La scrittura, lo scrivere, è un esercizio terribile che provoca cose terribili. Almeno, così testimonia John Banville nel libro di Ramona Koval, "Conversazioni con scrittori", quando racconta che una volta, anni prima, mentre faceva un viaggio insieme alla moglie nel sudest degli Stati Uniti e volle contattare il suo amico Cormac McCarthy, per incontrarsi. Si accordarono per ritrovarsi a Santa Fé e passare insieme un fine settimana, alloggiando tutti in un albergo della città. Stettero bene, erano ottimi amici, ma McCarthy in quel periodo stava lavorando, e perciò passava parte della mattina a scrivere, e così il primo giorno scese a pranzo e aveva la faccia grigia, gli occhi vitrei, la barba lunga, sembrava un torero dopo una corrida. La moglie di Banville volle chiedergli: "Ma sei sempre così?" E lui rispose: "Per tutto il tempo, quando scrivo." Fu davvero uno shock, sembrava che avesse appena finito di ammazzare qualcuno. "Vivere con uno scrittore" - continuò McCarthy - "è come vivere con qualcuno che ha appena compiuto un omicidio particolarmente efferato."
Il racconto di Banville sembra coincidere con l'intuizione di Freud, secondo la quale alcuni scrittori pervengono, per mezzo dell'"intuizione", ad alcune "verità psicologiche" che di solito vengono scoperte solo dopo molto lavoro. Non per niente, nel suo "Mosè e il Monoteismo", Freud parla della scrittura - della sua creazione e della sua deformazione (ovvero, la citazione) - come di una sorta di "assassinio", sottolineando come la parte difficile non sia l'atto in sé, ma l'eliminazione delle tracce. Insomma, la scrittura come un "incontro violento" con l'altro, l'altro di cui ci si appropria, lo si cita, lo si trasforma.
"L'opera è la maschera mortuaria dell'idea", sostenne a sua volta Benjamin, in "Strada a senso unico". Ossia, l'atto della scrittura è tanto un effetto dello straniamento di sé stesso (la maschera), quanto una scena di morte, nel senso hegeliano per cui "la parola è la morte della cosa". Uno stacco fra l'atto e l'intenzione, per Benjamin. Il salto triplo che porta dall'idea all'atto, all'eliminazione delle tracce, per Freud. Uno stacco, una separazione per cui, Benjamin quando parla di Robert Walser, uno scrittore, vede nella sua scrittura il punto di vista del "convalescente", sempre meravigliato, come se vedesse il mondo per la prima volta. E, a sua volta, ne "I temi di Fritz Kocher", Walser parla dello scrittore come di un "abile cacciatore" che prende la mira e spara le sue parole sulla carta - superficie che sanguina - e che per questo diventa un "vero furfante". Un convalescente, sì, ma da una violenza che lui stesso ha perpetrato, quando ha trasformato l'idea in atto, per fabbricarsi quella "maschera mortuaria" da offrire al mondo.
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lunedì 17 febbraio 2014
Un vero furfante
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