione (a volte esagerando pur di far perdere la bussola narrativa). È come leggere il saggio di Neil MacGregor, Il mondo inquieto di Shakespeare, però romanzato, intriso di metafisica e immerso nel regno del fantastico. Seppure sia presente e chiara la trama nell’opera di Osman, colpisce, invece, come motore impazzito della storia, la funzione trasformativa di questo teatro assurdo che dà il titolo al libro. Camaleontico, in grado di generare amori, magie e fare splendere i reietti contro ogni forma di potere costituito, il teatro stesso è, infatti, il regno per antonomasia dove l’essere umano può essere finalmente il suo fantasma. Ciò accade senza troppo badare alla tristezza della realtà, alla figura da impersonare, a cosa indossare, a chi sfidare per rimanere sé stessi. Come dice Nonesuch alla sua amata «il fatto è, Shay, che il palcoscenico è il solo luogo dove tutto ha senso. Fuori di qui è arbitrario. Gli eroi muoiono e i buoni soffrono. Questo, è qui che abita la verità. Fuori tutto è morto, niente può respirare e niente può crescere. Le parole nascono morte. Ma qui...».
- Orazio Labbate - Pubblicato su La Lettura del 6/8/2023
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