Baudrillard, détournement per eccesso [*1]
- di Anselm Jappe -
Se dovessimo stabilire una classifica dei concetti che vengono attualmente utilizzati nella maniera più superficiale, quello di "società dello spettacolo" si troverebbe sicuramente ai primi posti. Chiunque sia desideroso di far sapere che non si lascia punto ingannare dai media, farà cadere questo termine nel giro di una frase, forse senza nemmeno sapere che si tratta del titolo del libro fondamentale di Guy Debord, apparso nel 1967. Però, se esiste un termine in grado di gareggiare con "società dello spettacolo", nel discorso vagamente critico intorno ai danni dei mezzi di comunicazione di massa, questo sarà probabilmente il "simulacro" di Jean Baudrillard, o qualcun altro dei suoi termini. In effetti, questi due autori si trovano spesso associati, in quanto sono stati loro quelli che hanno emesso le diagnosi più impietose circa l'impatto dei mass media sulla società contemporanea. E, per di più, Baudrillard viene spesso visto come un continuatore di Debord; o Debord come un predecessore di Baudrillard. I concetti centrali di Baudrillard (il "simulacro", la "simulazione", la "iperrealtà"; e poco importa al grande pubblico che Baudrillard non li abbia mai usati tutti insieme) appaiono come una radicalizzazione del concetto di "società dello spettacolo", o come una sua ripresa più adatta al mondo postmoderno e meno ingombra di terminologia marxista. L'editore inglese "Verso" ha pubblicato "La trasparenza del male"(1990) di Baudrillard in una collana di libri dedicata al "pensiero radicale", insieme ad Adorno, Benjamin, Lukacs, Althusser, Lenin e, per l'appunto, Debord.
Che cos'è questa pretesa continuità? Si può dire, al di là del giudizio che si vuol dare su ciascuno di questi pensatori, che le loro teorie si situino sulla stessa linea? Biograficamente, il confronto è velocemente fatto. Baudrillard, che era più vecchio di due anni rispetto a Debord, non è mai stato situazionista ed ha cominciato la sua traiettoria di teorico nel 1968, quando "La società dello spettacolo" e quasi tutti i numeri della rivista "Internazionale Situazionista" erano già stati pubblicati. E' vero che all'Università di Nanterre Baudrillard era stato assistente di Henri Lefebvre, il quale aveva conosciuto bene i situazionisti, ed aveva sicuramente sentito parlare di loro e forse ne aveva incrociato qualcuno. Sulla rivista "Internazionale Situazionista" e nella Corrispondenza di Debord, si trova solo qualche riferimento fugace, e naturalmente sprezzante, a Baudrillard. Debord non lo ha più menzionato nei suoi scritti successivi, quanto meno non direttamente. Baudrillard, da parte sua, non ha mai rivendicato una filiazione situazionista, anche se ha detto di esserne stato ispirato. [*2]
I loro atteggiamenti, lo sappiamo, erano radicalmente diversi. Debord era discreto, fino al punto di non apparire quasi mai in pubblico, altero e serioso, mentre Baudrillard, pur di contestare le forme abituali della vita intellettuale, arrivava fino alla buffoneria - si ricordano le sue conferenze, in cui appariva adornato di lustrini - e faceva conferenze intere basandosi su giochi di parole, per esempio fra il "Dasein" di Heidegger e il "Design". [*3] Ci possiamo chiedere, senza fargli torto, se si prendesse sempre sul serio e se non si facesse perfino gioco del suo pubblico - anche con buone ragioni, da patafisico qual era. Tuttavia, questo suo atteggiamento era altrettanto coerente con la sua teoria, quanto lo era il disprezzo di Debord, con la sua. Non ci rimane altro, perciò, che fare un confronto teorico. E' vero che anche questo viene reso difficile dal fatto che Baudrillard rimaneva spesso in una voluta ambiguità ed amava rispondere che non era stato ben capito e che le sue affermazioni più controverse andavano prese al «secondo grado», per esempio quella sulla guerra del Golfo del 1991 che «non avrà mai luogo». Inoltre, nella sua riflessione è passato attraverso diverse fasi ed ha spesso criticato i concetti che lui stesso aveva prima adoperato, per poi rigettare qualche anno dopo i termini stessi della sua precedente critica, ecc., in modo che alla fine non si sapeva mai troppo bene dove ci si trovasse con lui. Qui, analizziamo soprattutto gli scritti degli anni 1980 e 1990.
