Moshe Zuckermann è un sociologo e storico tedesco-israeliano che ha scritto molto sulle relazioni di Israele con la Germania, così come sul loro rapporto ideologico con l'Olocausto. Egli critica severamente la politica israeliana e la strumentalizzazione dell'antisemitismo da parte dei vari governi israeliano e tedesco. Contrariamente a quanto immagina una certa sinistra de-coloniale, questa critica non ha nulla a che vedere con la messa in discussione dell'esistenza dello Stato di Israele; su cui esiste un consenso, all'interno della sinistra israeliana, che non è inutile ricordare se si vogliono gettare le basi per una soluzione della situazione in Medio Oriente. La sinistra israeliana può criticare i miti fondanti di Israele e le circostanze della sua creazione, senza mettere in discussione la pretesa di uno Stato ebraico, e questo - aggiungiamo - indipendentemente da quello che si pensa circa la forma moderna dello Stato-nazione, di cui Israele, da solo, non ne può certo costituire l'immagine repellente. Solo un osservatore esterno può associare queste critiche – quelle delle circostanze concrete della creazione di Israele, o quelle della forma statale – con l'assurda idea di mettere oggi in discussione l'esistenza dello Stato di Israele (e di esso solo). Qualunque cosa si pensi del sionismo storico, e per quanto salutare possa essere la sua critica, sia gli israeliani che i palestinesi devono ora affrontarne le sue conseguenze, senza ripetere continuamente lo scenario alternativo di ciò che sarebbe potuto accadere altrimenti, cento o ottanta anni fa. Oggi, la sinistra globale sta sabotando quella che potrebbe servire come base progressista per una soluzione del conflitto, e lo fa continuando a mescolare costantemente il livello della critica storica e politica - il quale è assolutamente necessario - con la questione dell'esistenza stessa di Israele. Questo testo di Zuckermann segna una netta distanza; sia da una sinistra filo-Hamas, la quale continua a invocare l'autodissoluzione di Israele all'interno di uno "Stato binazionale" – visto che al momento è fin troppo evidente che nessuna delle due popolazioni nazionali desidera – sia da una sinistra, soprattutto tedesca, fanaticamente impegnata nella difesa del "diritto a esistere" di Israele, poiché, fondamentalmente, non è questa la domanda,che stacca così un assegno in bianco all'estrema destra israeliana. In questo modo, il progetto sionista, conclusosi con l'effettiva creazione dello Stato viene lasciato sempre "aperto", e viene reso soggetto a una discussione fittizia. Ma senza il pathos legittimante della sinistra tedesca e dell'estrema destra israeliana, che copre le proprie atrocità proprio con l'escalation del "rischio esistenziale", l'esistenza israeliana funziona molto bene. Tutto questo finisce per essere solo un diversivo dai problemi concreti - sia interni che esterni - sia della popolazione israeliana che di quella palestinese. L'autore insiste sul fatto che la realtà dell'imbarbarimento non giustifica il godimento apocalittico del peggio. La discussione odierna riguarda le conseguenze della creazione di Israele – detta in altre parole, la creazione del problema palestinese – e non l'effettiva esistenza di Israele, cosa che non è più in discussione. Presuppone un quadro di analisi sionista, o post-sionista, che di per sé non ha nulla a che fare con la messa in discussione della realtà fattuale di Israele. Zuckermann mostra come questi dibattiti interni di una sinistra occidentale centrata su sé stessa (e sui fantasmi del suo passato) ignorino profondamente le realtà israelo-palestinesi. Dal 7 ottobre, l'aggravarsi di questo "conflitto per procura", come venne definito da Robert Kurz, non fa altro che confermare le sue opinioni, espresse quindici anni fa. In che modo possiamo superare il pantano ideologico che alimenta questo conflitto, e non contribuisce a risolverlo? Robert Kurz rimproverava agli antifascisti di produrre un'immediata identità tra forma-pensiero e ideologia, portando così a quel riduzionismo tipico della critica dell'ideologia che riempie giornali, librerie e talk show. La teoria critica mira invece a un livello più fondamentale rispetto a quello della semplice denuncia dell'ideologia e vuole mostrare da quale terreno nascono e prosperano le ideologie: «La forma-pensiero in sé ”non è" un'ideologia, ed essa, in sé, non produce ideologia. Piuttosto, è l'ideologia a essere una produzione affermativa dei singoli soggetti individuali concreti, che sono di per sé in relazione, essi