Che cos'è la comunizzazione?
- di Leon de Mattis -
Una cosa è ormai certa: nel mondo capitalista, la nostra situazione non può altro che peggiorare. Tutto ciò che prima veniva assunto come se fosse una "conquista sociale" garantita, oggi rischia di venir messo in discussione. La ragione di tutto questo non risiede in una cattiva gestione dell'economia, o in un eccesso di avidità da parte dei padroni, o in una mancanza di regolamentazione della finanza internazionale, quanto piuttosto, semplicemente nel fatto che si tratta dell'effetto inevitabile dell'evoluzione globale del capitalismo: il livello dei salari, l'accesso all'occupazione, alle pensioni, ai servizi pubblici e all'assistenza sociale sono tutte cose influenzate da un'evoluzione, per cui, ciascuno al proprio livello, ciò che prima veniva concesso, ora non è più concesso, e domani lo sarà ancora meno. In tutti i settori il processo è il medesimo per cui la nuova riforma riprende l'offensiva nel punto in cui si era fermata la riforma precedente. Tale dinamica non si inverte mai, anche nel momento in cui, dalla "crisi economica", si passa alla prosperità. La cosa ha avuto inizio dopo la grande crisi degli anni '70, ed è proseguita dopo il ritorno della crescita avvenuta negli anni '90 e 2000. Pertanto, sembra parecchio difficile immaginare che le cose possano migliorare, anche nell'improbabile eventualità che, dopo lo shock finanziario del 2008, si possa aprire una "via d'uscita dalla crisi". Eppure, di fronte a questa rapida trasformazione del capitalismo mondiale, la risposta della sinistra rimane spaventosamente debole. Per lo più, si accontenta di denunciare il cosiddetto "ultraliberismo" dei padroni, e i leader politici sembrano credere che si possano difendere le "conquiste sociali" del periodo precedente, se non addirittura di arrivare a estenderle un po' di più; se solo potessimo tornare al capitalismo di ieri, al capitalismo del dopoguerra. Per il futuro, si propone essenzialmente quello che fu il programma della Resistenza, adottato nel 1944, come se ci fosse ancora da combattere il nazismo da combattere, con i governi pronti a mollare per assicurarsi la vittoria; e soprattutto come se nella storia ci fosse già stato un qualche tipo di regressione. Pertanto, quello che viene dimenticato, è l'insieme di ciò che costituisce il rapporto sociale capitalistico nella sua dinamica attuale. Perché la crisi e la "ristrutturazione" del capitalismo (vale a dire, i cambiamenti che lo hanno interessato negli ultimi quarant'anni) rendono impossibile ritornare alle condizioni precedenti alla lotta? E, per la lotta di oggi, cosa possiamo dedurre da questo? Per poter rispondere a queste domande, bisogna fare una breve deviazione teorica: il profitto, non è solo una delle tante componenti - tra le altre - della società capitalistica, ma è la principale forza motrice, la ragion d'essere stessa di tutto ciò che esiste nel mondo sociale. Il profitto non è qualcosa che si innesta sulle attività umane, e che dirotta il prodotto del lavoro verso il capitalismo parassitario. Ma è all'origine di tutte queste attività, le quali, senza di lui non esisterebbero nemmeno; oppure, se preferite, queste attività umane esisterebbero in un modo così tanto diverso che non avrebbero nulla a che fare con le attività così come le osserviamo oggi. Non si tratta di avere un giudizio morale su questo stato di cose, ma piuttosto di comprenderne tutte le conseguenze. Non è che il profitto venga sistematicamente favorito, a scapito di ciò che sarebbe utile, buono o benefico per la società (come la salute, la cultura, ecc.); no, è proprio la "utilità" stessa che, senza profitto, non può esistere. Nulla di tutto ciò che non sia redditizio serve al capitalismo. O, per dirla diversamente, tutto ciò che è utile può essere utile solo nella misura in cui tale utilità offre l'opportunità di generare profitto. Affermare, per esempio, nel mondo capitalistico che «la salute non è una merce», è solo un'assurdità, priva di ogni minimo accenno alla realtà. Il fatto che la Salute sia una fattore economico, è dovuto solo al suo essere redditizia; da un lato, in maniera assai generale, in quanto mantiene una popolazione attiva in buono stato di funzionamento, e dall'altro lato , in modo particolare, perché è una fonte di profitti per alcuni: ed è solo perché è veramente un settore dell'economia - e quindi una "commodity" - che ce n'è abbastanza da poter mantenere i medici, produrre le macchine per analizzare il corpo umano, e costruire ospedali. Altrimenti, ovviamente, non ci sarebbe niente di tutto questo. Per generare profitto, il valore contenuto nelle merci deve sempre aumentare: bisogna che il valore di ciò che viene prodotto sia sempre superiore al valore che si è dovuto spendere (in materie prime, macchinari, locali, trasporti, ecc.) per produrlo. Ma ciò che viene utilizzato per produrre, se non viene aggiunto qualcosa, ha sempre lo stesso valore di ciò che viene prodotto. E questo qualcosa che viene aggiunto, è l'attività umana, l'intelligenza, la forza, l'energia muscolare spesa per assemblare e trasformare le cose disperse in un qualcosa di qualitativamente diverso da quello che avevamo all'inizio. Una simile attività deve per forza presentarsi in una forma particolare, che sia tale da poter essere acquistata in modo da poter poi essere incorporata nel valore finale di quello che viene prodotto: si tratta dell'attività umana, sotto forma di lavoro, ed è in una tale forma di lavoro che essa può così essere acquistata dal