Qualche somiglianza fra Debord e Baudrillard non manca. Quest'ultimo, soprattutto all'inizio della sua carriera, ha ripreso una parte della critica situazionista dell'urbanistica. Ma è soprattutto il concetto di "spettacolo" a tornare frequentemente nelle sue opere, di solito sotto forma di riferimento fugace: «Se la nostra società non è più quella dello "spettacolo", come si diceva nel 68, ma quella della cerimonia?» [*4]; a volte senza nemmeno nominarlo direttamente: «E se non si trattasse più di opporre la verità all'illusione, ma di percepire l'illusione generalizzata come più vera del vero? ... E se tutto questo non fosse né entusiasmante né disperante, ma fatale?» [*5]. In una frase quale: «Se il pensiero non anticipa il suo détournement per mezzo della sua scrittura, sarà il mondo a farsene carico, con la volgarizzazione, lo spettacolo o la ripetizione» [*6], troviamo addirittura due concetti chiave dei situazionisti: "spettacolo" e "détournement", insieme alla volontà, tipicamente situazionista, di eludere il "recupero" da parte del "sistema".
Ma, per quanto riguarda l'essenziale, tutto diverge nelle loro teorie ( e si potrebbe arrivare perfino a vedere, in Debord, un platonico, e in Baudrillard un anti-platonico). Baudrillard stesso ha ben definito quello che li divideva. Ne "Il delitto perfetto"(1995), ha scritto: «La virtualità è cosa diversa dallo spettacolo, che lascia ancora spazio ad una coscienza critica e ad una demistificazione. L'astrazione dello "spettacolo", anche nei situazionisti, non è mai senz'appello. Mentre la realizzazione incondizionata, essa sì è senz'appello (...) Se possiamo affrontare l'irrealtà del mondo come spettacolo, siamo senza difesa dinanzi all'estrema realtà di questo mondo, davanti a questa perfezione virtuale. Siamo al di là di ogni alienazione » [*7]. Il concetto di spettacolo proposto da Debord non è una critica dei soli media, ma è un'attualizzazione del concetto di "alienazione" così come è stato elaborato da Hegel, da Feuerbach e da Marx. La citazione di Feuerbach a proposito della preferenza scandalosa che l'epoca moderna accorda alla copia, a detrimento dell'originale, e che Debord ha posto come epigrafe de "La Società dello spettacolo", pertanto, contiene il nucleo della teoria di Debord. Il concetto di alienazione comporta quello di "autenticità" e, nella sua scia, quello di "originale", di “essenza”, di "verità" e di "sostanza"; in Debord, lo spettacolo si associa costantemente alla "menzogna" e alla "ideologia materializzata". Al contrario, Baudrillard riassume così il suo percorso: «In un primo momento, la simulazione, il passaggio generalizzato al codice ed al valore-segno, viene descritto in termini critici, alla luce (o all'ombra) di una problematica di alienazione. E' ancora, attraverso degli argomenti semiologici, psicoanalitici e sociologici, la società dello spettacolo ad essere in causa, e la sua denuncia. Viene ancora ricercata la sovversione, nella trasgressione delle categorie dell'economia politica: valore d'uso, valore di scambio, utilità, equivalenza. I referenti di tale trasgressione sono la nozione di spesa, in Bataille, e quella di scambio-dono, in Marcel Mauss, il consumo ed il sacrificio, cioè a dire ancora una versione antropologica ed antieconomica, dove la critica marxiana del capitale e della merce si generalizza in una critica antropologica radicale dei postulati di Marx. Ne 'Lo scambio simbolico e la morte' questa critica va al di là dell'economia politica.» [*8]
