Un giorno di ottobre del 1955, Arthur Koestler picchiò una donna fino a farla morire. Era una delle sue tante "amanti delle ombre", una ragazza con cui aveva trascorso un delizioso fine settimana qualche giorno prima: Mozart, vino bianco e una passeggiata a Oxford. Quindici anni prima, Walter Benjamin aveva dato a Koestler metà delle pasticche di morfina che poi avrebbe consumato, per suicidarsi, a Portbou. Koestler, arrivato a Lisbona, diede una delle pillole al suo amico Manès Sperber e poi, una notte, decise di togliersi di mezzo prendendo il resto delle pillole: ma non ci riuscì, la mattina dopo le vomitò tutte! Questa storia - del suo tentativo di suicidio e del suo incontro con Benjamin - è stata poi raccontata a Gershom Scholem e a sua moglie; in proposito, entrambi considerarono, a causa del modo apparentemente frivolo ed egocentrico che Koestler aveva di spiegare tutto ciò che gli succedeva, che fosse un soggetto «vile e spregevole». Scholem scrisse ad Hannah Arendt una lettera, spiegando tutta la storia: «Ci ha detto che Benjamin gli aveva dato metà della sua morfina, peccato che non sia stato più generoso, visto che il buon vecchio Koestler, a Lisbona, l'ha poi ingollata tutta, per vomitarla subito, un giovane in ottima salute! L'unica cosa buona su di lui che posso sottolineare è il suo libro sui processi di Mosca». Scholem si riferiva al romanzo "Buio a Mezzogiorno", e mostrava di non essere in grado di capire che Koestler non avrebbe mai potuto scrivere un libro così tanto importante senza quella percentuale di disturbo mentale che poi lo avrebbe portato all'egomania feroce, all'alcolismo e alla violenza. Qualcosa, questo, che invece venne perfettamente compreso dall'agente dei servizi segreti britannici che assistette all'interrogatorio nel carcere di Pentonville, dove Koestler, era arrivato come rifugiato - nel bel mezzo della guerra mondiale - dopo essere sfuggito alle autorità francesi, subendo anche diversi mesi di internamento nel campo di concentramento di Le Vernet. L'agente britannico, concluse allora che lo scrittore era per un terzo un genio, per un terzo un farabutto e per un terzo un pazzo. Sarebbe bastata l'assenza di uno solo di questi tre ingredienti, per impedire a Koestler di essere quell'«intellettuale esemplare» che lo storico Tony Judt avrebbe poi visto in lui: ne "L'età dell'oblio. Le rimozioni del '900", Judt ha sottolineato, brillantemente e onestamente, l'importanza del genio di Koestler, senza però mercanteggiare circa i suoi problemi con l'alcol e con le donne, e soprattutto senza ignorare ciò che c’era in lui di folle e criminale. A ogni modo, si lamentava del fatto che Koestler fosse ormai un nome dimenticato, e che il suo libro più famoso, "Buio a Mezzogiornio", fosse solo un libro di nicchia. Ma tuttavia, se diamo un'occhiata ai libri di Koestler apparsi negli ultimi dieci anni, vediamo un'ottantina di nuove edizioni - soprattutto in tedesco, in francese e in inglese, ma anche in turco, in ceco, polacco, rumeno, italiano, svedese, hindi... - e non solo di "Buio a Mezzogiorno", o dei suoi libri autobiografici, ma anche di altre opere più rischiose dal punto di vista editoriale (cioè, commerciale). Senza essere esaustivi, in Francia sono apparsi diversi libri di saggi, tra cui quello dedicato alla Palestina, ma anche "Lo yogi e il commissario", oltre a "I sonnambuli" (volume che include la sua favolosa e divertentissima biografia di Johannes Keplero), mentre in Turchia e in Ungheria – e anche, e di nuovo, in Francia – ha visto la luce il suo appassionante libro "La tredicesima tribù. L'Impero dei cazari e la sua eredità"). In tedesco e in francese, inoltre, è apparso anche un curioso romanzo inedito, "Die Erlebnisse des Genossen Piepvogel in der Emigration" (Le esperienze del compagno Piepvogel in esilio), il cui manoscritto è stato ritrovato in un archivio russo da Henrik Eberle e Julia Killet.