capitale. Ma - ed è qui che il capitalismo non è condivisione ma sfruttamento - il valore speso nella compravendita della forza lavoro rimane inferiore al valore che la forza lavoro fornisce. Tutto il valore prodotto, non può essere redistribuito, e pertanto "restituito" al lavoro, dal momento che il valore esiste proprio in quanto dissociazione tra il lavoro e il suo prodotto, permettendo così che venga assicurata la distribuzione ineguale del prodotto del lavoro. Ed è proprio l'esistenza di questa dissociazione tra attività e ricchezza socialmente prodotta, a rendere possibile la monopolizzazione di quest'ultima. Il "valore" delle cose non è una creazione naturale, ma è una creazione sociale. Contrariamente a quanto ci piacerebbe credere, non si tratta di una creazione sociale neutra, che esiste solo per convenienza. Il valore rimane necessario, solo perché è uno strumento di dominio. Nell'attuale modo di produzione, esso permette di catturare l'attività delle classi inferiori, a beneficio delle classi superiori. L'esistenza stessa del valore – e di quello che, storicamente, sembra essere il suo rappresentante permanente, vale a dire il denaro e la moneta – diventa una necessità solo nella misura in cui è necessario misurare ciò che deve essere preso da alcuni, per darlo ad altri. Prima del capitalismo, il valore e il denaro non erano al centro della produzione in sé, ma erano però già il segno del potere di alcuni e della debolezza di altri. Il tesoro, l'ornamento dei palazzi, o la ricca decorazione delle chiese erano un segno del potere sociale dei signori, dei califfi, o delle autorità ecclesiastiche. Il denaro e il valore sono stati - fin dagli albori delle società di classe - il simbolo del dominio, fino a diventare poi, nel capitalismo, lo strumento supremo. Pertanto, nessuna uguaglianza può derivare provenendo dall'uso di un mezzo la cui ragion d'essere è la disuguaglianza. Finché ci sarà denaro, ci saranno ricchi e poveri, potenti e dominati, padroni e schiavi. Poiché è la ricerca del profitto a richiedere che il costo di produzione sia il più basso possibile - ma che, simultaneamente, tutto ciò che è già stato prodotto e utilizzato per produrre (macchine, edifici, infrastrutture), non possa però trasmettere più di quanto sia il proprio valore - l'unica variabile che possa essere regolata è il valore della forza-lavoro. Pertanto il valore della forza-lavoro deve essere quindi ridotto al massimo: ma allo stesso tempo è solo la forza-lavoro che può fornire valore. Più volte, il capitalismo si è liberato da questa equazione insolubile, abbassando il valore della forza-lavoro solo in rapporto al totale del prodotto, aumentando però in maniera assoluta la quantità di lavoro che impiega: è questo che rende possibile l'aumento della produttività, la razionalizzazione del lavoro, le innovazioni tecniche e scientifiche. Ma per poterlo fare, è necessario aumentare la produzione in proporzioni gigantesche, a scapito di molte cose (degli spazi naturali, per esempio). Tuttavia, una simile crescita non esiste mai su base continua, e le inversioni di tendenza finiscono per essere la causa della situazione attuale. Infatti, dal secondo dopoguerra ai primi anni '70, il capitalismo mondiale ha vissuto un periodo particolare, del quale bisogna cogliere le caratteristiche, per riuscire a capire perché oggi esso sia scomparso e perché, contrariamente alle speranze dei sindacalisti e della gente di sinistra, non tornerà mai più. All'indomani della seconda guerra mondiale, la distruzione dovuta alla guerra, e la perdita di valore causata dalla lunga crisi che l'aveva preceduta, crearono una situazione favorevole a quella che gli economisti chiamano "crescita"; la quale non è altro che questa corsa contraddittoria, avanti e indietro, tra la diminuzione relativa del valore del lavoro e la sua ascesa assoluta. Il riavvicinamento politico, reso necessario dall'alleanza antinazista durante la guerra, permise anche una forma di condivisione del potere, sia a livello mondiale (blocco orientale e occidentale) che a livello sociale, all'interno dei paesi occidentali (venne riconosciuto che i sindacati e i partiti di sinistra, avendo una certa legittimità, rappresentavano il mondo del lavoro). A quel tempo prevalse il "compromesso fordista" [*1]. Esso consisteva nel garantire, attraverso aumenti salariali, un aumento del "tenore di vita" in cambio di un forte aumento della produttività e di una maggior fatica del lavoro. Il valore della forza-lavoro impiegata, distribuito su un numero maggiore di operai, aumentava in termini assoluti, ma il valore totale di tutto ciò che veniva prodotto aumentava ancora di più, in seguito all'aumento della produzione. La vendita di tutte queste merci, fondamento di quella che allora si chiamava la "società dei consumi", permise che il plusvalore che appariva nella produzione - la base del profitto capitalistico - si trasformasse in capitale aggiuntivo che veniva poi reinvestito in modo così di produrre sempre più. Il limite, lo si trova proprio in questo «produrre sempre di più»: questa espansione contiene un limite interno: a un certo punto c'è troppo capitale da valorizzare rispetto a quello che è necessario produrre, e vendere, per mantenere un profitto. Di fatto un equilibrio dinamico è stato mantenuto per più di due decenni, fino alla metà degli anni Sessanta, quando ha avuto inizio un progressivo declino che ha portato poi alla cosiddetta “crisi petrolifera” degli anni Settanta.
Alcune brevi osservazioni su questo periodo.
