Rilevanza e limiti degli obiettori della crescita
di Anselm Jappe
Il discorso sulla "decrescita" è una delle rare proposizioni teoriche in qualche modo nuova, che sia apparsa negli ultimi decenni. La parte del pubblico attualmente sensibile al discorso sulla "decrescita" è ancora assai ristretto. Tuttavia, è una percentuale costantemente in aumento. Ciò riflette una presa di coscienza effettiva, a fronte degli sviluppi più importanti degli ultimi anni: soprattutto l'evidenza che lo sviluppo del capitalismo ci trascina verso una catastrofe ecologica, e che non saranno un paio di filtri in più, o delle automobili meno inquinanti, a risolvere il problema. Si è diffusa una diffidenza a proposito dell'idea stessa che una crescita economica perpetua sia sempre desiderabile, e, allo stesso tempo, un'insoddisfazione riguardo le critiche del capitalismo che gli rimproverano essenzialmente la distribuzione iniqua dei suoi frutti, oppure solo quegli "eccessi", come le guerre e le violazioni dei "diritti umani". L'attenzione per il concetto di decrescita riflette la crescente impressione che sia la direzione che ha preso la nostra società ad essere sbagliata, almeno da qualche decennio, e che ci troviamo di fronte ad una "crisi di civiltà", con tutti i suoi valori, anche a livello di vita quotidiana (culto del consumo, della velocità, della tecnologia, ecc.) Siamo entrati in una crisi che è economica, ecologica ed energetica allo stesso tempo, e la decrescita prende in considerazione tutti questi fattori,nella loro interazione, anziché voler "rilanciare la crescita" per mezzo delle "tecnologie verdi", come fa una parte dell'ecologia, oppure di proporre semplicemente una diversa gestione della società industriale, come fa una parte della critica che si rifà al marxismo.
La decrescita piace anche perché propone dei modelli di comportamento individuali che si può cominciare a praticare qui e subito, ma senza limitarsi a quello, ed anche perché riscopre delle virtù essenziali, quali la convivialità, la generosità, la semplicità e il dono. Attrae anche per la sua aria gentile che lascia credere che si possa mettere in atto un cambiamento radicale con un consenso generale, senza dover passare attraverso degli antagonismi e dei forti scontri. Si tratta di un riformismo che si vuole veramente radicale.
Il pensiero della decrescita ha senza dubbio il merito di voler veramente rompere con il produttivismo e con l'economicismo che sono stati a lungo il terreno comune della società borghese e della sua critica marxista. Una critica profonda del modo di vita capitalista sembra, dapprima, più presente presso i "decrescitori" che, per esempio, presso i sostenitori del neo-operaismo, i quali continuano a credere che lo sviluppo delle forze produttive (in particolare nella loro forma informatica) porterà all'emancipazione sociale. I "decrescitori" cercano anche di riscoprire degli elementi di una società migliore nella vita di oggi, spesso lasciatici in eredità dalle società pre-capitaliste, come l'attitudine al dono. Non rischiano, perciò, di scommettere - come fanno altri - su un'ulteriore decomposizione di tutte le forme tradizionali di vita e sulla barbarie come anticamera ad una miracolosa rinascita.
Il problema è che i teorici della decrescita rimangono molto sul vago per ciò che concerne le cause della crescita. Nella sua critica dell'economia politica, Marx ha già dimostrato che la sostituzione della forza lavoro umana mediante l'utilizzo della tecnologia diminuisce il "valore" rappresentato in ciascuna merce; cosa che spinge il capitalismo ad aumentare continuamente la produzione. Sono le categorie di base del capitalismo - il lavoro astratto, il valore, la merce, il denaro, categorie che non appartengono affatto ad ogni modo di produzione, ma al solo capitalismo - a causare il suo cieco dinamismo. Al di là del limite esterno, costituito dall'esaurimento delle risorse, il sistema capitalista contiene in sé, fin dall'inizio, un limite interno: quello di dover ridurre, a causa della concorrenza, il lavoro vivente che costituisce la sola fonte di valore. Negli ultimi decenni, questo limite sembra che sia stato raggiunto e la produzione del valore "reale" è stato in gran parte rimpiazzato dalla sua simulazione nella sfera finanziaria. Inoltre, il limite esterno ed il limite interno hanno cominciato a manifestarsi apertamente nello stesso momento: verso il 1970. L'obbligo a crescere è dunque consustanziale al capitalismo; il capitalismo può esistere solo come fuga in avanti e crescita materiale perpetua, per compensare la diminuzione del valore. Perciò, una vera "decrescita" sarà possibile solo al prezzo di una rottura totale con la produzione di merci e di denaro.