stessi, alla loro propria costituzione di forma-soggetto e alle proprie oggettivazioni, in un tentativo di spiegare la relazione negativa con il mondo della socializzazione, attraverso il valore e la sofferenza che essa implica, evitando di mettere in discussione la propria forma-soggetto e la propria forma di socializzazione.» (Robert Kurz, "L'ideologia antitedesca. Dall'antifascismo all'imperialismo di crisi: una critica dell'ultimo settarismo della sinistra tedesca e i suoi profeti teorici", Unrast, 2003, p. 268.) L'incapacità - da parte della maggioranza della sinistra che si definisce "antimperialista" o "antifascista" - di distinguere tra questi livelli, la porta a ignorare il punto di vista della forma, e a perdersi in in una caccia alle streghe e a discussioni terminologiche speciose e interminabili prodotte da una immediata identificazione tra forma e ideologia. Robert Kurz era indignato dal fatto che perfino lo stesso Moshe Zuckermann fosse l'oggetto di una simile caccia alle streghe: «L'apice della perfidia denunciatoria viene raggiunto nel momento in cui gli ebrei vengono, senza il minimo scrupolo, fatti oggetto di imputazioni basate sulla logica dell'identità nel momento in cui essi non corrispondono alle idee anti-tedesche riguardo a ciò che i “veri ebrei” dovrebbero pensare. Ad esempio, negli ultimi anni abbiamo assistito a un attacco senza precedenti contro Moshe Zuckermann, direttore dell'Istituto di storia tedesca dell'Università di Tel Aviv, un pensatore ebreo nella tradizione della teoria critica di Adorno, che agli occhi degli ideologi anti-tedeschi avrebbe commesso l'imperdonabile crimine di non condividere le loro interpretazioni controfattuali della situazione mondiale, e in particolare della politica israeliana sotto il governo di destra del Likud.» (Robert Kurz, Ivi., p. 280.)
*** Il testo di Zuckermann, qui tradotto, è apparso per la prima volta in Moshe Zuckermann, "Sechzig Jahre Israel. Die Genesis einer politischen Krise des Zionismus", Bonn, Pahl-Rugenstein, 2009, pp. 131-137. È stato poi ripubblicato nel 2013 in Karin Wilhelm, "Neue Städte für einen neuen Staat", Bielefeld, Transkript, 2013, p. 31-35. Ci siamo permessi di introdurre dei paragrafi per migliorare la leggibilità del testo. Lo pubblichiamo in francese con il gentile permesso dell'autore. (S.A.)
- Sandrine Aumercier - su https://grundrissedotblog.wordpress.com/ -
"Il Diritto all'Esistenza", e l'Esistenza
- di Moshe Zuckermann - 2009 -
In tutto il mondo, i dibattiti su Israele hanno la sfortunata tendenza a dover fingere di chiarire qualcosa di principio, compresa la questione polemica del "diritto di esistere" dello Stato ebraico. È notevole vedere con quanta ovvietà la sua mera esistenza, che dura ormai da 60 anni [*alla data della prima pubblicazione di questo testo, S.A.], possa essere invece messa in discussione, al punto che anche coloro che non la considerano un legittimo argomento di discussione si trovano potenzialmente trascinati in un atteggiamento apologetico. Ci sono diverse ragioni per questo. Da un lato, Israele è stato infatti proclamato in circostanze che hanno dato alla sua creazione formale un carattere artificiale: si trattava della creazione di uno Stato, la cui idea astratta aveva preceduto sia il dominio effettivo del territorio che doveva ospitarlo, sia l'esistenza fisica di una società che doveva popolare quel territorio. Da questo punto di vista, al momento della sua effettiva creazione, Israele non era solo una "comunità immaginata", ma è anche stata immaginata in un momento storico nel quale le condizioni materiali e sociali minime, per la sua realizzazione, appartenevano ancora a un futuro lontano. In secondo luogo, fin dall'inizio, il diritto di Israele a esistere è stato messo in discussione dai suoi vicini arabi, sia a partire dalla loro ideologia proclamata, sia nei periodici tentativi di fare la guerra (e distruggere) allo stato sionista. Il fatto che il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad possa ancora oggi rivendicare l'eliminazione di Israele, sembra irreale e obsoleto a quasi tutti gli stati arabi, ma Ahmadinejad può comunque attingere a una tradizione propagandistica non troppo lontana di quegli stessi stati. In terzo luogo, poiché la creazione dello Stato sionista è stata accompagnata dall'ingiustizia storica commessa contro i palestinesi, quello che gli ebrei hanno visto come se fosse un atto di emancipazione è stato, agli occhi di molti, contaminato dal dubbio morale. Poiché il conflitto israelo-palestinese, scaturito