In primo luogo, va detto che la "prosperità" era riservata solo all'Europa occidentale, al Nord America e al Giappone; e che anche all'interno di questi spazi privilegiati venivano escluse alcune frazioni del proletariato, come la forza lavoro appena immigrata, intensamente sfruttata e tuttavia mal pagata. In secondo luogo, la prosperità occidentale non poteva nascondere il fatto che ciò che veniva concesso al proletariato, lo era in quanto polo dominato nel rapporto sociale capitalistico. L'aumento del potere d'acquisto, è stato accompagnato dalla vendita massiccia di beni standardizzati e qualitativamente scadenti. L'espressione che emerse a quel tempo - quello di "società dei consumi" - è infelice perché invece, a essere coinvolta, era proprio una "società di produzione": la messa in circolazione di sempre più merci era indispensabile all'aumento generale del valore totale di cui abbiamo parlato, mentre la caduta del valore di ogni merce, resa possibile dalla massificazione della produzione, permetteva una diminuzione del valore relativo della forza lavoro (era necessaria sempre meno manodopera per fornire i prodotti essenziali alla vita del lavoratore). "L'alienazione" della vita quotidiana - così tanto spesso analizzata e criticata all'epoca - non era altro che la conseguenza degli imperativi della circolazione del valore. Se oggi, questo concetto di "alienazione" - che andava assai di moda trenta o quarant'anni fa - è un po' scomparso dal vocabolario contemporaneo, la realtà che esso descrive rimane ancora molto presente. L'alienazione è, letteralmente, il modo in cui il nostro mondo ci sembra estraneo (l'alieno, parola derivata dal latino, è il completamente diverso, e l'alienato è colui che non è più sé stesso). «Produrre per il gusto di produrre», è la parola d'ordine con cui l'alienazione capitalistica si rivela a noi. La produzione materiale, sembra non avere altro scopo se non sé stessa. Ma ciò che il capitalismo produce, innanzitutto, sono le relazioni sociali di sfruttamento e di dominio. Se esso appare come una produzione materiale senza altro scopo che sé stesso, ciò è perché il capitalismo traspone le relazioni tra gli uomini in rapporti tra le cose: l'assurdità della produzione fine a sé stessa, così come quello di questo potere apparente che gli oggetti esercitano sugli uomini, non è altro che l'immagine rovesciata della razionalità del dominio di una classe su un'altra; in altre parole, lo sfruttamento del proletariato da parte della classe capitalista. L'obiettivo ultimo del capitalismo non è il profitto, o la produzione fine a sé stessa, ma il mantenimento del dominio di un gruppo di esseri umani su un altro gruppo di esseri umani, ed è per garantire questo dominio che il profitto e il fatto di «produrre per il gusto di produrre» sono diventati imperativi che vengono imposti a tutti [*2]. Con il cambiamento d'epoca, avvenuto a partire dagli anni '80, l'alienazione è rimasta, ma la "prosperità" se n'è andata via. La crisi del 1973, dimostrò che la dinamica precedente si andava esaurendo. Il capitalismo non poteva più concedere quegli stessi aumenti salariali, senza ridurre il saggio del profitto. Allo stesso tempo, il proletariato non era più soddisfatto di ciò che i capitalisti gli avevano finora dato. Il periodo degli anni '60 e '70, è stato il periodo durante il quale si era sviluppata una protesta generalizzata, che aveva attaccato il lavoro e le sue condizioni, ma anche molti altri aspetti della società capitalistica. Il compromesso era stato respinto in quello che era più essenziale: scambiare un aumento del "tenore di vita" contro una totale sottomissione del proletariato nella produzione e nel consumo. La contestazione di quelli che erano i vecchi organismi di mediazione del movimento operaio - vale a dire, i sindacati, i partiti comunisti ufficiali - significava la stessa cosa: veniva messo in discussione il ruolo che il “compromesso fordista” aveva assegnato alla classe operaia. Pertanto, il capitalismo aveva dovuto liquidare la maggior parte di tutto ciò che nel periodo precedente lo aveva costituito; e per due ragioni che, in sostanza, sono identiche: la caduta del saggio del profitto e l'ascesa della protesta sociale. Le crisi e le ristrutturazioni sono servite proprio a questo scopo, in un contesto sociale e politico di quella che è stata un'ondata conservatrice e repressiva “neoliberista”, rappresentata da politici come la Thatcher o Reagan. Ma la causa di questa ristrutturazione, non è il "neoliberismo":Anzi, al contrario, è stata la ristrutturazione, essenziale al proseguimento dello sfruttamento capitalistico, a essere stata accompagnata da questo arredo ideologico. In alcuni paesi particolari, fuori dagli schemi, come la Francia, sono stati proprio i “socialisti” a dover obbedire alle ingiunzioni del capitalismo. Ora tutte le componenti della ristrutturazione stavano diventando chiare. Per prima cosa, si trattava di abbassare il costo globale del lavoro; e per fare questo era necessario trovare una forza lavoro a basso costo altrove, che non fosse nei paesi occidentali e che non avesse alle spalle tutta la storia del movimento operaio. Alcuni paesi pionieristici, come Hong Kong e Taiwan, hanno mostrato la strada. Lo sviluppo della finanza e le trasformazioni del denaro – che, dal 1971, non si basa più sull'oro – hanno fornito lo strumento necessario [* 3] allo sviluppo di un capitalismo globalmente integrato: aree dedicate alla produzione