mercoledì 13 gennaio 2021

naufragando …

Il naufragio che qui si racconta ebbe luogo nel 1820 sulla linea dell'equatore, nelle acque dell'Oceano Pacifico. Lo scontro con un mostruoso cetaceo aveva affondato la baleniera e decimato l'equipaggio. Tre scialuppe e pochi sopravvissuti, bianchi e neri, ridotti allo stremo dalla sete e dalla fame, a turno attesero la morte dei compagni per sopravvivere nutrendosi dei loro corpi, a partire dal cuore: il colore della pelle non aveva più importanza, il gusto delle era lo stesso. L'infrazione di un tabù ancestrale per la cultura occidentale, così diversa da quella del "cannibale", ma anche un passo oltre le leggi tribali che ne regolavano i riti, perché su una delle tre scialuppe i sopravvissuti decisero di tirare a sorte chi tra loro sarebbe stato ucciso per nutrire gli altri. La sorte toccò al più giovane, che preferì essere ucciso piuttosto che nutrirsi di chi al suo posto lo sarebbe stato. Fu il primo "antieroico" eroe moderno. Sull'incidente cadde un pietoso silenzio. Imbarazzo, vergogna? «Stato di necessità» fu il verdetto archiviato dalla legge americana.
Tre nomi - George Pollard, Owen Chase e Thomas Chapple - del tutto sconosciuti al mondo delle lettere, sono i protagonisti di uno dei tanti naufragi di cui nell'Ottocento si scriveva. Se ne raccoglievano indicazioni negli annali dei porti cui navi o baleniere non avevano fatto ritorno. I tre, in luoghi diversi del mondo, lasciarono di quell'evento vissuto in prima persona un laconico resoconto. Sul naufragio di cui qui si racconta, che ebbe luogo nel 1820 sulla linea dell'equatore, nelle acque dell'Oceano Pacifico, scese allora un imbarazzato silenzio. Lo scontro con un mostruoso cetaceo aveva affondato la baleniera e decimato l'equipaggio. Tre scialuppe e pochi sopravvissuti, bianchi e neri. Ridotti allo stremo dalla sete e dalla fame, a turno attesero la morte dei compagni per sopravvivere nutrendosi dei loro corpi, a partire dal cuore: il colore della pelle non aveva più importanza, il gusto delle carni era lo stesso. L'infrazione di un tabù ancestrale per la cultura occidentale, così diversa da quella del 'cannibale', ma anche un passo oltre le leggi tribali che ne regolavano i riti, perché su una delle tre scialuppe i sopravvissuti decisero di tirare a sorte chi tra loro sarebbe stato ucciso per nutrire gli altri. La sorte toccò al più giovane, che preferì essere ucciso piuttosto che nutrirsi di chi al suo posto lo sarebbe stato. Fu il primo 'antieroico' eroe moderno. Sull'incidente cadde un pietoso silenzio. Imbarazzo, vergogna? "Stato di necessità" fu il verdetto archiviato dalla legge americana. Non risulta che studiosi di letteratura e storici se ne siano allora occupati. Fino a quando, nel 1947, il poeta Charles Olson, lavorando alle carte di Herman Melville trovò degli appunti. Gli appunti sul naufragio della baleniera Essex. Pagine che gettarono nuova luce sulle scelte letterarie ed esistenziali di Melville. Quella lettura era destinata a segnare in profondità il resto della sua carriera, da "Moby Dick" in avanti. Barbara Lanati si interroga sull'impatto di quell'incontro e insieme mette in luce i modi in cui un'opera letteraria quale "Moby Dick" sia stata segnata da quelle pagine - un reperto apparentemente rozzo, informe e insieme angosciante - in cui Melville si imbatté come ci si imbatte in relitti, legni, conchiglie che il mare ha buttato a riva. Affinché li si raccolga. Affinché li si interroghi per raggiungerne il segreto.

(dal risvolto di copertina di: "Il naufragio della baleniera Essex", di Owen Chase. Edizioni SE.)