Ma i "decrescitori" in generale rinculano davanti a questa conseguenza che appare loro troppo "utopica". Alcuni tuttavia si sono radunati intorno allo slogan "Uscire dall'economia". Ma la più parte rimane un po' troppo nel quadro di una "scienza economica alternativa" e sembra credere che la tirannia della crescita non sia altro che una specie di malinteso che può essere demolito a forza di colloqui scientifici che discutono circa il modo migliore di calcolare il prodotto interno lordo. Molti dei "decrescitori" ricadono nella trappola della politica tradizionale, vogliono partecipare alle elezioni o fare rilasciare delle dichiarazioni agli eletti. C'è perfino un discorso un po' snob, quando si possono vedere dei ricchi borghesi che scontano i loro sensi di colpa recuperando con ostentazione le verdure che vengono gettate via quando finisce la vendita al mercato. E se da una parte la volontà manifesta di sottrarsi alla vecchia contrapposizione "destra-sinistra" può sembrare inevitabile, bisogna quanto meno chiedersi perché una "Nuova Destra" dimostri interesse per la decrescita, così come si corre il rischio di cadere in un'apologia acritica delle società "tradizionali" del Sud del mondo.
E' quindi in qualche modo stupido credere che la decrescita possa divenire la politica ufficiale della Commissione europea, o qualcosa del genere. Un "capitalismo decrescente" sarebbe un ossimoro, altrettanto impossibile di un "capitalismo ecologico". Se non si vuole che la decrescita si riduca ad accompagnare e a giustificare l'impoverimento "crescente" della società - e tale rischio è reale: una retorica della frugalità può ben servire ad indorare la pillola ai nuovi poveri e a trasformare quella che è un'imposizione in un'apparenza di scelta cose come frugare nei cassonetti della spazzatura - bisogna che essa si prepari a degli scontri e a degli antagonismi. Solo che questi antagonismi non coincidono più con le vecchie linee di divisione formate dalla "lotta di classe". Il necessario superamento del paradigma produttivista - e degli stili di vita che gli si accompagnano - troverà resistenze in tutti i settori sociali. Una parte delle "lotte sociali" attuali, in tutto il mondo, sono essenzialmente lotte per accedere alla ricchezza capitalista, senza mettere in discussione il carattere di questa pretesa ricchezza. Un operaio cinese, o indiano, ha delle buone ragioni per chiedere un salario migliore, ma se lo ottiene, probabilmente va a comprarsi un'automobile e contribuisce così alla "crescita" e alle sue nefaste conseguenze sul piano ecologico e sociale. Bisogna sperare che si attui un collegamento tra tutte le lotte che vengono portate avanti per migliorare la condizione degli sfruttati e degli oppressi, da una parte, e gli sforzi messi in campo per superare un modello sociale basato sul consumo sociale ad oltranza, dall'altro. Può essere che alcuni movimenti contadini nel Sud del mondo si muovano già in questa direzione, soprattutto attraverso il recupero di alcuni elementi delle società tradizionali, come la proprietà collettiva della terra e l'esistenza di forme di riconoscimento del singolo che non sono legati alle sue prestazioni sul mercato.
Riassumendo: il discorso dei "decrescitori" sembra assai più promettente rispetto ad altre forme di critica sociale contemporanee, ma deve ancora svilupparsi e, soprattutto, perdere le sue illusioni circa la possibilità di addomesticare, semplicemente, la bestia capitalista mediante atti di buona volontà.
- Anselm Jappe, 2010 -
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