manifatturiera, altre dedicate più al consumo e alla produzione di alto livello, altre abbandonate, perché in definitiva soprannumerarie rispetto alle esigenze della circolazione del valore. Questa zonizzazione globale si è sviluppata rapidamente, fino a essere oggi frattalmente riprodotta in tutte le parti del mondo. Rispetto ai flussi mondiali, le periferie impoverite (o le inner-cities) del nucleo centrale sono l'immagine dei Paesi periferici: un'eccedenza umana di cui il profitto non sa che farsene e che deve essere rinchiusa e sorvegliata. La concorrenza mondiale ha imposto al proletariato occidentale una caduta relativa di quei benefici che erano derivati dal precedente compromesso storico. E poiché non c'è alcuna prospettiva di miglioramento, sono i discorsi polizieschi e repressivi a costituire la risposta dello Stato alle speranze perdute. L'esistenza stessa di una simile suddivisione in zone globali, ci mostra come sia impossibile imporre ai paesi di nuova industrializzazione - come l'India o la Cina - quello che era il modello degli inizi della rivoluzione industriale in Europa. Questo ragionamento un po' meccanicistico, vorrebbe che l'evoluzione, che ha interessato la classe operaia dei paesi occidentali uno o due secoli fa si trovi ora, in forma accelerata, in questi paesi. Inizialmente sovra-sfruttata e miserabile, questa classe, lottando per un aumento dei salari, avrebbe ora raggiunto un livello di prosperità che metterebbe in moto il circolo virtuoso della crescita sostenuta dallo sviluppo del mercato interno. Ma a parte il fatto che questa evoluzione è tutt'altro che auspicabile (poiché visti i limiti che stiamo raggiungendo, probabilmente non può significare altro che un disastro ecologico irreparabile), sembra in ogni caso, nelle condizioni attuali, impossibile. Lo sviluppo occidentale, che, non dimentichiamolo, è stato favorito anche dal saccheggio coloniale, non può essere ripetuto in modo identico in un'economia che è stata integrata fin dall'inizio in tutto il mondo. Il mercato interno cinese o indiano, anche se si sta espandendo in modo spettacolare, non può assorbire tutta la crescita di questi paesi che hanno un disperato bisogno di sbocchi occidentali, e persino di ricchezze occidentali; dal momento che i loro beni sono denominati in debito americano o europeo. Per dirla in modo più teorico, è l'intera massa di valore accumulato a livello mondiale (e non solo in questi paesi) che ora deve trovare il suo profitto nella produzione mondiale. Il limite che è stato raggiunto negli anni '70, si trova ancora lì. C'è troppo capitale da sfruttare, perché possa essere ristabilito l'equilibrio dinamico dei Gloriosi Trenta, e questo è altrettanto vero tanto nei paesi di nuova industrializzazione quanto nei paesi occidentali. Dopo la crisi degli anni '70, la ristrutturazione del capitalismo è consistita nel fatto che il capitale ha trovato un altro modo per migliorarsi, abbassando il costo del lavoro. Un tale sviluppo, ha necessariamente avuto un effetto assai importante sulle lotte di classe nei paesi occidentali. Nel periodo che ha preceduto la crisi degli anni '70 e la ristrutturazione, la lotta del proletariato ha avuto un duplice significato, senza dubbio contraddittorio, ma che fondamentalmente si basava però sullo stesso postulato. Da un lato, la lotta poteva perseguire obiettivi immediati, quali il miglioramento delle condizioni di lavoro, un aumento dei salari, o perfino una maggiore giustizia sociale. Ma d'altra parte, la lotta ha avuto anche l'effetto, e talvolta perfino l'obiettivo, di rafforzare il potere della classe operaia rispetto alla classe del capitale, e forse fino al punto di rovesciare la borghesia. Questi due aspetti erano in conflitto tra di loro, l'antagonismo e l'inimicizia tra i sostenitori della "riforma" e quelli della "rivoluzione" erano costanti, ma tuttavia, alla fine, era la lotta in sé stessa che poteva significare entrambe le cose. La lotta per i vantaggi immediati e la lotta per il comunismo futuro, ruotavano entrambe attorno all'idea che era attraverso il rafforzamento della classe operaia, e della sua militanza, che si poteva trionfare. Naturalmente, i dibattiti che attraversavano il movimento operaio corrispondevano ad altrettante divisioni tra i sostenitori della rivoluzione e quelli della riforma, tra i sostenitori del partito, quelli del sindacato e quelli dei consigli operai, tra i sostenitori della rivoluzione immediata e quelli della rivoluzione differita... in breve, tra leninisti, quelli di sinistra, gli anarchici, ecc. Ma ciò che li accomunava era comunque un'esperienza di lotta nella quale il proletariato, senza essere unanime, e nemmeno unito (non lo fu mai), era tuttavia una realtà sociale visibile e nella quale ogni lavoratore poteva facilmente riconoscersi e identificarsi. Ma che dire di adesso? Se, per 30 anni, il dibattito tra "riforma" e "rivoluzione" è semplicemente scomparso, ciò è perché la base sociale che gli dava un senso è svanita. La forma, che per un secolo e mezzo aveva soggettivamente portato all'esistenza il proletariato, il movimento operaio, è crollata. I partiti, i sindacati e le associazioni di sinistra sono partiti di "cittadini" e partiti "repubblicani", la cui ideologia è mutuata dalla Rivoluzione francese, vale a dire dal periodo che aveva preceduto il movimento operaio. E tuttavia, a quanto pare, né il proletariato né il capitalismo sono evidentemente scomparsi. Che cosa manca, allora?