Aveva ragione Tony Judt? Oggi, Koestler è davvero un autore dimenticato? Da un punto di vista globale, e soprattutto da un punto di vista europeo, non sembra che sia così; eppure è questa la sensazione che viene trasmessa dalla scena editoriale di lingua spagnola. In America Latina, negli ultimi dieci anni, sono apparsi solo due titoli: in Cile, "Los sonnambulos"; e in Messico il romanzo "Ladrones en la noche", in cui si parla della persecuzione degli ebrei e della "etica della sopravvivenza" (libro di cui Anthony Burgess ha detto: «Se il potere corrompe, è vero anche il contrario. La persecuzione corrompe la vittima, anche se forse la cosa avviene in modi più sottili e tragici»). La Spagna, da parte sua, salva un po' di più la faccia. La casa editrice "Página Indómita" ha recuperato i due libri di saggi selezionati che erano stati pubblicati, ai loro tempi, da Kairós, "Alla ricerca dell'utopia" e "Alla ricerca dell'assoluto". Da parte sua, "Libros del K.O." ha pubblicato un libro che era inedito in spagnolo, "L'Artico dalla finestra di uno zeppelin", metà del libro "Von weißen Nächten und roten Tagen" (Sulle notti bianche e i giorni rossi), sulle sue peregrinazioni in URSS tra il 1931 e il 1932. Inoltre, Jorge Freire ha pubblicato un'opera incentrata sulle avventure dell'intellettuale mitteleuropeo nel nostro paese: "Arthur Koestler, il nostro uomo in Spagna". Ma quando si è trattato di scommettere su Koestler, forse la più coraggiosa è stata "Ladera Norte", una nuova casa editrice, con la pubblicazione di "Schiuma della Terra", il libro autobiografico sull'odissea francese che si concluse, in sicurezza, a Pentonville; e anche con "Il Dio che ha fallito", un’antologia compilata da Richard Crossman e che include testi di sei ex comunisti: André Gide, Ignazio Silone, Louis Fischer, Richard Wright, Stephen Spender e, naturalmente, Arthur Koestler. Nel mondo occidentale, in qualche modo, Koestler è ancora vivo, e la sua fiamma non si è ancora spenta. La sua scrittura è appassionata, ma è soprattutto lucida e pulita, con sprazzi di quello che è un fine senso dell'umorismo, anche quando affronta i momenti più bui della storia europea. La sua intelligenza è insondabile, quanto lo è il suo umanesimo, e rimane da apprezzare il fatto che ci sia un pugno di uomini che insista a ripubblicarlo, mentre un altro buon manipolo metta mano alle tasche per comprare i suoi libri, fondamentali per illuminare il presente, sebbene siano stati scritti più di settant'anni fa.
Koestler - nato nel 1907- è stato figlio di un tempo e di un luogo. Era un intellettuale continentale, chiaramente mitteleuropeo. Sua madre era stata amica e paziente di Sigmund Freud, e Koestler si rivolse alle teorie freudiane per riuscire a spiegare per prima cosa sé stesso: la sua estrema timidezza, il suo complesso di inferiorità, le sue depressioni, i suoi impulsi suicidi e le sue inclinazioni politiche (oggi, probabilmente, si sarebbe fermato agli studi di genetica evoluzionistica – penso a Richard Dawkins – per capire cosa egli cercasse in Freud, all'epoca). Egli comprendeva tutto. Quando Anthony Burgess scrisse il suo romanzo, "Gli strumenti delle tenebre", si avvalse del suo protagonista, un anziano scrittore omosessuale, per collocarlo nei «punti più alti dell'umanità» durante il XX secolo. Anche Koestler fece lo stesso, però da sé da solo: nel 1926 lavorò in un kibbutz a Chefziba. Dieci anni dopo fu in Spagna durante la guerra civile e visitò entrambe le zone: subì con autentico terrore il bombardamento di Madrid, venne arrestato dai franchisti a Malaga per poi venire rinchiuso per diversi mesi a Siviglia. Visse in prima persona l'occupazione della Francia, passò quindi per il campo di concentramento di Le Vernet e riuscì a farsi portare in Inghilterra, dove si arruolò immediatamente nell'esercito. Finita la guerra, guidò la lotta ideologica contro il comunismo, creando il Congresso per la Libertà di Cultura, e quando aveva già detto e scritto tutto ciò che si poteva dire e scrivere sulla politica del proprio tempo, destinò parte della sua ricchezza ad aiutare gli intellettuali in fuga dal totalitarismo comunista, e il suo tempo a ricerche scientifiche sui fenomeni paranormali, cosa che nel corso del tempo gli sarebbe valso un certo discredito. Discredito che si riaccese dopo il suicidio, del 1983, con la moglie Cynthia: in molti sospettarono che avesse costretto la moglie a morire con lui.
