martedì 5 gennaio 2021

«Dite a Laura che l'amo!»

John Belushi (1949-1982) è ancora oggi ricordato per il suo talento sconfinato, ma anche per le sue scorrerie a tarda notte a suon di droga e alcol. Ma Belushi era davvero solo il Bluto di Animal House o il Jake dei Blues Brothers? Dopo la sua morte, la stampa si è quasi esclusivamente concentrata sui suoi eccessi e sul suo stile di vita indisciplinato. La moglie Judy ha sempre creduto che il personaggio pubblico descritto da giornalisti come Bob Woodward (che con Carl Bernstein aveva condotto le indagini sullo scandalo Watergate e successivamente ha scritto un libro su John), non avesse nulla a che fare con la persona affettuosa, sensibile e visionaria che aveva conosciuto e amato. Profondamente delusa e determinata a condividere un profilo veritiero di suo marito, ha scritto Samurai Widow (1990), un diario intimo, inedito in Italia, che è l'anima di questo progetto editoriale. In seguito ha scritto Belushi (2005) con Tanner Colby, una raccolta di testimonianze di amici e colleghi. Dall'unione di questi libri è nata la biografia più completa mai realizzata su John Belushi: un ritratto intimo, ma soprattutto veritiero, dell'uomo e dell'artista che ha influenzato una generazione.

(dal risvolto di copertina di: Judith Belushi Pisano, John Belushi. La biografia definitiva, Sagoma 2010, pp. 536, 25,00 euro.)