Certo, a prima vista possiamo dire che ciò che è cambiato, è il significato che può assumere la Vittoria. Senza idealizzare affatto i periodi precedenti, né sottovalutare le battute d'arresto, possiamo dire che la classe operaia, fin dagli inizi del capitalismo, ha condotto delle lotte che hanno portato a vere e proprie trasformazioni in quello che è stato il suo rapporto con il Capitale: da una parte relativamente a ciò che è stato concretamente conquistato – la regolamentazione della giornata lavorativa, i salari, ecc. – e dall'altra parte in riferimento all'organizzazione, del movimento operaio stesso, in partiti e sindacati. Così, l'ascesa del proletariato poteva essere alla base di ogni lotta e di ogni vittoria parziale, mentre ogni sconfitta poteva apparire come una ritirata momentanea, fino alla prossima offensiva. Certo, questa ascesa al potere è stata simultaneamente anche un'ascesa dell'impotenza: dal momento che le vittorie parziali e l'istituzionalizzazione del ruolo dei sindacati sono stati tutti fattori che ogni giorno hanno spinto sempre più lontano la prospettiva comunista, la quale nel tempo era diventata un orizzonte sempre più remoto e vaporoso [*4]. Ma, di fronte ai padroni, il quadro generale delle lotte, pur con i loro limiti, non era meno il potere della classe operaia. Per quasi trent'anni, le lotte sono state esclusivamente difensive. Ogni vittoria ritardava solo la sconfitta annunciata. La dinamica, per la prima volta in due secoli, consisteva esclusivamente nel declino del potere della classe operaia. L'attuale emblema della lotta operaia vittoriosa è la Cellatex: la lotta radicale per l'indennizzo nel momento in cui il posto di lavoro viene liquidato. La vittoria qui significa solo la fine di ciò che ha reso possibile la lotta; il fatto di essere i dipendenti della stessa azienda, ora chiusa, e non più l'inizio di qualcosa. Ma c'è di più. Le trasformazioni del lavoro negli ultimi trent'anni, sotto l'effetto della disoccupazione di massa, hanno modificato il rapporto che il salariato aveva con il proprio lavoro e, di conseguenza, il rapporto che il proletariato ha con sé stesso. L'occupazione, ha sempre meno lo status di riferimento che aveva nel dopoguerra (cosa che peraltro ha fornito alla critica radicale del lavoro il contenuto di una critica della società capitalistica in quanto tale). Non si ha più una posizione per tutta la vita. Nessun percorso di carriera, è garantito. Il dipendente dovrebbe "evolversi", formarsi, cambiare luogo di lavoro, e lavoro. La precarietà diventa la norma. La disoccupazione non è più la negazione del lavoro, ma solo un momento di esso, un passaggio che, nella propria vita, ogni lavoratore sperimenterà più volte; e addirittura, per molti, è il lavoro che diventa un complemento parziale e transitorio della disoccupazione. All'interno delle aziende, gli status e le condizioni differenziate si stanno moltiplicando. L'esternalizzazione dei compiti, il ricorso a subappaltatori e alle agenzie di lavoro interinale, frammenta e divide i lavoratori in molteplici categorie. Così facendo, la lotta diventa difficile, poiché è l'unità stessa di coloro che devono lottare insieme a essere problematica fin dall'inizio; mentre, come nel periodo precedente agli anni '70, questa unità viene in qualche modo presupposta (e questo indipendentemente dalle divisioni che non hanno mancato di verificarsi). L'unità degli attori della lotta, è ora la lotta che la costruisce in quanto uno dei mezzi necessari per raggiungere i suoi fini. Questa unità non è mai scontata e, inoltre, anche una volta acquisita temporaneamente, rimane soggetta alle possibilità di divisione che già esistevano al momento in cui era stata presupposta. La lotta è quindi più difficile, ma c'è un'altra differenza ancora più importante: la lotta non porta agli stessi risultati di prima. Ciò perché l'unità, prima della lotta, non viene presupposta, non si trova nemmeno inclusa in quelli che sono gli obiettivi ufficiali della lotta. Una certa idea del miglioramento della condizione della classe operaia, o del proletariato in generale, non fa più parte dell'orizzonte della lotta, o lo si trova solo nell'orizzonte delle lotte difensive, il cui fallimento è programmato (le lotte per le pensioni, ad esempio). Del resto, le lotte vittoriose lo sono solo nella misura in cui perseguono un obiettivo immediato e parziale, diremmo addirittura individuale. Nel capitalismo, non si ottiene più alcun miglioramento collettivo rispetto alla nostra situazione, ma un miglioramento individuale, il quale non fa più parte della prospettiva di una difesa della condizione della classe operaia, e pertanto può essere solo transitorio. Inoltre, la fine della lotta, sia che avvenga per vittoria, che per sconfitta, significa la fine dell'unità costruita nella lotta, e quindi decreta l'impossibilità di continuarla, o di riprenderla come tale; tutto questo mentre il periodo precedente dava la sensazione di un senso di progressione che sembrava rendere possibile la "capitalizzazione" delle lotte, vale a dire, il graduale accumularsi del risultato vittorioso delle lotte passate. Può essere stata un'illusione, ma in ogni caso contava su ciò che le persone potevano pensare della propria lotta, e delle sue possibili conseguenze [*5]. In un certo senso, possiamo dire che oggi ogni lotta di classe incontra il suo limite nel fatto che consiste nell'azione di una classe che non trova più - nel suo rapporto con il capitale - ciò che un tempo sembrava invece costituire la sua ragion d'essere e il suo potere: il fatto che incarnava collettivamente il lavoro. Questo rapporto distante ed - per dirla senza mezzi termini - esterno rispetto al proprio lavoro, ossia con il proprio essere proletario, influenza il modo in cui si può lottare, e vincere nella lotta. Tutto ciò che guadagniamo è una perdita rispetto alle condizioni stesse della lotta. Questo stato di cose sembra essersi definitivamente stabilito, e sarebbe un errore credere che invece era necessario ristabilire prima l'unità del proletariato, prima della lotta, per poter così ottenere da quest'ultimo un'azione efficace. L'unità esiste temporaneamente, ma solo nella lotta e tra gli attori della lotta, senza che intervenga necessariamente alcun riferimento alla comune appartenenza a una classe sociale. La "coscienza di classe", non è un dato di fatto che possa essere ricreato dalla propaganda politica, dal momento che è sempre esistita solo in relazione a uno stato specifico dei rapporti sociali capitalistici. Questa relazione è cambiata, così come la coscienza. Ora, dobbiamo schierarci dalla nostra parte.
