Karl Kraus e il mercato dell’idiozia
di Italo A. Chiusano
Sentite questa notizia giornalistica: “Venne portata morente all' ospedale, dove diede vita ad un bambino morto”. Karl Kraus (1874-1936), il furioso e lucidissimo letterato viennese che per trentasette anni (1899-1936) tenne una specie di giudizio universale contro tutto e contro tutti sulla sua rivista Die Fackel (La fiaccola), non si lascia sfuggire una tal perla stilistica. Noi potremmo anche parlare delle scemenze geniali di Achille Campanile, delle assurdità clownesche di Ionesco. Ma Kraus era a modo suo troppo serio, troppo moralista per non vedere, anche in un fiore di questo tipo, un segno di quell'incretinimento manipolato (si era allora nel 1912) che presto avrebbe portato alla catastrofe. Per lui ne erano colpevoli quasi tutti: monarchi, generali, aristocratici, banchieri, industriali, commercianti, borghesoni e borghesucci, filistei e travet, e poi le due dannate genìe degli intellettuali pennivendoli (cioè la grande maggioranza) e dei giornalisti (tutti, senza quasi eccezioni).
Nel 1914 i nodi sarebbero venuti al pettine; il Fato avrebbe tirato con mani di ferro e la testa dell'Europa sarebbe stata scotennata. E' allora che Kraus può citare un'altra perla. Non subito, ma dopo che il bagno di sangue sarà finito (fino a quando?) e si potranno tirare certe somme. Hermann Bahr, letterato e operatore culturale (ma allora non si diceva certo così) era stato un benemerito promotore di giovani talenti e aveva anche commentato e illustrato le varie correnti culturali del tempo, dal naturalismo all' espressionismo. Kraus gli era stato amico, poi non più. Ora nell'Europa post-apocalittica (o pre-apocalittica) del 1925, egli tira fuori un libro che Bahr aveva pubblicato sul finire del 1914. Era intitolato Benedizione della guerra ed era tutto un inno a quella grande fucina di sangue e di fuoco da cui sarebbe uscita un'Europa germanizzata, cioè migliore. Bahr vi faceva dell'ironia contro certi profeti che all'inizio del conflitto avevano previsto i peggiori sfracelli. Avevano predetto la Comune nelle città tedesche, la rivolta slava in Austria, la rivoluzione in Russia... (…)
Dunque, due assaggi, e già abbiamo preso contatto col Kraus della “Fackel”. La messa alla berlina dei contemporanei, specie giornalisti e scrittori di mediocre livello e di scarsa tenuta etica, attraverso le citazioni testuali delle cose da loro dette e scritte: un vero e proprio metodo di montaggio smascherante che Kraus manipolerà sempre da maestro. Poi la simbiosi, in lui, tra una serietà feroce, giacobina o savonaroliana, la serietà dell'apostolo eretico e dell'illuminista aggressivo che così spesso si sposa, con effetti alla Buster Keaton, a una comicità grottesca talvolta assolutamente irresistibile. Ancora: la pignolaggine fiscale applicata all'auscultazione e vivisezione del linguaggio, sua vera e intramontabile passione, una passione che lo fece ammutolire solo poche volte (la più grave, una vera afasia patologica e quasi mortuaria, di fronte allo sconcio del regime hitleriano), ma che in genere lo spingeva invece ad alluvioni di parole: invettive beffe accuse caricature maledizioni bassezze invocazioni. Una forma di ripetitività ad alto voltaggio, di querimonia e di sproloquio di un' epica apertura alare e con un tasso di lucidità e affilatezza critica che lo redime quasi sempre dalla bassura del mugugno nostalgico e passatista (lui che pure nostalgico e passatista lo era spesso, mentre al contrario nonostante il suo frenetico rifiuto della società contemporanea di slancio politico-rivoluzionario non ne ebbe mai).
Di Kraus gli italiani hanno finalmente potuto leggere quella che resta la sua opera maggiore, cioè lo sterminato dramma-poema-libello intitolato Gli ultimi giorni dell' umanità (Adelphi, 1980). Ora, tra le migliaia di pagine che riempiono i 39 (nel reprint, 12) volumi delle due edizioni postume della “Fackel” (1968-73 e 1977), Michele Cometa, autore anche di una penetrante e molto densa prefazione ha raccolto una silloge di 35 pezzi (dal 1908 al 1931) intitolata Elogio della vita a rovescio (Studio Tesi, pagg. XLIV-150, lire 20.000). La sventagliata è ampia, e va dalla battuta in due righe al piccolo saggio che, data l'intensità delle cose dette, sembra quasi una monografia.
Allo stile e all'animus di Kraus bisogna abituarsi. A volte risulta quasi odioso, ad esempio quando attacca un regista geniale e innovatore come Max Reinhardt, qualunque cosa faccia o non faccia, per puro rigetto personale; o quando un indubbio snobismo culturale gli fa disprezzare qualcuno non tanto per le idee che manifesta, quanto per lo stile sciatto con cui lo fa o quel po' di vanagloria che dimostra (si veda l'irrisione contro la moglie di Jakob Wassermann, comprensibilmente fiera del grand'uomo che le vive accanto). Così è sacrosanta la collera di Kraus contro un giornalista che, non avendo ottenuto un'intervista da Eleonora Duse, se ne vendica chiamandola una donnetta. Ma ci sembra poco democratico che un uomo come lui, colpevole di ben altri insulti anche contro persone che non li meritavano, invochi il Parlamento e la polizia, in toni altamente drammatici, per impedire simili sconci.
Ma lasciamo da parte le ingiustizie e gl'isterismi di Kraus, che irritano anche i suoi estimatori più accesi. Punti alti o altissimi della sua vena tra polemica e critica, con momenti di vera poesia e di struggente interiorità, sono il suo modo surreale di immaginare la società nelle ore notturne, quando il giornale non funge più da specchio abbrutente della realtà quotidiana (il pezzo intitolato appunto Elogio della vita a rovescio); la cavalcata folle e insieme ragionatissima attraverso quel mercato dell'idiozia lucrosa che è Il mondo della pubblicità (gli spot televisivi attuali, povero Kraus, lo avrebbero sicuramente fatto impazzire); il dickensiano o gogoliano pezzo La pelliccia di castoro, in cui Kraus si sente al centro dell'attenzione universale solo per aver perso un cappotto di pregio; la spietata ma divertentissima satira delle incommensurabili frescaggini di cui il giornalismo nazionale si occupa per giorni settimane mesi (Il tono); la vibrata e nondimeno spassosa indignazione che gl'ispira, in tempo di guerra, la sanguinaria idiozia dei temi patriottici assegnati nelle scuole (Risparmiate i bambini!); l'odio pretto, più ancora che il disprezzo, col quale risponde a una proprietaria terriera che si era permessa di fare dell'ironia su un'umanissima lettera di Rosa Luxemburg caratterizzata da forti venature zoofile (Una donna priva di sentimentalismo...); il duello a distanza (siamo ormai nel 1924) tra Kraus e Francesco Giuseppe, quando l' autore scopre che l'ex imperatore, durante la guerra, non aveva mai sperato nella vittoria, pur continuando a chiedere ai suoi sudditi il sacrificio in massa delle loro povere vite... (…)
Cerchi dunque ciascuno i momenti in cui può entrare in più vibrante sintonia con Karl Kraus. Non è un' esperienza che ci lasci come prima.
Italo A. Chiusano da "la Repubblica” del 25 agosto 1988
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