In questo passaggio, si trovano pressoché tutti quanti i concetti che Baudrillard ha voluto abbandonare. Ora, a quel tempo, non era certo il solo a voler prendere le distanze - o a voler superare - il pensiero critico che aveva preparato il maggio 1968. Quel che è invece assai singolare nel suo percorso, è l'essere riuscito a rappresentare questo abbandono come la radicalizzazione di una visione critica del nostro mondo, di modo che il pensiero critico e tutte le idee di sovversione, di disalienazione, di rivoluzione e di rovesciamento del mondo capovolto, appaiano esse stesse come naif e come ancora facenti parte dello stesso universo che pretendevano di rovesciare. In "Dimenticare Foucault" del 1977, Baudrillard rimprovera a Marx, come a Freud, a Deleuze, come a Foucault, di non aver avanzato altro che delle "critiche parziali". Anche se poi, più tardi, lascerà del tutto cadere il pensiero critico, in quanto tale, [*9] si ha come l'impressione che egli rimanga sempre in una prospettiva critica - quanto meno nel senso di fare delle rivelazioni terribili sulla situazione che viviamo - e di non farsi ingannare né dai suoi apologeti né dai suoi avversari dichiarati. Il suo rifiuto di continuare la tradizione dell'Illuminismo, mantenendone tuttavia degli atteggiamenti tipici: la distruzione continua degli idoli e la pretesa di enunciare la grande Verità secondo cui la verità non esiste affatto, e rivelare il vero senso della vana ricerca di senso. [*10]
La bestia nera di Baudrillard - come di Deleuze e degli altri numerosi rappresentanti di quello che molto inopportunamente è stato chiamato il "pensiero del 68" - è sempre stata la "dialettica": «Si apprezza la radicalità di quei movimenti [i situazionisti] e la loro negazione del sistema. Allo stesso tempo, i situazionisti stanno ancora dentro una forma di dialettica, parossistica certo, ma comunque di dialettica. Un'utopia quasi idealista. Ma essi cercano ancora di affrontare il sistema, di attaccarlo alle spalle, di situarsi all'esterno. Il concetto di rivoluzione esiste ancora (...) A poco a poco, l'alienazione per mezzo dello "spettacolo" e la sua denuncia sono divenuti una vulgata, volgare da un certo punto di vista. E' questa una delle ragioni per cui credo che oggi vada superata questo concetto di spettacolo. Inoltre, mi sono del tutto allontanato da quei trucchi situazionisti.» [*11]
Pertanto, il passaggio dalla critica della "società dello spettacolo" all'analisi della "società dei simulacri" - titolo di un libro pubblicato nel 1979 da Mario Perniola [*12], autore dapprima influenzato dai situazionisti, e poi da Baudrillard - sembra un approfondimento, e non un abbandono. Il rapporto di Baudrillard con Debord può quindi essere descritto come un «détournement per eccesso» - ed è questa la definizione che lo stesso Baudrillard dà della sua "strategia", che egli vuole vedere come opposta alla dialettica. [*13]
Se avessimo rimproverato a Baudrillard di avere abbandonato i concetti di verità, autenticità, alienazione e disalienazione cari a Debord, egli avrebbe ammesso di averlo fatto volentieri. E se avessimo criticato Debord per essere rimasto aggrappato a questi stessi concetti nell'epoca in cui quasi tutti i pensatori hanno voluto sbarazzarsene, egli ne avrebbe ugualmente convenuto. E per finire, non si può nemmeno obiettare a Baudrillard di essere un falso erede di Debord, visto che non ha mai stabilito questa filiazione. Bisogna perciò domandarsi, piuttosto, perché si sia potuto credere - soprattutto nel mondo anglosassone - ad una tale filiazione, e che cosa ci possa insegnare questo errore a proposito del passaggio da un'epoca all'altra.