E dobbiamo schierarci dalla nostra parte, tanto più che questa nuova situazione ci costringe a rivedere le nostre concezioni del comunismo e della rivoluzione, e a comprendere, in modo critico, com'erano nel periodo precedente. Infatti, nel momento in cui l'identità proletaria è stata confermata dal rapporto del proletariato con il capitale, la concezione di cambiamento radicale che si è imposta in modo massiccio – e che è stata ampiamente condivisa da tutti, dai riformisti ai rivoluzionari, dagli anarchici ai marxisti – è stata quella di una vittoria del proletariato sulla borghesia, ottenuta con vari metodi in seguito a una mobilitazione del potere della classe operaia (azione e organizzazione sindacale; conquista elettorale del potere; azione del partito d'avanguardia; autorganizzazione del proletariato...). Questa visione, ripetiamolo, offriva una prospettiva tanto al riformismo quanto alla rivoluzione e permise loro, al di là della loro contrapposizione, di situare le loro dispute su uno sfondo comune. Ed é per questo che, come abbiamo detto, la prospettiva rivoluzionaria e la prospettiva riformista antiquata sono scomparse insieme dal campo della politica ufficiale. Oggi, quando parliamo di riforma, dalla destra all'estrema sinistra dello spettro politico, ci riferiamo a una riforma della gestione del capitalismo, e non più a qualcosa che porterebbe a una rottura con il capitalismo. In una forma innegabilmente ideologizzata, ma la cui esistenza era significativa, quest'ultima idea si trovava ancora nei programmi dei partiti socialisti fino agli anni '70. Da allora, questa prospettiva è stata semplicemente dimenticata. Ora possiamo capire come, sia la prospettiva riformista che quella rivoluzionaria, fossero un vicolo cieco, dal momento che vedevano la rivoluzione comunista come la vittoria di una classe su un'altra, e non come la scomparsa simultanea delle classi. Da qui nasceva l'idea tradizionale del periodo di transizione, nel quale il proletariato, una volta che ha vinto, assume la direzione della società per un periodo intermedio. Storicamente, sappiamo che ciò ha effettivamente portato all'instaurazione di un capitalismo di Stato in stile sovietico, dove la borghesia è stata sostituita da una classe di burocrati legati al Partito Comunista, e la classe operaia rimaneva in effetti sfruttata e costretta a fornire il plusvalore richiesto. Tuttavia, va notato come questa idea di un periodo intermedio sia più ampia dell'idea, strettamente marxista, della "dittatura del proletariato", e ciò perché, in vari modi, i riformisti (che contavano su una presa del potere attraverso le urne), e persino gli anarco-sindacalisti (che pensavano una presa del potere da parte delle strutture sindacali), non si ponevano al di fuori di questo quadro di pensiero. Anche per loro si trattava del trionfo del proletariato - democratico, attraverso gli organi statali, per i riformisti, o attraverso la lotta, con le proprie organizzazioni (sindacali), per gli anarcosindacalisti - cosa che avrebbe dato loro il tempo di trasformare la società attraverso il dominio. Sono stati i dissidenti, sia del campo anarchico che di quello marxista, a elaborare gradualmente una teoria dell'immediatezza della rivoluzione e del comunismo. Sulla base delle loro esplorazioni teoriche di allora, e con il senno di poi della recente trasformazione del capitalismo, siamo oggi in grado di capire come il comunismo possa essere solo la scomparsa simultanea delle classi sociali, non il trionfo, seppur transitorio, di una sull'altra. L'attuale periodo, ci offre una nuova concezione sia della rivoluzione che del comunismo, la quale scaturisce da tutte quelle correnti critiche dissidenti che esistevano già all'interno del precedente movimento operaio, e che l'evoluzione del capitalismo ci mostra come si sono adattati a ciò che è oggi la lotta proletaria. Dato che l'esperienza proletaria quotidiana fa sì che l'appartenenza alla classe tenda ad essere vissuta come una costrizione esterna, ecco che la lotta per difendere la propria condizione viene confusa con la lotta contro la propria condizione. Sempre più spesso, nelle lotte, compaiono pratiche e contenuti che possono essere analizzate in tal modo. Non si tratta necessariamente di affermazioni radicali, o drammatiche. Ma sono altrettante pratiche di fuga, lotte in cui i sindacati vengono screditati e fischiati, ma dove non si dà alcun tentativo di sostituirli con qualcos'altro poiché sappiamo che non c'è nulla da mettere al loro posto; si tratta di rivendicazioni salariali che si trasformano nella distruzione dello strumento di lavoro (in Algeria, in Bangladesh), di lotte in cui non chiediamo il mantenimento dei posti di lavoro bensì un risarcimento (Cellatex e tutto ciò che ne è seguito), di lotte in cui non chiediamo nulla ma in cui ci ribelliamo contro tutto ciò che costituisce la nostra condizione di vita (le "rivolte" nelle periferie francesi nel 2005), ecc. A poco a poco, in queste lotte, emerge una messa in discussione, attraverso la lotta, del ruolo che ci viene assegnato dal capitale. I disoccupati di una certa collettività, gli operai di una certa fabbrica, gli abitanti di un particolare quartiere possono organizzarsi come disoccupati, operai, abitanti, ma assai rapidamente emerge che è proprio questa identità ciò che deve essere superato, affinché la lotta continui. Ciò che è comune, l'unità, proviene dalla lotta stessa, e non dalla nostra identità nel Capitale. In Argentina, in Grecia, in Guadalupa, ovunque la difesa di una condizione particolare è apparsa largamente insufficiente, vediamo che ogni condizione particolare non può più essere identificata con una condizione generale. Anche il fatto di essere "precari", non può costituire una figura centrale nella lotta in cui tutti possano riconoscersi. Non esiste uno "status" del precario, da riconoscere o difendere, perché essere precari - che si tratti di una situazione subita o scelta, o un po' di entrambe le cose - non è una nuova categoria sociale, quanto piuttosto una delle realtà che contribuisce alla produzione di appartenenza di classe in quanto costrizione esterna.
