Negli ultimi tre secoli, l'Occidente è salito a dominare il pianeta. Poi, all'inizio del nuovo millennio, la storia ha subito una svolta drammatica. Di fronte alla stagnazione economica e alla divisione politica interna, l'Occidente si è trovato in rapido declino rispetto alla periferia globale che aveva precedentemente colonizzato. Non è la prima volta che assistiamo a un'ascesa e a una caduta di questo tipo: l'Impero romano ha seguito un arco simile, passando da una potenza vertiginosa alla disintegrazione.
Lo storico Peter Heather e l'economista politico John Rapley esplorano gli inquietanti parallelismi e le proficue differenze tra l'antica Roma e l'Occidente moderno, andando oltre i tropi barbari invasori e la decadenza della civiltà per scoprire nuovi insegnamenti. Dal 399 al 1999, sostengono, attraverso il dispiegarsi di cicli di vita imperiali paralleli e sottostanti, entrambi gli imperi hanno gettato i semi della propria distruzione. L'era del dominio globale occidentale è davvero giunta al termine? Heather e Rapley riflettono sul futuro.
Over the last three centuries, the West rose to dominate the planet. Then, around the start of the new millennium, history took a dramatic turn. Faced with economic stagnation and internal political division, the West has found itself in rapid decline compared to the global periphery it had previously colonized. This is not the first time we have seen such a rise and fall: the Roman Empire followed a similar arc, from dizzying power to disintegration.
Historian Peter Heather and political economist John Rapley explore the uncanny parallels, and productive differences between ancient Rome and the modern West, moving beyond the tropes of invading barbarians and civilizational decay to unearth new lessons. From 399 to 1999, they argue, through the unfolding of parallel, underlying imperial life cycles, both empires sowed the seeds of their own destruction. Has the era of Western global domination indeed reached its end? Heather and Rapley contemplate what comes next.
(dal risvolto di copertina di: PETER HEATHER & JOHN RAPLEY, "Why Empires Fall. Roma, America and the Future of the West". PENGUIN Pagine 208, £20)
Attenzione a non ripetere gli errori dell’antica Roma
- di Carlo Rovelli -
Perché è caduto l’Impero romano? Peter Heather, direttore del dipartimento di Storia medievale del King’s College di Londra, e fra i più autorevoli storici della tarda antichità, ha recentemente completato con John Rapley, vivace economista politico dell’Università di Cambridge, un libro illuminante sulla caduta dell’Impero romano: un testo che ribalta idee ricevute e offre elementi preziosi per capire il presente. La storia tradizionale ci racconta di un declino economico e demografico, a seguito del quale l’Impero d’Occidente non regge più alla pressione dei popoli germanici. L’Impero d’Oriente sopravvive, ma non molto tempo dopo viene ridimensionato drasticamente dall’espansione araba.
Non è andata così, ci raccontano Heather e Rapley. Archeologia e storiografia recenti convergono nel rivelare un’immagine molto diversa della tarda antichità imperiale: un periodo di crescita economica e benessere che si diffonde non solo all’interno, ma anche ad aree confinanti esterne all’impero. La stabilità offerta dalla struttura politica centrale, le istituzioni, le strade, i commerci, l’intera cultura romana, permettono il diffondersi di una crescente prosperità. È questa diffusione della ricchezza, non una depressione economica, a condurre verso la fine dell’impero. La produttività economica si sposta dalle zone centrali e si diffonde verso la periferia, dentro e fuori i confini, generando nuove ricchezze e quindi nuovi centri di potere. Il centro ha permesso l’arricchimento della periferia, ora deve fare i conti con un acquisito potere economico e politico di nuove élite. I regni dei Vandali e dei Goti che prendono via via il sopravvento politico su Roma nel corso del V secolo, e la forza che vengono a trovarsi, sono il prodotto dell’influenza economica e culturale della stessa civiltà romana. La nuova ricchezza della periferia permette di alleviare la sudditanza da Roma e limitare il flusso di ricchezza che nutriva il dominio imperiale. Indebolita economicamente in termini relativi, non assoluti, Roma non ha più i mezzi per mantenere il dominio, e perde la fedeltà delle élite periferiche, che preferiscono affidarsi ai nuovi centri di potere.
L’argomento, sviluppato nel libro con ricchezza di dettagli storici, è convincente, anche perché offre un’interessante chiave di lettura di come siano migrati centri del potere anche nei secoli successivi. L’Italia del primo Rinascimento genera una ricchezza di commerci che finisce per nutrire le economie del Nord Europa che presto le levano il primato. L’Europa della rivoluzione industriale innesca lo sviluppo economico degli Stati Uniti, che finiscono per prevalere. Centri di potere economico, e quindi politico, perdono il predominio non perché incontrino un declino, ma perché il loro stesso successo genera opportunità economiche nelle periferie, dando origine a nuova ricchezza rispetto alla quale il vecchio centro si viene a trovare in una situazione di relativa debolezza.