Il «nuovo spirito del capitalismo», messo in atto dopo il 1968, aveva bisogno di disinnescare gli aspetti più radicali della critica sociale apparsa negli anni '60, salvaguardandone però i suoi aspetti "modernizzatori". Baudrillard è servito - che lui lo abbia voluto o meno - ad un bisogno sociale ben preciso della sua epoca [*14]: fornire un'apparenza di pensiero radicale che offrisse soprattutto la convinzione che «non si era lasciato ingannare», d'aver capito il gioco, di non farsi imbrogliare, di non "crederci", ma anche che - nel suo essere apertamente nichilista e senza apertura verso alcuna pratica possibile - questo non avesse alcuna conseguenza. Il reale non contiene più il germe del suo superamento: Baudrillard lo ripete per tutta la sua opera. Questo pensiero permette perciò ai suoi consumatori una reale carriera nella società dei media e del consumo, o per lo meno un'integrazione in essa, insieme ad un sentimento di superiorità intellettuale sugli abbrutiti che consumano e guardano i media prendendoli al "primo grado". Le teorie del simulacro, della simulazione, del virtuale e dell'iperrealtà non sono solo dei modi intellettuali, ma un "riflesso" fedele di quella realtà materiale banale della quale questo genere di teorie ritengono di aver sgomberato il campo. La ragione del successo di Baudrillard risiede proprio nella sua abilità di mantenere sempre un atteggiamento mediamente critico, mediamente ammirativo di quello che descrive. Una frase tipica come :«Non siamo più alienati nel cuore di una realtà conflittuale, ma siamo espulsi da una realtà definitiva e non contraddittoria. Espropriati dei nostri desideri attraverso la loro stessa realizzazione» [*15], esprime una giusta constatazione - e di un genere che assai spesso era sfuggito alla critica marxista tradizionale, in questo caso, l'integrazione dei "desideri" nel "nuovo spirito del capitalismo" - e allo stesso tempo proclama l'impossibilità di opporsi a questa situazione deplorevole a causa della scomparsa di tutto quello che poteva costituire un "di fuori", o una "contraddizione interna". Per Baudrillard, non esiste alcuna "vita reale" che ci possa permettere di denunciare lo spettacolo come pura illusione e, di conseguenza, di combatterlo: «Denunciando la loro spettralità [quella delle tecniche virtuali], comprese quelle dei media, si lascia intendere che ci sarebbe da qualche parte una forma originale dell'esistenza vissuta. Mentre invece il tasso di realtà si abbassa di giorno in giorno, e lo stesso medium trapassa nella vita, divenuta rituale ordinario della trasparenza.» [*16]
L'accoglienza assai favorevole che gli stessi media ed il mondo intellettuale hanno riservato al pensiero di Baudrillard, malgrado il suo carattere apparentemente poco consensuale, si spiega perciò a partire dalla funzione che gli si è voluto attribuire: parlare il linguaggio della critica radicale in un modo che sembri estremo e audace, ma che veicoli dei contenuti del tutto opposti. La nostra epoca preferisce la copia all'originale, dice Feuerbach nella citazione già menzionata che ne fa Debord, e questo è vero anche per quel che concerne la stessa critica radicale. Passare dall'affermazione di Debord, secondo cui lo spettacolo è il trionfo dell'apparenza e della visione e dove l'immagine sostituisce la realtà, all'affermazione che tutto non è altro che spettacolo e che questo è ancora più totalitario, dal momento che ha spinto i suoi crimini fino all'"assassinio" della realtà stessa, sembra terribilmente lucido e disillusivo, facendo passare dei polemici come i situazionisti per dei timidi ingenuamente ottimisti. Così, avendo tutta l'aria di andare un po' più lontano dell'analisi di Debord e di seguire la rapida evoluzione della "società dello spettacolo", l'interpretazione di Baudrillard procede verso una specie di esagerazione parodistica che è il contrario delle intenzioni situazioniste. Per Debord, la realtà ed il valore d'uso costituiscono sempre il limite contro il quale vanno a sbattere i deliri dello spettacolo; arrivare a dire che la realtà ed il valore d'uso non esistono più, non è un passo in avanti sulla stessa strada, ma un «détournement per eccesso».
