Specchio della nazione, oggetti di culto civile e politico, arredo invisibile del paesaggio urbano, spine conficcate in gola alla città. I monumenti sono simboli sacri per alcuni ma vista insopportabile per altri. Le vicende delle loro origini sono dense di disaccordi, e spesso rivelano ciò che si agita nel ventre della storia più di quanto facciano gli atti di iconoclastia.
C’è accanimento ideologico nel modo in cui certi monumenti americani sono discussi, criticati, talvolta vandalizzati, spesso rimossi dalle stesse autorità pubbliche? Oppure sono proprio quei monumenti un tentativo di cancellare la storia, di celebrarne certi aspetti celandone altri? Raccontando la vicenda di alcuni monumenti in una società conflittuale quale è quella degli Stati Uniti, Arnaldo Testi affonda lo sguardo nel cuore magmatico del paese e della sua storia. A emergere è il ritratto di un’America immaginata e imperfetta e delle sue autorappresentazioni, delle polarizzazioni e dei compromessi che l’hanno percorsa, e delle tensioni che oggi l’attraversano. La storia è sempre fastidiosa, continua a tormentarci, a renderci felicemente difficile la vita anche quando viene scritta nella pietra e nel bronzo, e diventa memoria.
(dal risvolto di copertina di: Arnaldo Testi, "I fastidi della storia. Quale America raccontano i monumenti", il Mulino, pagg. 272, € 20)
Una monumentale storia degli USA
- Il saggio di Arnaldo Testi ragiona, con dovizia di esempi, su come le vicende e i cambi di prospettiva e sensibilità si riflettono nelle statue d’America -
di David Bidussa
«Fino a molto tardi, fino all’ultimo del Novecento, lo spazio monumentale americano è stato una fortezza maschile presidiata da “un’orda di maschi morti”» [p. 55].
Esordisce con queste parole Arnaldo Testi quando affronta il capitolo delle statue al femminile («Signore di libertà e madri di diritti», pagg. 55-91) nella storia pubblica americana. Si potrebbe osservare che non è vero e che a lungo, per chi veniva in nave la prima cosa che vedeva era la statua della libertà, una donna. Ma la donna della statua è l’oggetto, non il soggetto. All’inaugurazione parteciparono solo due donne, investe di «mogli di» e il diritto di voto alle donne non è all’ordine del giorno.
Quella statua a lungo rappresenta ciò che non c’è e che il potere non vuole né vedere, né riconoscere. È lo stesso destino di altre statue che rappresentano figure femminili. Forse il caso più eclatante è quello delle donne suffragiste raffigurate in un monumento che viene esposto nella Rotunda del Campidoglio a Washington il 15 febbraio 1921. Ci resta un giorno. Il giorno dopo viene rimossa e collocata nella Capitol Crypt, una specie di deposito di inutili statue assortite. Il monumento tornerà vedibile al pubblico solo nel 1997 in conseguenza di una battaglia condotta dal movimento femminista. Le statue, e la loro storia combattuta, sia per affermarsi che per essere ripensate, modificate, talvolta rimosse, dunque dicono e testimoniano dei conflitti culturali di una società.
I monumenti hanno una storia strana: nascono in gloria e poi si mantengono nel tempo, spesso in silenzio. Sono percepiti a lungo come parte del paesaggio come se fossero «senza storia». Poi, improvvisamente, diventano «insopportabili». La loro esistenza diviene «problematica» e nell’opinione pubblica, spesso come atto dirompente di una minoranza, emerge una sensazione di non poter coabitare con quella cosa. Improvvisamente quel monumento da luogo di memoria, o da ornamento di uno spazio, si trasforma in «oggetto di scandalo». Come tutti gli scandali l’unico modo per superare e riportare la quiete consiste nel dare luogo a un’azione volta a eliminare la traccia del peccato. La condizione al tempo presente della guerra ai monumenti sembra sintetizzabile in questo breve excursus.
La vicenda è molto più complicata, ci dimostra Arnaldo Testi in questo suo libro. Talvolta non necessariamente distruggendo, ma aggiungendo o costringendo storie diverse raffigurate nello spazio pubblico a «coabitare». Per esempio è quello che accade a Christopher Park, nel West Village di Manhattan. Da una parte la statua di Philip Sheridan generale della cavalleria unionista (quello che molti riconoscono come il padre della frase «L’unico indiano buono è l’indiano morto») dall’altra il Gay Liberation Monument dell’artista George Segal. Non è la regola, ma rappresenta un percorso alternativo che nella lunga storia degli Stati Uniti ha spesso dinamiche diverse, sin dagli inizi. 9 Luglio 1776. La statua di Giorgio III, re d’Inghilterra, è buttata giù dalla folla che festeggia la nascita degli Stati Uniti. La pubblicazione della «Dichiarazione di indipendenza» ha solo cinque giorni di vita e l’atto iniziale è la distruzione dei segni del passato, comunque l’annichilimento dei luoghi del nemico.
Quelle diverse storie, già a partire dalla metà dell’Ottocento e soprattutto all’indomani della guerra civile (1860-1865) dicono che il problema non è mai una logica dell’ossessione di raccontare la verità a fare delle statue tanto un segno della celebrazione che il potere fa di sé stesso, tanto l’inquietudine e la scontentezza di chi sente non riconosciuta la propria storia. In quel riconoscimento sta anche il dolore patito da quegli stessi che con quella statua vorrebbero celebrare il passato e farlo diventare il passato di tutti. Per farlo tuttavia, si tratta di riscrivere la storia. Riscriverla ha significato spesso, più che integrare quel che c’è già (come appunto avvenuto a Christopher Park), predisporre una storia altra. La storia di questa storia aumentata è stata spesso il percorso per rappresentare – o per evitare di rappresentare – il «Ministero della verità» di orwelliana memoria. Riguarda, per esempio come rendere omaggio, attraverso i monumenti a Colombo, alla storia e al contributo dato dalla minoranza italiana, più in generale alle minoranze emigrate (non senza gerarchie di importanza, dagli irlandesi, agli ebrei dell’Est Europa, ai cinesi o giapponesi). Il che non significa tutti gli immigrati: per esempio le resistenze rispetto alla presenza, in casa propria, dell'altra America (argentini, venezuelani, peruviani, brasiliani, cileni). Oppure la storia lunga e contorta per rendere omaggio pubblico a Rosa Parks la donna che a Montgomery (Alabama) il 1° dicembre non si alza nel tram che la riporta a casa perché quel posto è riservato solo ai bianchi. Ci metterà molto tempo Rosa Parks a comparire come una figura che sta in piedi per invocare un diritto. A lungo la sua immagine è quella solitaria di una donna a sedere. Lo stesso per i monumenti ai caduti in guerra di tutte le nazionalità che combatterono e morirono con la divisa dell’esercito degli Stati Uniti. Dietro a quella continua scrittura e riscrittura sta un pezzo rilevante della storia d’America, di come si fa storia e contro-storia, di come si crea opinione e consenso. Ancora in questi nostri giorni.
- David Bidussa - Pubblicato su Domenica del 30/7/2023 -
Nessun commento:
Posta un commento