Se, dunque, una rivoluzione comunista oggi è possibile, essa non può che nascere in questo contesto molto particolare: essere proletario viene vissuto come una forma esterna a ciò che si è, sebbene, nel capitalismo, se si deve vendere la propria forza-lavoro, e qualunque sia la forma di questa vendita, non si può essere altro che proletari. Una situazione del genere crea facilmente la falsa idea che possa essere altrove - in un modo di vita più o meno alternativo - che il comunismo può essere creato. Non è affatto un caso che una minoranza, che nei paesi occidentali comincia a essere socialmente consistente, cada facilmente in questo sogno, e immagini di schierarsi contro il capitalismo, e di combatterlo, con questo metodo. Ma la relazione sociale capitalistica consiste nella dinamica totalizzante del nostro mondo, e non c'è nulla che le sfugga. Il superamento di tutte le condizioni esistenti può avvenire solo a partire da una fase di lotta intensa e insurrezionale, durante la quale le forme della lotta e le forme della vita futura prenderanno corpo in un unico e medesimo processo, essendo queste ultime nient'altro che le prime. Questa fase, e la sua attività specifica, è ciò che proponiamo di chiamare con il nome di comunizzazione. La comunizzazione non esiste ancora, ma è tutta la fase della lotta attuale che abbiamo appena menzionato che ci permette di parlarne ora. In Argentina, durante la lotta che ha seguito le rivolte del 2001, sono state scosse le determinazioni del proletariato, come classe, in questa società: la proprietà, gli scambi, la divisione del lavoro, i rapporti tra uomini e donne... Poiché la crisi era allora limitata a questo solo paese, questa lotta non ha mai attraversato le frontiere: eppure la comunizzazione può esistere solo in una dinamica di allargamento senza fine. Se si ferma, morirà, almeno momentaneamente. Ma le prospettive per il capitalismo, dopo la crisi finanziaria del 2008 – una prospettiva che è molto cupa per esso a livello globale – ci porta a credere che la prossima volta il collasso del denaro non si limiterà all'Argentina. Ciò non vuol dire che il punto di partenza sarà necessariamente una crisi valutaria, ma piuttosto ci porta a considerare che, nella situazione attuale, molti punti di partenza sono ipotizzabili, e che la grave crisi monetaria che si profila è senza dubbio uno di questi. A nostro avviso, la comunizzazione sarà il momento in cui la lotta renderà possibile - come uno dei mezzi della sua continuazione - la produzione immediata del comunismo. Per comunismo, intendiamo un'organizzazione collettiva liberata da tutte le mediazioni che, in questo momento, servono alla società per collegare gli individui: denaro, Stato, valore, classi, ecc. Questo perché tutte queste mediazioni non hanno altro scopo se non quello di consentire lo sfruttamento. Anche se vengono imposte a tutti, sono del resto utili solo a pochi. Il comunismo sarà quindi il momento in cui gli individui si relazioneranno direttamente gli uni con gli altri, senza che le loro relazioni interindividuali siano oscurate da categorie a cui tutti dovrebbero sottomettersi. Va da sé che questo individuo non sarà l'individuo come lo conosciamo - quello della società del capitale - ma un individuo diverso prodotto da una forma di vita diversa. Per comprendere questo punto, bisogna ricordare che l'individuo umano non è una realtà intangibile risultante dalla "natura umana", bensì una produzione sociale, e che ogni periodo della storia ha prodotto il suo tipo di individuo. L'individuo del capitale è colui che è determinato dalla quota di ricchezza sociale che riceve: questa determinazione è subordinata al rapporto tra le due grandi classi del modo di produzione capitalistico, il proletariato e la classe capitalistica. La relazione tra le classi viene prima, l'individuo è prodotto come conseguenza; contrariamente alla convinzione diffusa che le classi siano raggruppamenti di individui preesistenti. Pertanto, l'abolizione delle classi sarà l'abolizione delle determinazioni che fanno dell'individuo del capitale quello che esso è: colui che gode individualmente ed egoisticamente della parte della ricchezza creata in comune. Naturalmente, questa non è l'unica differenza tra capitalismo e comunismo: la ricchezza creata nel comunismo sarebbe qualitativamente diversa da quella che il capitalismo è in grado di creare. Il comunismo non è un modo di produzione, nel senso che le relazioni sociali non sono determinate dalla forma che assume il processo di produzione degli oggetti necessari alla vita, ma al contrario sono le relazioni sociali comuniste a determinare il modo in cui gli oggetti necessari vengono prodotti. Noi non sappiamo, e non possiamo sapere, e quindi non cerchiamo di sapere come sarà effettivamente il comunismo. Sappiamo solo cosa, in negativo, attraverso l'abolizione delle forme sociali capitaliste, non sarà. Il comunismo è un mondo senza denaro, senza valore, senza Stato, senza classi sociali, senza dominio e senza gerarchia; e il che richiede che le vecchie forme di dominio che sono state integrate nel funzionamento stesso del capitalismo - come è avvenuto col patriarcato - vengano superate, e che il comunismo debba simultaneamente essere anche il superamento congiunto della condizione maschile e femminile. Va da sé che, nel comunismo, che è fin dall'inizio globale, qualsiasi forma di divisione comunitaria, etnica, razziale, o di altro tipo è ugualmente impossibile. Se non siamo in grado di prevedere e di decidere quali saranno le forme concrete del comunismo, ciò è perché le relazioni sociali non nascono mai da un solo cervello, per quanto brillante possa essere, ma possono risultare solo da una pratica sociale massiccia e generalizzata. È questa pratica che chiamiamo comunizzazione. La comunizzazione non è un fine, non è un progetto; Non è altro che un cammino, ma nel comunismo