E il capodoglio divenne Moby Dick
- di Andrea Cionci -

«La balena ci fu addosso urtando con il capo la prua della nave; l'impatto fu tanto violento e inatteso che per poco non ci ritrovammo tutti faccia a terra; la nave si rizzò di scatto come se avesse urtato contro uno scoglio e per alcuni secondi tremò come una foglia». Non è un passo tratto da Melville, ma da Il naufragio della baleniera Essex di Owen Chase pubblicato in edizione critica italiana dalla SE di Milano. Sono passati 200 anni da quel tragico evento di cui il primo ufficiale Owen Chase lasciò uno sconvolgente resoconto: scritto con l'asciuttezza di un tempratissimo lupo di mare, non riesce a nascondere la drammaticità di una delle più terrificanti avventure nella storia della marineria. A esso si ispirò Melville per il suo capolavoro, Moby Dick, il cui titolo rievoca il nome di un gigantesco e aggressivo capodoglio realmente esistito: era carico di arpioni, deturpato dalle cicatrici e soprattutto albino. Il suo nome era Mocha Dick. Nell'800, quando la caccia alle balene non aveva ancora decimato questi mammiferi marini e l'oceano era traboccante di cibo, si potevano incontrare capodogli enormi. Come testimonia una mascella di questo cetaceo conservata presso il Museo di Nantucket, alcuni esemplari potevano raggiungere anche i 28 metri.
Nell'agosto 1819 da quest'isola a Nord degli Stati Uniti, sull'Atlantico, prese il largo la Essex, una nave di 20 anni, piccola ma ben costruita, comandata dal capitano George Pollard jr., rampollo di una stimata famiglia di balenieri. Era manovrata da un equipaggio di una ventina di uomini. Il viaggio sarebbe dovuto durare due anni e mezzo con l'obiettivo di riportare a terra almeno 2000 barili d'olio di balena. Preda particolarmente ambita era il capodoglio, detto in inglese «sperm whale» poiché nella sua grossa testa il cetaceo racchiude lo spermaceti, un olio ceroso che, cambiando densità a seconda della temperatura, gli consente di inabissarsi o risalire in superficie senza sforzo, come la cassa di zavorra di un sommergibile. L'olio di spermaceti era richiestissimo per la sua purezza, tanto da essere impiegato nella cosmesi, come lubrificante per orologi, confezionare candele speciali, unguenti ecc.
Deluso da un bottino di appena 800 barili d'olio, il capitano Pollard, doppiato Capo Horn, decise di spingersi in acque sconosciute, nel Pacifico. Il 16 novembre 1820, avvistato un branco di capodogli, il comandante diede ordine di calare in mare le lance. Per i cetacei era il periodo degli amori: tre femmine vennero arpionate facilmente, ma la scialuppa di Owen Chase fu danneggiata da un colpo di coda di un cetaceo. Tornato sulla Essex per riparare la falla, l'ufficiale vide un gigantesco capodoglio maschio di circa 26 metri di lunghezza dirigersi verso lo scafo della nave. La Essex non fece in tempo a evitarlo che l'animale colpì la prua della nave; poi strusciando il dorso contro la chiglia vi passò sotto e, dopo un minuto in cui parve intontito dall'urto, caricò nuovamente la Essex, sfondandone definitivamente il fasciame prodiero.
Di fronte ai balenieri attoniti, la nave cominciò ad affondare. Gli uomini recuperarono in fretta viveri, acqua, strumenti di navigazione e qualche arma, dopodiché attrezzarono dei piccoli alberi con vele per le loro tre fragili scialuppe, rimaste ormai l'unica salvezza.
Cominciava una terribile odissea: navigarono per un mese, razionando il cibo e soffrendo la sete, quando finalmente avvistarono terra: era l'isola di Henderson, un piccolo atollo corallino a metà strada tra Australia e Cile, oggi nota per essere praticamente sommersa dalla plastica portata dal «vortice del Pacifico meridionale». I naufraghi poterono rifocillarsi nutrendosi di molluschi, di uccelli marini e delle loro uova, ma la vera svolta fu quando scoprirono una piccola sorgente che veniva però periodicamente ricoperta dalla marea. A spegnere i primi entusiasmi giunse presto la consapevolezza che le scarsissime risorse dell'isola non avrebbero consentito ai venti marinai una lunga sopravvivenza. Così, dopo una decina di giorni decisero di riprendere il largo, ma tre di loro, in condizioni fisiche precarie, restarono sull'isola.
In mare aperto, presto le lance cominciarono ad andare alla deriva e si separarono. Dopo pochi giorni le provviste terminarono e gli uomini cominciarono a morire. I primi corpi furono consegnati al mare, ma dopo un mese si comprese che l'unico modo per sopravvivere era cibarsi di chi non resisteva. Racconta Owen, che quando il marinaio Isaac Cole morì, si decisero all'extrema ratio. La carne dei suoi arti fu messa a seccare in piccole strisce e successivamente arrostita. Sulla scialuppa del capitano Pollard avvenne altrettanto, ma quando anche questa risorsa alimentare finì fu necessario ricorrere a un drammatico sorteggio: uno di loro si sarebbe dovuto sacrificare per nutrire gli altri. Toccò a un 19enne, Owen Coffin, cugino di Pollard, che, molto coraggiosamente, insistette dicendo che era suo diritto far fronte al proprio destino. Con un altro sorteggio fu deciso chi doveva sparargli alla testa con la sola pistola rimasta a bordo. Della terza scialuppa non si seppe più nulla. Dopo circa tre mesi alla deriva, la lancia di Pollard e quella di Chase incontrarono delle navi che li raccolsero in condizioni prossime alla fine e li poterono rifocillare. Di venti uomini se ne erano salvati cinque. I superstiti tornarono a Nantucket e furono accolti da una folla ammutolita che si aprì al loro passaggio. Il primo ufficiale Chase, nel giugno 1821, ritrovò la moglie e conobbe la propria figlioletta di 14 mesi, ma in tarda età, tormentato dagli incubi, impazzì.
Il capitano Pollard ottenne il comando di un'altra baleniera, la Two Brothers, ma anche questa affondò, tre anni dopo, alle Hawaii. Nel 2008 è stato scoperto il relitto, completo di varie attrezzature di bordo. Dopo il secondo fallimento, Pollard abbandonò il mare e visse a Nantucket come guardiano notturno. Di lui Melville disse: «Per gli isolani lui era un nessuno. Per me, l'uomo più imponente, più totalmente senza pretese e anche umile che io abbia mai incontrato».
Il volume della SE riporta non solo il resoconto di Chase, ma anche quello – più breve - di Pollard e anche di Thomas Chappel, uno dei tre marinai che scelsero di rimanere sull'isola di Henderson. Costoro, su segnalazione dei superstiti, furono recuperati un anno dopo. L'esperienza segnò Chappel nel profondo e lo convertì: «Spesso ci imbattiamo in pericoli inattesi e in soccorsi che sembrano provvidenziali, ma pochi sono più straordinari di quanto è stato sin qui narrato. Possano essi condurre il lettore a un sempre maggiore e completo abbandono alla grazia divina».

- di Andrea Cionci - Pubblicato su TuttoLibri del 24/12/2020 -

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