da questa ingiustizia storica, non ha ancora trovato una soluzione politica (né, in questo momento, offre la prospettiva di una soluzione), lecco che allora 'esistenza reale di Israele rimane comunque segnata da un sentimento di incompletezza, da un sentimento che abita non solo i palestinesi, come soggetto collettivo vittime di questo conflitto, ma anche molti israeliani che hanno fatto dell'incertezza sul futuro il colore fondamentale del loro orizzonte storico. E dal momento che - in quarto luogo - gran parte del popolo ebraico non ha scelto di vivere in Israele, e la pretesa che invece fosse così era notevolmente svanita nel corso dei decenni, l'indeterminatezza sul futuro aveva ricevuto quasi una sorta di "legittimazione" psichica collettiva; di certo, a nessuno [in Israele, in Sud Africa] verrebbe in mente di mettere in discussione il diritto dello Stato a esistere, ma tuttavia parlare di esistenza futura ora non è più un tabù, come lo era una volta. Pertanto, la certezza collettiva di sé [degli israeliani, S.A.] si è estesa e ha investito la possibilità, ora accettata, di vivere fuori da Israele. Eppure, è chiaro che la tenace perpetuazione del discorso riguardo il diritto di esistere di Israele, non lo rende certo né più forte né più accettabile del discorso riguardo il diritto di esistere di qualsiasi altro Stato al mondo. Il riconoscimento di uno Stato, o il rifiuto di riconoscerlo, è storicamente soggetto a delle fluttuazioni cicliche ed è sempre guidato da interessi particolari. Ciò induce a mettere in discussione il diritto di affermare l'esistenza, nel suo "principio", senza che però questo fonda qualcosa di essenziale, o esprima qualcosa di universalmente inconfutabile.
Il diritto di esistere che hanno gli Stati non è disponibile per chiunque. Ciò è legato innanzitutto al fatto che un collettivo umano realmente esistente venga codificato, in modo astratto, in quanto "Stato"; codificazione, da un lato derivata dalla storia e, dall'altro (almeno nei tempi moderni), realizzabile da questo collettivo stesso, nella forma di un atto di autodeterminazione sovrana. Tale autodeterminazione, può essere rivista solo dalla collettività che si autodetermina. Certo, altri collettivi possono negare ideologicamente il diritto a questa autodeterminazione; possono persino trasformare il proprio rapporto negativo con la collettività autodeterminata in delle azioni politico-militari. Ma se lo fanno, minacciano l'esistenza reale dello Stato. senza però eliminare il suo diritto inalienabile a tale esistenza. Così, quando l'ex primo ministro israeliano Golda Meir, affermò risolutamente che non esiste un popolo palestinese (non da ultimo, per minare la richiesta palestinese di uno Stato-nazione), una simile affermazione non aveva alcuna rilevanza rispetto all'autodeterminazione palestinese, e alla loro aspirazione a uno Stato palestinese; e quindi non aveva nessuna rilevanza per quanto atteneva al postulato del diritto di esistere di un tale Stato. Si trattava semplicemente di una testimonianza rispetto a quale fosse, all'epoca (e, per certi aspetti, ancora oggi), la reale situazione dell'equilibrio di potere e di dominio tra israeliani e palestinesi. A questo proposito, Meir e Hamas si sono completati a vicenda. Chi trae vantaggio dalla controversia sul diritto di Israele a esistere? Innanzitutto, tutti coloro che portano avanti l'ideologia dello sterminio di Israele; vale a dire, i propagandisti arabi o islamisti che considerano il sionismo come un "corpo estraneo" da eliminare in Medio Oriente. La loro retorica viene a essere formulata interamente nello spirito della polarità amico/nemico, nel quadro del conflitto in Medio Oriente, carico com'è di odio e risentimento. Deriva pertanto la sua presunta legittimità, dalla logica della reale situazione politica nella regione. Al contrario, tra gli antisionisti occidentali e gli oppositori di Israele, il discorso sul diritto di esistere è principalmente dovuto alla proiezione eteronoma delle loro stesse condizioni sul conflitto in Medio Oriente. Questo schema proiettivo, è chiaramente percepibile In quella che è la ricezione tedesca del conflitto israelo-palestinese, nella quale le costruzioni ideologiche di orientamento anti-israeliano, neonazista e di "sinistra", così come le patetiche contorsioni dei solidaristi filosemiti israeliani, che si dilettano nel risentimento islamofobo, costituiscono la rete nervosa delle specificità tedesche e della sua catarsi psico-ideologica. È evidente che la storia catastrofica degli