L'influenza politica di Koestler, la sua critica del totalitarismo comunista e la sua ferma difesa della verità, si sono definitivamente riflessi nel suo libro di saggi, "The Trail of the Dinosaur" (1955), dove incluse anche "Il diritto dell'uomo di dire no"; che fu il manifesto finale del Congresso per la Libertà Culturale – e "Per una legione europea della libertà", una proposta per creare un esercito europeo. Sebbene Koestler concepisse "Il sentiero del dinosauro" come sorta di un suo"addio alle armi" del mondo della politica, egli fu tentato di tornare nell'arena dei media, per esporre la sua visione del comunismo e della Guerra Fredda. Una di queste volte, si verificò alla fine degli anni '60, tramite un intellettuale polacco, esiliato involontario negli Stati Uniti, Witold Sworakowski. Sworakowski lavorava presso la Hoover Institution, e presso la Stanford University, preparando l'ultimo capitolo della sua serie di documentari, "The Red Myth", prodotta dal network californiano KQED. La serie, presentava la storia del comunismo, adattata per l'americano medio, senza intenzioni propagandistiche, sebbene il pregiudizio fosse, naturalmente, anticomunista. La sceneggiatura, era basata su delle frasi letterali di Marx, Lenin, Stalin, ecc., mentre i capitoli consistevano in drammatizzazioni, realizzate per mezzo di attori professionisti (una curiosità: il personaggio di Stalin era interpretato da Henry Leff (quello che nel film di Woody Allen, "Prendi i soldi e scappa", nascosto dietro occhiali, naso e baffi finti interpretava il ruolo del padre del protagonista). La serie ebbe un certo successo e venne trasmessa da numerose reti in tutto il paese, sebbene i critici non presero molto sul serio alcuni uomini sovietici che negli episodi parlavano un inglese perfetto. Al giorno d'oggi suona un po' ridicolo, non tanto per la sceneggiatura, quanto piuttosto per la messa in scena ormai datata. L'ultimo capitolo includeva una breve intervista a diversi rinnegati comunisti. Sworakowski, tra gli altri, aveva scelto Benjamin Gitlow, ex membro del Partito Comunista Americano e collega dello scrittore John Reed; Leonhard Frank, che pur non essendo un rinnegato vero e proprio - visto che non aveva mai appartenuto al partito - era tuttavia anticomunista, e conosceva molto bene il mondo sovietico fin nelle sue radici; lo spagnolo Enrique Castro Delgado, primo comandante del 5° Reggimento durante la guerra civile, e poi rinnegato del comunismo; e infine Arthur Koestler stesso. Koestler, aveva deciso di accettare l'invito di Sworakowski. Ma poi, però, mentre preparava il suo discorso, si rese conto che il tempo che gli avevano chiesto - non più di 6 minuti - era assolutamente insufficiente per poter esprimere le sue idee con una certa profondità:
«Londra, 26 dicembre 1960,
Caro professor Sworakowski, La ringrazio molto per la sua lettera. Apprezzo la fatica che avete profuso per spiegare dettagliatamente il lavoro dell'Istituto. La verità è che ho visitato Stanford nel 1948 e conosco l'ammirevole lavoro che l'Istituto fa. Il motivo della mia apparente mancanza di collaborazione, è puramente personale. Nel 1955 pubblicai un volume di saggi, nella cui prefazione dicevo che, dopo essermi occupato del comunismo per un quarto di secolo, non avrei più scritto sull'argomento e che mi sarei concentrato su altre questioni. In questi cinque anni, ho mantenuto rigorosamente la mia parola. Dapprima, accettai il suo invito a partecipare al programma poiché pensavo che implicasse solo ripetere ciò che avevo ampiamente esposto nei miei libri. Ma quando ho cercato di formulare il mio discorso, mi sono trovato di fronte a un blocco psicologico, proprio perché non riuscivo a comprimere in quattro o sei minuti, se non semplificando eccessivamente, quello che cercavo di dire in più volumi. Non dubito che altri possano farlo; succede semplicemente che io non posso. Spero che possiate capirlo e scusiate l'inconveniente causato.