il fine è il cammino, e il mezzo è il fine. La rivoluzione è precisamente il momento in cui usciamo dalle categorie del modo di produzione capitalistico. Questa uscita è già annunciata nelle lotte attuali, ma in realtà non esiste, nella misura in cui solo un'uscita di massa, che distrugge tutto ciò che incontra sul suo cammino, può essere un'uscita. La comunizzazione - non possiamo dubitarne - sarà un processo caotico. Questo perché la società di classe non morirà senza difendersi in molteplici modi, e la storia ci insegna che la ferocia di uno Stato che cerca di difendere il suo potere è illimitata – tutto ciò che è stato più atroce e disumano dagli albori dell'umanità è stato fatto dagli Stati. È solo in questa lotta fino alla morte, e nelle sue necessità, che l'ingegno illimitato, che può essere liberato dalla partecipazione di ogni persona all'opera della propria liberazione, troverà le risorse per combattere il capitalismo e creare il comunismo in uno stesso movimento. Le pratiche rivoluzionarie della gratuità, dell'abolizione del valore, dello scambio e di tutti i rapporti mercantili nella guerra contro il capitale, costituiscono l'arma decisiva per integrare, attraverso misure di comunizzazione, la maggioranza degli esclusi, delle classi medie e delle masse contadine più povere, in breve, per creare nella lotta quell'unità che non esiste più nel proletariato. E' anche ovvio che la corsa in avanti, rappresentata dalla creazione del comunismo, morirà se si vorrà interromperla. Ogni forma di capitalizzazione delle "conquiste della rivoluzione", ogni forma di socialismo, ogni forma di "transizione", concepita come una fase intermedia prima del comunismo, come una "pausa", diventerò la controrivoluzione, prodotta non dai suoi nemici, ma dalla rivoluzione stessa, e su cui il capitalismo morente cercherà di fare affidamento. Il superamento del patriarcato provocherà uno sconvolgimento tale che dividerà il campo dei rivoluzionari stessi, perché ovviamente quella che verrà cercata non sarà "l'uguaglianza" tra uomini e donne, ma la pura e semplice abolizione delle distinzioni sociali basate sul sesso. È per tutte queste ragioni che la comunizzazione apparirà come una "rivoluzione nella rivoluzione". Solo la molteplicità delle misure di comunizzazione, prese in tutti i luoghi e da tutti i tipi di persone, le quali, quando sono una risposta adeguata a una data situazione, si generalizzano senza che nessuno sappia chi le ha create e chi le ha trasmesse, può fornire un modo adeguato di organizzazione per questa rivoluzione. La comunizzazione non sarà democratica, perché la democrazia, anche la democrazia "diretta", è anch'essa una forma che corrisponde solo a un tipo di rapporto tra l'individuo e la collettività, precisamente quel tipo che il capitale ha spinto al suo estremo, e con cui il comunismo romperà. Le misure di comunizzazione non saranno prese da nessun organismo, da nessuna forma di rappresentanza di nessuno, da nessuna mediazione. Le misure di comunizzazione saranno prese da tutti e nessuno. Saranno presi da tutti coloro che, in un dato momento, prenderanno l'iniziativa di cercare una risposta che considereranno adeguata a un problema di lotta – e i problemi della lotta saranno anche i problemi della vita, come mangiare, come vivere, come condividere con tutti, come lottare contro il capitale, ecc. Ci saranno dibattiti, divergenze, lotte interne: la comunizzazione sarà anche una rivoluzione nella rivoluzione. Non c'è un organo che risolverà questi conflitti: è la situazione che deciderà, ed è, post festum, la storia che saprà chi ha avuto ragione. Questa conclusione può sembrare brusca: ma è che non c'è altro modo per creare un mondo.
- Leon de Mattis - Pubblicato su SIC INTERNATIONAL JOURNAL FOR COMMUNISATION
NOTE:
↑1 Henry Ford, un grande capo americano, aveva sostenuto nel periodo tra le due guerre l'idea che i salari e la produttività dovessero essere aumentati per sviluppare sia la produzione che il mercato che potesse assorbirla.
↑2 E anche ai capitalisti, che non sono padroni delle regole che li rendono padroni.
↑3 Il capitalismo finanziario non è affatto una conseguenza parassitaria del capitalismo produttivo, contrariamente a quanto la vulgata di sinistra vorrebbe farci credere. Al contrario, è indispensabile per l'esistenza del capitalismo produttivo stesso. L'enorme sviluppo della finanza a partire dagli anni '70 ha, tra le altre cose, reso possibile la circolazione globale e istantanea del capitale, uno strumento necessario per l'integrazione globale dei cicli di produzione e consumo.
↑4 Alcuni libertari o comunisti consiliari non esitarono a denunciare il tradimento dei dirigenti sindacali. Ma un tale "tradimento" era inscritto nell'istituzionalizzazione del movimento operaio implicita nell'affermazione del suo potere da parte del proletariato. I dirigenti sindacali erano traditori in quanto, per rafforzare il proprio potere, accettavano di assumere un certo ruolo; Ma non hanno creato questo ruolo. Denunciare semplicemente il loro "tradimento" non è sufficiente, nella misura in cui potrebbe indurre a pensare che altri leader più onesti avrebbero potuto agire diversamente.
↑5 Le lotte di classe nei paesi di recente industrializzazione, come la Cina, l'India, il Bangladesh o la Cambogia, possono essere diverse, dal momento che le lotte che si svolgono lì, ad esempio quelle per i salari, consentono ancora vittorie che hanno una portata molto ampia, ma mai abbastanza ampia, nel capitalismo globalmente integrato. modificare veramente le caratteristiche del rapporto sociale capitalistico. Queste lotte non sono una ripetizione delle lotte che hanno avuto luogo in Europa nei primi giorni del capitalismo, se non altro perché non possono più essere inscritte nella prospettiva rivoluzionaria che è stata quella degli anni '40 e '70 dell'Ottocento.
Nessun commento:
Posta un commento