Per Debord, lo spettacolo al primo grado, ovvero i massa media, non è altro che un effetto della struttura spettacolare di tutta la società delle merci in un momento dato del suo sviluppo. Baudrillard, al contrario, non tenta più di ricondurre i fenomeni che descrive a dei fattori storici identificabili [*17] . Per lui, il valore d'uso non è più il limite del valore di scambio. La riduzione della merce a puro segno, operata da Baudrillard nei suoi primi scritti dove ha voluto "superare" Marx, costituisce la base delle sue teorie future. La critica della produzione in nome del consumo esprime alla fine il sogno di un consumo senza i limiti che la produzione impone, e dunque un capitalismo che può andare oltre qualsiasi sostanza: questo dispone necessariamente di una quantità determinata ed è, conseguentemente, esauribile, costituendo così un limite allo sviluppo della società delle merci che si vuole infinita.
La pretesa scomparsa della realtà, presentata come se fosse una rivelazione terrificante, è in realtà quanto di più rassicurante possa esserci in un'epoca di crisi. Perché il termine "simulazione" si è così tanto diffuso? Una delle esperienze fondamentali degli anni '80 e '90, è stata l'espansione inedita del capitale finanziario, quello che Marx chiamava il "capitale fittizio". La sostanza reale del valore, dunque la forza lavoro impiegata secondo gli standard di produttività del mercato mondiale e che riproduce in tal modo il capitale investito, aveva invece la tendenza a ridursi. La rapida successione di boom e di crack, a partire dal 1987, ne è stato il segnale più evidente. La deriva finanziaria del capitalismo ha influenzato profondamente la psicologia collettiva e le forme di vita di quest'epoca: soprattutto negli strati sociali legati alle nuove tecnologie e ai mestieri per così dire "creativi" - ed è dunque in tali strati che può essere collocata la maggioranza dei lettori di Baudrillard - si era sparsa un'euforia che tuttavia non riusciva a farci dimenticare che essa si fondava su delle bolle speculative e sulla simulazione, e che si viveva tutti i giorni sull'orlo dell'abisso. La "de-realizzazione" così spesso evocata nel pensiero post-moderno aveva quindi una base ben "reale". Tutti i discorsi sulla virtualizzazione non servivano a dimostrare che si potesse continuare a camminare nel vuoto. Se il carattere tautologico dello spettacolo, denunciato da Debord, esprime l'aspetto automatico dell'economia delle merci, la quale, sottratta ad ogni controllo, va alla sua folle deriva e ci dà effettivamente molto da temere. Al contrario, i segni non rimandano che ad altri segni, e questi ad altri segni ancora; se non c'è mai l'originale della copia infedele, se non c'è un valore reale che deve sostenere la montagna di capitale fittizio, allora non c'è alcun rischio di poter essere recuperati dalla realtà. Si può perfino dare un giudizio morale radicalmente negativo di questo stato di cose, ma tutto questo resta impotente, dal momento che nessuna contraddizione nella sfera della produzione riuscirà più a scuotere questo mondo autistico.
