Il volume racconta il Cantagiro nel suo decennio iniziale (1962-1972) nel quale l’industria discografica, forte di uno slancio che dai tempi del boom non si era ancora arrestato, seppe intercettare e proporre ai consumi giovanili le diverse tendenze musicali che questo show itinerante puntualmente registrava grazie agli specifici gironi. La risposta del pubblico fu straordinaria ed è, dunque, di grande interesse ragionare sulla ricaduta di questo concorso sulla mentalità e sui costumi, sul suo rapporto con la politica, sulle narrazioni che di esso vennero fatte dai grandi mezzi di comunicazione di massa. All’inizio dei Settanta, il Cantagiro subiva il mutamento di clima della società italiana: dopo due anni di relegazione nei teatri (edizioni 1973 e 1974), la manifestazione sarebbe stata interrotta per essere ripristinata verso la fine del decennio. La sua ripresa, però, avrebbe rivelato un evidente declino del suo impatto su un Paese dal profilo, anche musicalmente parlando, profondamente mutato.
(dal risvolto di copertina di: Paolo Carusi, Gioachino Lanotte: "Cantagiro! Storia e musica di un decennio fra tradizione e modernità (1962-1972)". Le Monnier, pagg. 187, €18)
Cantagiro, così l’Italia vide i cantanti da vicino
- di Roberto Balzani -
Nell’Italia del boom, dei dischi a 45 giri e della motorizzazione di massa incipiente, un impresario di successo, Ezio Radaelli, già organizzatore di Miss Italia e di alcune edizioni del Festival di Sanremo, ha l’idea di un “Giro d’Italia” dei cantanti. È l’estate del 1962, sta per nascere il primo centro-sinistra organico e anche la musica pop vive un altrettanto delicato passaggio. Questo il contesto in cui Paolo Carusi e Gioachino Lanotte situano Cantagiro! Storia e musica di un decennio fra tradizione e modernità (1962-1972), un saggio approfondito, ironico e brillante sulla manifestazione musicale che, facendola uscire dal chiuso delle sale, ha portato la canzone italiana «direttamente ai consumatori» (Radaelli).
Il Cantagiro fu il frutto di diverse novità. In primo luogo, la transizione dalla canzone al cantante. Il Festival degli albori prevedeva che alcuni interpreti proponessero brani diversi nella medesima competizione canora. Ancora nei primi anni Sessanta, una stessa canzone era declinata secondo il genere ritmico o melodico. Per esempio, Addio… addio, che vinse la competizione nel ’62, era stata intonata da Claudio Villa e da Domenico Modugno. La fruizione dei testi di successo avveniva attraverso la radio o le riproduzioni dal vivo che ne facevano gruppi musicali più o meno spontanei. L’industria discografica muoveva appena i primi passi. Radaelli si rese conto che il pubblico, in realtà, stava spostando l’attenzione sui “personaggi”, cioè i cantanti. L’identificazione fra volto e canzone, resa inossidabile dai dischi in vinile a basso costo, costituì quindi la principale intuizione – insieme alla centralità dello spettacolo itinerante, dedicato alla provincia italiana – che sancì il successo del Cantagiro. Non fu l’unica. La gara canora, articolata in modo piuttosto complicato per dar spazio a seniores e giovani, integrando i nuovi generi, prevedeva il voto del pubblico, che giocava schedine modellate su quelle del Totocalcio, uno straordinario simulatore di «procedure elettorali» (Lanaro). I luoghi delle esibizioni erano i più vari: campi sportivi, palazzetti dello sport, velodromi, autodromi, ma anche sale e teatri più consueti. Quanto alla geografia, infine, si andava da Imola a Macerata, da Siena a Perugia, da Chieti a Foggia (senza dimenticare le grandi città, ovviamente). Il Cantagiro accompagnò l’ascesa irresistibile del disco singolo, le cui vendite passarono dai 10,4 milioni di pezzi del 1958 ai 36,76 milioni del 1969. Nel frattempo, il mangiadischi avevano reso portatile l’ascolto (1966), trasferendolo negli ambienti più vari, dalle campagne alle spiagge. Un supporto duttile e “privato” affiancava così il più statico jukebox.
Radaelli avrebbe voluto esportare il modello in Europa, e riuscì perfino a realizzare una trasferta moscovita, nel luglio 1965, conclusasi in modo grottesco; ma, con l’emergere dei “complessi” e l’evolversi della musica beat, la formula, benché ancora sostenuta dal favore del pubblico, cominciò a dar segni di stanchezza. I protagonisti, da Celentano a Morandi, da Rita Pavone a Caterina Caselli, da Gino Paoli a Bobby Solo erano accolti da ovazioni al passaggio lungo la strada; e però altri fenomeni stavano nascendo – basti pensare a quello dei cantautori, collegato al successo del concept album, il long playing “monografico”, anticipato dai Beatles nel ’67 -, irriducibile allo schema del duello canoro estivo, svagato e semplificato. Come in altri ambiti della vita sociale, il Sessantotto, anche in questo, avrebbe prodotto una cesura: ma non tanto per la politicizzazione della canzone, o per l’aperta contestazione dei cantanti da parte di scioperanti e contestatori (alcuni episodi tuttavia si verificarono), quanto per la rapida moltiplicazione di altri filoni di successo: il rock d’avanguardia, lo sbarco dei gruppi internazionali, infine la discomusic e il punk. L’autosufficienza nazionale, sulla quale si era retta per buona parte dei primi due decenni repubblicani produzione e fruizione del pop nostrano, cedeva il passo alla globalizzazione dei gusti giovanili, sotto l’impulso della poderosa industria dell’intrattenimento americana.
E dire, scrive Carusi, che il PCI aveva cercato di valorizzare la “popolarità” del Cantagiro, proprio per quella «sensazione di regalare qualcosa senza trucchi, senza il diaframma del mezzo tecnico e meccanico»: il suo successo appariva «una specie di rito purificatore … per cui le illusioni e i fantasmi del divismo potevano ritornare ad essere qualcosa di concreto, uomini in carne ed ossa». Faticosamente emancipati da una cultura musicale al di fuori della contemporaneità, i comunisti avevano appena sfiorato quello che Umberto Eco aveva già individuato dal 1963 come un fenomeno di massa da analizzare “positivamente”: «Ai Festival dell’Unità si suonano i dischi di Rita Pavone; compiendo in tal modo un gesto automatico di antropologia culturale, si riconosce l’esistenza di un altro universo di valori». L’analisi si confermava brillante ed esatta: nell’anno simbolo della contestazione, il 1968, il disco più venduto, in Italia, era non a caso Azzurro di Celentano. Quasi il commiato da un decennio che, nell’immaginario collettivo, era già divenuto sinonimo di nostalgia.
- Roberto Balzani - Pubblicato su Domenica del 6/8/2023 -
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