ebrei nel XX secolo, determina sia il risentimento verso lo “Stato ebraico” (compresa la “solidarietà” con i palestinesi) sia la nevrotica “identificazione” con gli ‘ebrei’ in quanto “sopravvissuti alla Shoah”. Tuttavia, tutte queste proiezioni non hanno quasi nulla a che fare con la realtà di Israele, o con quella del conflitto israelo-palestinese. Perché non si tratta tanto del diritto di Israele a esistere, quanto piuttosto dell'esistenza di Israele. E il fatto che sia minacciato, non deriva da un discorso astratto su una qualsiasi definizione dell'essenza del "popolo ebraico", o sulla valutazione normativa del "percorso storico sionista", ma solo dalle minacce interne ed esterne reali e concrete. La reale esistenza di Israele è innegabile: il paese ha visto svilupparsi una società piena di diversità, con mondi umani sfaccettati, a volte antagonisti, una vita quotidiana colorata, spesso isterica, e un particolare universo di esperienze collettive, con le sue specifiche coordinate di coesione e di conflitto; una società con alte pratiche culturali e comportamenti popolari impressionanti. Con conquiste e possibilità - notevoli conquiste scientifiche e tecnologiche - vediamo una cultura del dibattito a volte nervosa, ma anche vitale: in breve, un organismo sociale plurale che, nonostante tutte le sue divisioni e incoerenze, esiste come realtà vivente. Volerla liquidare astrattamente - e il che significa eliminarla - è altrettanto assurdo quanto lo è feticizzarla astrattamente, vedendola come un "rifugio del popolo ebraico", o come "l'unica possibilità di una vita autenticamente ebraica".
Quindi cosa potrebbe davvero minacciare questa esistenza? In primo luogo, naturalmente, gli atti di guerra commessi su larga scala. Negli ultimi anni, in particolare, a causa delle dichiarazioni virulente del suo presidente, l'idea di un Iran potenzialmente dotato di armi nucleari è stata molto discussa. Un tale paese deve infatti essere considerato una minaccia strategica per Israele, soprattutto perché si può presumere che, nonostante tutti gli sforzi (occidentali) per impedirlo, gran parte del Medio Oriente sarà prima o poi dotata di armi nucleari. Ma poiché le armi nucleari non possono essere usate a volontà, ecco che allora la loro natura estremamente minacciosa è stata, fin dai tempi della Guerra Fredda, in qualche modo disinnescata a partire da una "valvola di sicurezza" intrinseca: il famoso equilibrio del terrore. Si dovrebbe presumere che tutti gli Stati interessati nella regione, siano da tempo a conoscenza del segreto meglio custodito; vale a dire che nessun paese nemico può minacciare l'esistenza di Israele (con il nucleare o con altri mezzi) senza rischiare la propria. Sono concepibili piccole guerre regionali, condotte in modo convenzionale, così come una diffusa attività di guerriglia e di terrorismo, ossia sporadici lanci di razzi sulle comunità di confine israeliane, nel nord e nel sud del paese. Ma chi parla di guerra nucleare si esprime in modo molto diverso, in un modo che, se pensato in maniera coerente, la cosa implica uno scenario in cui gran parte dell'intero Medio Oriente potrebbe essere raso al suolo Possiamo rifiutare una visione così apocalittica, e rappresentarla in modo perverso e divertente come se si fosse in un videogioco. È vero. Ma chi - giustamente! - parte dal presupposto che Israele non sia interessato a un simile sviluppo, non può allo stesso tempo supporre che lo sia un altro Stato. La paura di una catastrofe che minaccia la vita e l'esistenza non è un monopolio israelo-ebraico, né un privilegio ideologico. La minaccia militare che incombe su Israele continua quindi a essere parte integrante della sua esistenza - non perché minaccerebbe effettivamente la sua esistenza, ma perché può contribuire in modo decisivo a determinare la forma e il contenuto di tale esistenza, e persino i suoi limiti. In assenza di pace, il bilancio per la sicurezza continuerà ad assorbire la maggior parte del bilancio nazionale, vale a dire, le risorse necessarie per finanziare molti altri settori della società civile, e lo stato sociale della società israeliana. In assenza di pace, non solo i focolai dei conflitti interni e gli assi problematici della società israeliana non potranno essere adeguatamente affrontati e risolti, ma porteranno sempre più alla fuga di capitali e alla fuga dei cervelli, cose queste che stanno già assumendo proporzioni preoccupanti, fino al punto di scuotere le fondamenta della società civile e il sistema sociale dei veri ambienti di vita.