Vendicato un cinico pasticcione
- di Diego Gabutti -

Pochi anni dopo gli scoop del Watergate, che Mark Felt (numero due dell'Fbi, in arte Gola Profonda) gli aveva servito su un piatto d'argento, Bob Woodward «goes to Hollywood» (come la band punk, i Frankie Goes to Hollywood, che in quegli anni spopolava nelle hit parade). Era il 1984. Woodward, a Hollywood, indagò sulle circostanze della morte di John Belushi. Attore diventato presto iconico, Blues Brother con Dan Aykroyd, principale attrazione delle prime stagioni del Saturday Night Live, il programma NBC del sabato sera che cambiò il volto della comicità americana, Belushi era stato stroncato nel 1982 da un'overdose d'eroina mista a coca (il cosiddetto «speedball») in un bungalow del Chateau Marmont, un hotel sul Sunset Boulevard. Dopo aver indagato, interrogato amici e parenti, millantato d'aver rischiato la vita cacciando il naso negli affari nelle gang dello spaccio di Los Angeles, Woodward scrisse la prima biografia di Belushi, che intitolò sciaguratamente Wired, «fatto» (da noi Chi tocca muore. La breve delirante vita di John Belushi, Frassinelli 1985).
Wired non piacque a nessuno che aveva conosciuto Belushi. Trasformava il protagonista di Animal House e di Blues Brother in un tossico impenitente, la cui unica identità era lo sballo. Era così, del resto, che lavorava e ancora lavora Woodward: dove non c'è scandalo, inventarlo, o almeno suggerirlo. Nella sua inchiesta più famosa, la sola in effetti per cui sia ricordato, aveva attribuito anche a Dick Nixon (presidente degli Stati Uniti, l'uomo che aveva messo fine alla guerra del Vietnam e cacciato il Soviet supremo in un angolo arruffianandosi la Cina) una sola identità: l'imbroglio. Woodward, semplicemente, non distingue le persone dagli stereotipi e così Belushi, nel suo libro, diventò la personificazione, da vivo e tanto più da morto, di ciò che questo gazzettiere della costa est era andato a cercare in California: Hollywood Babilonia.
Non che fosse difficile trovarla, o che se ne potessero minimizzare o addirittura ignorare gli eccessi. Hollywood Babilonia (questa straviziata Wonderland dello star system, la città di cartapesta in cui agli ospiti non si servono pasticcini ma vassoi di droghe assortite, e dove un Harvey Weinstein ingordo di sesso molestava attrici e attricette smaniose di successo) è stata sempre una città vietata ai minori. E Belushi era effettivamente un consumatore abituale e compulsivo di droghe pesanti. Questo gli complicava la vita sul set e in famiglia o con gli amici.
Un po' tutto lo show businnes, a Hollywood e New York, consumavano regolarmente stupefacenti. Iniziato, nei sixties, come un rito di passaggio per le giovani generazioni, lo sballo era banalizzato dai maître à penser come qualcosa d'innocuo, «tipo il tabacco, più salutare dell'alcool». Eravamo convinti, scrive la vedova di Belushi, che le droghe cosiddette «leggere» non facessero male, e che non fosse vero che «marijuana e hashish sono il primo passo verso l'eroina», come dicevano i nostri genitori (mentre naturalmente è davvero così: non c'è eroinomane al mondo che non abbia iniziato con le canne, da ragazzino). Belushi, un comico straordinario, passato in fretta dalla popolarità al divismo, aveva fatto tutto il percorso, da mezzo hippie che fumava erba in compagnia degli amici a star hollywoodiana che s'iniettava un mix di «ero» e «coca» in un hotel del Sunset Boulevard.
Era inevitabile che la sua biografia cominciasse dalla fine. Morire d'overdose, mentre una tossica (e probabile confidente della polizia di L.A.) ti prepara e inietta lo «speedball» perché tu hai paura degli aghi e non sapresti farlo da solo, getta un'ombra tragica su tutta la tua vita. Sei un comico di rango, sei uno dei Blues Brothers, la band che non è soltanto al centro d'un film di culto ma che scala anche l'hit parade degli LP più venduti, e ora questo: l'overdose, lo Chateau Marmont, Robin Williams e Bob De Niro che quella notte bussano ciascuno al suo turno alla tua porta, si trattengono per un po', partecipano alla festa, poi se ne vanno e non si fanno neanche vedere al funerale.
Ma un biografo onesto e professionale, non necessariamente compassionevole, avrebbe dato spazio anche al prequel, per dire così, della storia di Belushi: gli anni di formazione di questo figlio d'emigrati albanesi nei locali underground di Chicago, il passaggio a locali più importanti, la convivenza e il matrimonio con la sua ragazza del liceo, poi la televisione, gli sketch (un classico, guardateli su YouTube) del samurai, il sodalizio fraterno con Dan Aykroyd, il cinema. E naturalmente anche la droga, che da un brutto momento in poi trasforma l'oro del successo e della comicità nel carbone della tragedia e del fallimento.
C'erano due storie da raccontare insieme: la storia d'un grande attore, e del milieu in cui s'era formato, e la storia vera della droga, tutt'altro che innocua, mai leggera, un tip tap sull'orlo dell'abisso. C'entra poco lo scandalo, e anche Hollywood Babilonia è soltanto l'epilogo del libro della vita di John Belushi. Ma Woodward no. Lui cerca ovunque Richard Nixon, Dick il bugiardo, le gang degli spacciatori che vogliono la sua pelle, il titolo a effetto.
Wired, come dicevamo, non piacque a nessuno. Non piacque alla moglie, Judith, che s'era fidata di Woodward fino a confidargli vicende privatissime, tra cui un aborto, che la star del Washington Post usò contro di lei e Belushi. Wired non piacque agli amici di Belushi, a Dan Aykroyd, a Bill Murray, a Gilda Radner, a Eddie Murphy, a Harold Ramis, a Billy Cristal e all'intero Gotha della moderna comicità americana. Non piacque ai genitori né ai fratelli di Belushi, tra cui Jim Belushi, che negli anni successivi avrà a sua volta una brillante (e largamente meritata, ma già finita da un po') carriera d'attore.
Judith Belushi Pisano, sua moglie, corresse gli svarioni (svarioni morali, dettati da scarsa umanità) di Bob Woodward in due libri, La vedova del samurai, uscito nel 1990, e Belushi del 2005. Sagoma Edizioni, una casa editrice specializzata in comici, stand-up comedy e altre feste dell'intelligenza pubblica i due libri in una sorta d'edizione «combo», miscelandoli insieme. È un grande libro. Non è soltanto la vera storia di John Belushi, della sua arte comica e della sua dipendenza. È soprattutto un libro sull'America, sulle culture pop del Novecento, sull'amore, persino un po' sul cinema, e naturalmente è un libro sulla droga, quest'ultima raccontata senza moralismi e senza bellurie.

- Diego Gabutti - Pubblicato su Italia Oggi del 28/11/2020 -

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