Tuttavia, è nella produzione, e nella trasformazione continua su larga scala del lavoro in capitale e del capitale in lavoro che si trova questa "realtà" che ci ha portato alla crisi economica, ecologica ed energetica permanente. Il sistema si mantiene in vita solo grazie ad una simulazione perpetua. I discorsi sofistici sulla scomparsa della realtà, alla fine rimandano al vecchio sogno della società delle merci di riuscire a liberarsi completamente dal valore d'uso e del limite che questo rappresenta per la crescita illimitata del valore. E' la speranza - molto attuale - che il capitale finanziario possa continuare a crescere, anche se è scomparsa quasi tutta la sua base nella valorizzazione reale. Qui, non si tratta più di decidere se una tale scomparsa del valore d'uso, proclamata sia da Baudrillard che dai postmoderni, sia positiva o meno: una tale scomparsa è semplicemente del tutto impossibile. Evidentemente, c'è un legame fra la diminuzione della "sostanza del valore" - il lavoro "produttivo" in senso capitalista, quindi il lavoro che produce capitale - negli ultimi quarant'anni, e la negazione del concetto di "sostanza" nel pensiero postmoderno e decostruttivista. Inoltre, questo parallelismo fra la simulazione postmoderna e la simulazione economica è stato tracciato in modo significativo dallo stesso Baudrillard quando, nel 1976, ha paragonato l'evanescenza del soggetto, divenuto "fluttuante" in riferimento all'abolizione del sistema monetario aureo avvenuto essenzialmente nel 1973.[*18] Naturalmente, egli non vede altro che una tappa nel processo di "virtualizzazione" che potrebbe continuare per sempre, e non il segnale di un'erosione progressiva della società delle merci che incontra, prima o poi, i suoi propri limiti. Nella stessa opera, afferma che «è l'altra strada del valore quella che conta, quella della relatività totale, della commutazione generale, combinatoria, della simulazione. Simulazione, nel senso che tutti i segni si scambiano oramai fra di loro, e senza scambiarsi più con il reale»: nessun termine ha un valore intrinseco, ma il valore è il risultato della sua relazione con gli altri termini. [*19] Questa affermazione è meno originale di quanto Baudrillard sembra credere. Si trova in linea con la teoria economica dominante da lungo tempo nella scienza borghese: la teoria "marginalista" sostiene che il valore non è una sostanza, creata dall'attività umana, e limitato, ma è una semplice convenzione sociale che fa sì che tutto possa avere un "valore" e che ciascun valore è determinato solamente dagli altri valori. Inoltre, la maggior parte dei marxisti hanno da tempo accettato, e quasi senza accorgersene, tale approccio relativistico che elimina, soprattutto, ogni possibilità di pensare la crisi strutturale del sistema delle merci.
Il paradosso - probabilmente intenzionale - di Baudrillard risiede nel fatto che l'abbandono di una prospettiva critica non gli impedisce di mantenere uno sguardo, a volte molto acuto, su tutto ciò che descrive - uno sguardo che è difficile non definire "critico"- insieme ad una certa tonalità nostalgica. E' tale combinazione - fra una descrizione spesso considerata come "apocalittica" e l'asserzione che il movimento storico stesso abbia sperperato qualsiasi possibilità di influenzare il corso degli eventi - che gli ha valso la qualifica di "nichilista". Baudrillard ha il merito di aver parlato di una «mutazione profonda ed originale delle forme di percezione del piacere» [*20], che i sociologhi "materialisti" hanno spesso negato. Già nel 1987, si trovano delle parole assai forti sulla "scomparsa dell'Altro" a causa della comunicazione; sulla "disincarnazione" legata al narcisismo; sull'annullamento dello spazio, che rende le persone prive di quella che una volta era l'immaginazione contadina; [*21] sulla vita dentro una bolla asettica; e sull'handicap come immagine della disumanizzazione futura [*22]. Egli rideva della presunta scoperta di un «gene dell'angoscia» - diventato oggi moneta corrente