Un Israele che non si integra in Medio Oriente, un Israele che rimane volontariamente un "corpo estraneo" in questa regione, un bastione armato fino al collo in un ambiente ostile, un Israele che non ha alcuna prospettiva storica se non un conflitto permanente e irrisolto, un'ideologia di violenza permanente, uno stato di eccezione come matrice identitaria psico-collettiva, una tale Israele non sarà in grado di esistere a lungo termine – si decomporrà dall'interno, rovinata dalle dinamiche del proprio stato di emergenza, e si dissolverà in elementi incompatibili derivanti dalla sua eterogeneità, carica di contraddizioni e conflitti. Nessun paese confinante è in grado di infliggere a Israele il danno che Israele infliggerà a sé stesso a lungo termine, se non vivrà in pace con il proprio ambiente, anche se questo ambiente gli appare, ideologicamente e genuinamente, come se fosse una minaccia permanente. In questo contesto, “lungo termine” non significa le centinaia di anni di violenza che l'Europa ha “avuto” per consolidarsi come unione attraverso atroci guerre di religione, le rivoluzioni e i massacri militari del XX secolo. Nel caso di Israele, il tempo sta per scadere perché "l'esperimento storico del sionismo” ha raggiunto il punto in cui la decisione di creare le condizioni per la propria sopravvivenza gli è stata strutturalmente imposta. Indubbiamente, Israele è indubbiamente passato dal complesso di Masada alla sindrome di Sansone: ora non si possono più "gettare gli ebrei a mare". Tutti loro – sia gli ebrei che i loro nemici – sono sul punto di affondare tutti insieme. Ma questa non è certo una prospettiva per l'educazione dei bambini, non è una prospettiva per l'autodeterminazione collettiva, non è una prospettiva per un'esistenza umana che prenda sul serio l'umanità, e che aspiri alla sua realizzazione. La capacità di Israele di esistere non si misura a partire da definizioni astratte della sua esistenza, né dalle disposizioni presumibilmente vincolanti della sua "identità"; la quale si impone solo assicurandosi un'ideologia egemonica. Si sono sviluppati mondi umani, che devono essere compresi in base alla loro evoluzione storica, e non in base a dei criteri ideologici e rigidi del programma purista che il sionismo classico si è posto (o che forse è stato costretto a darsi). Tra gli abitanti di questo paese è maturato un senso di appartenenza, il quale va decodificato a partire dalla logica di questa rete globale di esistenza ebraica (compresa la sua evoluzione storica), e non per mezzo dei postulati medi dell'ideologia del "nuovo ebreo". Ma è proprio riguardo a questo, che lo Stato di Israele deve decidere ciò che vuole. Questa decisione non è facile alla luce delle spaccature e degli intrecci interni. E tuttavia, c'è una cosa che Israele non ha il diritto di volere, ed è quella di mantenersi in uno stato di stagnazione indefinito, nella storica zona grigia di un'aporia tra un'occupazione veramente perpetuata e una richiesta ideologica di pace. I palestinesi non lo permetteranno, né lo permetterà "il mondo", ma certamente non lo permetterà la logica strutturale interna di Israele, che ha ora raggiunto un bivio storico; se quello Stato vuole sopravvivere alle avversità storiche che ha causato.
Moshe Zuckermann, 2009 – ***
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