Rivedere la caduta dell’Impero romano d’Occidente in questi termini è illuminante per capire il presente. Il testo di Heather e Rapley discute a fondo questa analogia. L’Occidente ha dominato il mondo durante i secoli del colonialismo. Ha continuato a dominarlo dopo la Seconda guerra mondiale, anche quando il suo centro si è spostato oltre oceano. Il predominio militare persiste, anzi si è esteso, ma la centralità economica si è ridimensionata radicalmente negli ultimi anni. Non perché l’Occidente sia in declino (la sua ricchezza aumenta, anche se ora meno equamente distribuita). Il predominio occidentale si è ridimensionato, invece, per il vivacissimo sviluppo economico delle periferie. Poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale l’Occidente generava la parte di gran lunga preponderante della ricchezza del pianeta. Oggi la crescita economica della periferia — Cina, India, Brasile, Stati arabi, Sudafrica, Indonesia, Est e Sud-Est asiatico, e via via — ha ridotto l’economia occidentale a una componente fra le altre. Basta pensare alla spettacolare crescita dell’economia cinese, inesistente su scala mondiale negli anni Cinquanta, ora comparabile a quella degli Stati Uniti. Il Pil pro capite cinese è 36 volte più grande di tre decenni fa: in media cioè un cinese è oggi quasi quaranta volte più ricco di suo padre.
L’Occidente mantiene il dominio planetario grazie al suo rimanente strapotere militare, ma non più appoggiato su una decisa superiorità economica: una situazione sempre più instabile. Come durante il tardo Impero, è stato proprio lo sviluppo innescato del dominio occidentale, dalla sua influenza culturale, a permettere alle periferie di crescere fino a mettersi nelle condizioni di cominciare a resistere al lungo periodo di sfruttamento coloniale su cui l’Occidente ha costruito la sua ricchezza durante gli ultimi secoli. Il problema politico a cui sta facendo oggi fronte l’Occidente non è un declino: è il semplice fatto che le periferie, come nel V secolo, si sono arricchite molto più rapidamente, diminuendo drasticamente il suo peso economico relativo. Molti oggi paventano, temono difficilmente evitabile, l’incombere di uno scontro armato fra Occidente e Cina. (Ricordiamo che il governo italiano intende mandare una nostra portaerei al seguito degli Usa nel mare della Cina). Anche su questo il libro di Heather e Rapley ci offre un’allarmante analogia storica. L’Impero romano d’Oriente, scampato al crollo dell’Occidente, si è impegnato in un lungo conflitto con l’Impero persiano, percepito allora, come oggi la Cina, come rivale «altra superpotenza». I due imperi, estenuati da una lunga guerra in cui hanno consumato le loro risorse, si sono trovati entrambi sfiniti nel VII secolo, e per questo, insegnano Heather e Rapley, sono caduti facile preda della giovane e vivace espansione araba. L’Impero persiano è stato spazzato via. L’Impero bizantino ridotto a un piccolo Stato.
Il libro di Heather e Rapley non è pessimista. Non pronostica un crollo dell’Occidente analogo al tragico crollo di Roma del V secolo. Al contrario, offre questa penetrante analogia storica come strumento di lettura del presente, perché possa aiutarci a evitare gli errori politici commessi dal tardo Impero. Per l’Occidente, un futuro prospero rimane possibile accettando il fatto che l’emergere delle periferie è un evento storico di larga scala, inevitabile. La Cina è tornata a essere quella che è stata per millenni: una grande potenza, la maggiore del mondo, con una storia relativamente molto meno bellicosa dell’Occidente. Costruire una cultura di collaborazione con la Cina e con il resto del mondo, simile a quanto hanno fatto Europa e America fra loro, è la strada che può evitare catastrofi. L’alternativa, in cui purtroppo la leadership occidentale sembra in questo momento invischiata — lo sforzo inutile di contenere le periferie cercando di conservare il dominio militarmente — è una ricetta per la catastrofe, resa ancora più inquietante dalle armi nucleari e dalla crisi ecologica che il pianeta può affrontare soltanto unito. Come secoli fa l’Impero romano si trovò ad affrontare insieme Persia e pressione delle nuove periferie, così oggi l’Occidente si trova ad affrontare una Cina rinata e le numerose potenze economiche che sono cresciute, liberate dal giogo coloniale e post-coloniale, e che reclamano di sedersi al tavolo delle decisioni. Qualunque cosa accada, l’Occidente non tornerà alla supremazia completa di cui ha goduto nel XIX e XX secolo. La struttura economica del mondo è cambiata in profondità. Come per Roma, è cambiata proprio grazie al successo dell’Occidente. Se poi abbiamo un minimo di senso morale non possiamo neppure rimpiangere troppo lo sfruttamento su cui si è costruita la ricchezza dell’Occidente; al contrario, possiamo essere orgogliosi della splendida eredità economica e culturale con cui l’Occidente ha contribuito alla crescita del pianeta intero.
Oggi le strade davanti all’Occidente sono quindi due: cercare ad ogni prezzo di contenere la crescita del resto del mondo, per mantenere l’attuale dominio, facendo leva sulla forza militare e sulla sua ormai insufficiente centralità economica (le sanzioni non hanno fatto crollare, come molti speravano, l’economia della Federazione russa), oppure accettare il mondo più collaborativo e pacifico che ci stanno chiedendo a gran voce tanti i Paesi delle nuove ricchezze. Per quanto sia più facilmente vendibile politicamente a un elettorato interno ancora impregnato di ideologia coloniale e propaganda sulla superiorità occidentale, scrivono Heather e Rapley, il conflitto ha un prezzo rovinoso, confrontato con la scelta politica, meno facile ma assai più lungimirante, di accettare la crescita delle periferie ed entrare in collaborazione con esse. La storia non si ripete, ma insegna. Sapremo trarne lezione, ci chiedono Heather e Rapley, o continueremo come miopi a guardare solo un giorno alla volta, e non vedere dove stiamo rischiando di andare?
Carlo Rovelli - Pubblicato su La Lettura del 30/7/2023 -
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