della superstizione scientifica - e si domandava giustamente se saremmo nati sempre con un ombelico quando la fecondazione artificiale ci avrà fatto tornare alla condizione di un Adamo non nato da donna [*23]. Quando scrive: «E se oggi possiamo fabbricare un clone di un attore famoso, da far recitare al suo posto, al posto di quello che è diventato da molto tempo, senza saperlo, la sua propria replica, il suo proprio clone prima che lo clonassero» [*24], parla con accenti debordiani. La sua denuncia dell'arte contemporanea, espressa nel 1996, avrebbe potuto essere di Debord, mentre il suo insistere su «la trasparenza e l'oscenità dell'universo della comunicazione che sorpassa, di gran lunga, trasparenza e oscenità, ancora relative, dell'universo delle merci» [*25] sembra perfino più prossimo alla realtà dell'insistere di Debord sul "segreto". Baudrillard ha ben descritto come l'odio vuoto, "disincarnato", come lo chiama lui, abbia cominciato a sostituire le rivendicazioni sociali tradizionali. Il suo sguardo sulle "realtà virtuali", ben prima della nascita di Internet, è essenzialmente critico. Infine, non vede affatto il mondo come dominato da un capitalismo in buona salute, e pronostica un'implosione, piuttosto che un'esplosione. Egli lega la scomparsa della realtà al divenire superfluo della forza lavoro, [*26] cosa che apre dei percorsi di riflessione molto interessanti. E quando non spinge la sua descrizione della scomparsa di ogni realtà a dei livelli che si situano tra il parossistico ed il parodico, si può anche leggere una presa di coscienza della crisi assai reale della società capitalista, nonché dei tentativi tradizionali di spiegarla: secondo lui, il sistema «ha perduto tutti i suoi nemici, ma soprattutto le sue finalità (...) Se il sistema rimuove le avversità, finirà per rimanere alle prese con sé stesso. Non potrà altro che auto-divorarsi. (...) Il sistema è diversamente catastrofico rispetto agli anni '60. Il sistema ha evoluto molto più velocemente del pensiero critico. Noi, poveri intellettuali, siamo stati ripresi. Constato che se certe forme di critica permangono, sono senza effetto. La critica si è integrata al sistema.»
Possiamo solo deplorare il fatto che, Baudrillard, invece di approfondire simili intuizioni, abbia preferito seguire la propria inclinazione al paradosso e al funambolismo, sprofondando in un manierismo di stile e di contenuto che spesso infastidisce [*27]. Tuttavia, per non aver giocato al grande pensatore che annuncia delle rivoluzioni senza precedenti, né aver cercato una brillante carriera universitaria, né essere stato il militante di tutte le buone cause, ed aver ancor meno voluto le due cose insieme, ed essersi relegato al ruolo di «predicatore apocalittico» (Jean Clair) senza mitigare la negatività delle sue analisi, si è distinto favorevolmente dalla grande maggioranza dei suoi colleghi.
Egli appare piuttosto come il bambino malizioso che semina confusione fra gli adulti seri e convinti delle loro transazioni. In tal senso, un lettore di Debord può conservare di Baudrillard, malgrado tutti i disaccordi, un ricordo migliore rispetto a quello di altri pensatori della nostra epoca.
- Anselm Jappe - "Revue Ligne" n°31, febbraio 2010 -
NOTE:
[*1] - Alcune delle idee contenute in questo articolo sono state espresse per la prima volta in una conferenza tenuta a Roma nel 1988, durante un dibattito su «Il fascino discreto della merce», il cui ospite più in vista era Jean Baudrillard. Dal momento che non capiva l'italiano, non capiva nessuna delle critiche che io, seduto accanto a lui, gli rivolgevo. Alcune delle idee generali erano già presenti, vagamente, 12 anni prima in una piccola dissertazione accademica che avevo intitolato «Dimenticare anche Baudrillard?». Altre osservazioni sono state formulate in un mio saggio del 1991 sulla guerra del Golfo. Pertanto, questo articolo rappresenta il culmine di una riflessione critica sull'opera di Baudrillard; riflessione che era cominciata molto tempo prima.
[*2] - Vedi Jean Baudrillard: «A quel tempo, il concetto di rivoluzione esisteva ancora». Intervista con Frédéric Martel in "Magazine littéraire" n° 399, giugno 2001, dossier «Guy Debord et l'aventure situationniste ».
[*3] - Un ex amico mi ha confidato che negli anni '70 lui e Baudrillard hanno passato interi pomeriggi a divertirsi con questo gioco delle parole; ma che non avrebbe mai immaginato che un giorno Baudrillard le avrebbe talmente prese sul serio da presentarle al pubblico...
[*4] - J. Baudrillard, LAutre par lui-même. Habilitation, Paris, Galilée, 1987, p. 89-90.
[*5] - Ivi, p.90.
[*6] - Ivi, p. 85.
[*7] - J. Baudrillard, Le Crime parfait, Paris, Galilée, 1995, p. 49-50.
[*8] - J. Baudrillard, L'Autre par lui-même. Habilitation, op. cit.. p. 67-68.
[*9] - «Quest'epoca [intorno al 1970] è stata la più bella, poiché esisteva ancora un punto "omega", fuori dal gioco, fuori dal sistema. Oggi non è più così. Abbiamo approfittato di quello che è stato l'ultimo periodo critico di riflessione, del pensiero. Dopo, negli anni '80, ho lasciato perdere il pensiero critico» (J. Baudrillard, Magazine littéraire, p. 50).
[*10] - «Il fine della teoria dovrebbe essere quello di riflettere il reale, e non quelle di entrare con esso in una relazione di negatività critica. È stato questo il pio desiderio di un'era perpetua dei Lumi, e oggi è ancora questo che regola lo statuto morale dell'intellettuale. Ma questa dialettica così bella oggi appare fuori uso» (J. Baudrillard, LAutre par lui-même. Habilitation, op. cit., p. 83).
[*11] - J. Baudrillard, Magazine littéraire, art. cit., p. 50
[*12] - M. Perniola, La Società dei simulacri, Bologna, Cappelli, 1979
[*13] - J. Baudrillard, L‘Autre par lui-même. Habilitation, op. cit., p. 74.
[*14] - Durante tutta la sua attività, malgrado lo stile sovente oscuro e malgrado certe caratteristiche troppo francesi, per non dire piuttosto parigine, della sua produzione, le sue tesi hanno avuto un notevole eco in tutto il mondo.
[*15] - J. Baudrillard, Le Crime parfait, op. cit., p. 62.
[*16] - Ivi, p. 50.
[*17] «In questo libro nero della scomparsa del reale, non sono stati ritrovati né i mobili né gli autori» (]. Baudrillard, Le Crime parfait, op. cit., p. 13)
[*18] - J. Baudrillard, L'Échange symbolique et la mort, Paris, Gallimard, 1976, p. 18.
[*19] - Ivi.
[*20] - J. Baudrillard, L'Autre par lui-même. Habilitation, p. 23.
[*21] - Ivi, p. 36-38.
[*22] - Ivi, p. 47.
[*23] - J. Baudrillard, Le Crime parfait, op. cit., p. 44.
[*24] - Ivi, p. 51.
[*25] - J. Baudrillard, LAutre par lui-même. Habilitation, p. 21.
[*26] - «Problema filosofico cruciale: quello del reale nella disoccupazione tecnologica. Del resto lo stesso di quello della disoccupazione sociale: cosa fare della forza lavoro nell'era dell'informatica? Che cosa fare con questo spreco esponenziale? Metterlo in orbita, mandarlo nello spazio? Non si riuscirà più a sbarazzarci facilmente del cadavere della realtà.» (J. Baudrillard, Le Crime parfait, op. cit., p. 71.)
[*27] - È stato criticato anche per il suo uso disinvolto delle metafore scientifiche fuori contesto.
(già pubblicato precedentemente sul blog - senza l'apparato delle note - il 24/4/2014)
Nessun commento:
Posta un commento