Con i miei migliori auguri, vi saluto sinceramente, Arthur Koestler»
In realtà, Koestler continuò il suo lavoro intellettuale al di fuori del saggio politico, e fece delle piccole incursioni in televisione e alla radio, per parlare delle sue esperienze. Nel 1961 viene intervistato dall'emittente canadese CBC insieme ai colleghi de "Il dio che ha fallito” (con l'eccezione di Gide, che era già morto), per parlare della sua esperienza di comunista e di rinnegato; e nel settembre 1966 apparve davanti alle telecamere tedesche per essere intervistato dal critico teatrale Friedrich Luft, nel programma "Das Profil", dove parlava per circa mezz'ora della propria vita. Nel novembre dello stesso anno, partecipò al documentario "Crociata in Spagna" trasmesso anch'esso dalla CBC, dove parlò della guerra civile spagnola con Stephen Spender, tra gli altri intellettuali che avevano vissuto il conflitto e che furono intervistati dal giornalista inglese Malcolm Muggeridge, che era stato un altro rinnegato del comunismo, disilluso e disgustato dall'ideologia salvifica dell'essere umano, dopo aver visitato la Russia e avere appreso in prima persona del coinvolgimento sovietico nella carestia in Ucraina. Koestler, ha indubbiamente mantenuto la sua presenza mediatica anche mentre perseguiva i suoi bizzarri libri sulla scienza e sulla para-scienza, e non solo alla radio e alla televisione, ma anche sulla stampa, dove pubblicava regolarmente i suoi articoli. Sebbene fosse lontano dalla politica, le sue polemiche non ci hanno mai fatto dimenticare le sue origini di militante delle schiere della libertà. Nella sua testa, entrambe le cose erano curiosamente mescolate. Del resto, la sua unica ossessione era sempre stata la salvezza dell'uomo, come avrebbe spiegato Anthony Burgess, nel necrologio che ha dedicato all'ungherese:
«Nei suoi ultimi anni stava lottando per trovare una soluzione al disastro in cui versava l'umanità. Era preoccupato che gli esseri umani sembrassero fatti in un modo tale da non poter essere creati senza che fossero anche violenti. Ha fatto fatica a trovare una via d'uscita dall'impasse: qualche nuova terapia chimica, forse? La preoccupazione per l'umanità implicava una lotta perpetua. Alla fine, si è arreso».
Credo che Burgess sia stato l'intellettuale inglese che abbia meglio capito Koestler. È sorprendente come l'ungherese sia stato citato da scrittori che lo ammiravano - come Martin Amis e Christopher Hitchens - ma che non hanno lasciato quasi nessuna traccia scritta delle ragioni della loro devozione. In effetti, anche il necrologio di Burgess non viene incluso in nessun libro (come tanti altri suoi testi giornalistici, è vero). È possibile che su di lui pesasse troppo l'ombra della sua violenza, per poterla sollevare e dissipare così la nebbia mefitica che emanava dalle sue alterazioni alcoliche, sebbene quelle riluttanze a parlare in profondità di Koestler forse avevano, piuttosto, più a che fare con il suo controverso suicidio. Di fronte alla sua figura, rimasero più scossi dall'orrore del tabù, che dalla forza del totem. In ogni caso - e almeno dal punto di vista politico - il suo capolavoro non fu un libro, ma il Congresso per la Libertà della Cultura, che egli chiuse dalla tribuna, il 29 giugno 1950. Il Congresso fu un vero e proprio grattacapo, per i sovietici e per i loro compagni di viaggio occidentali, ma lo fu anche per altri scrittori impegnati in qualche modo per la libertà.
È il caso di Hannah Arendt. La tedesca disprezzava Koestler; com'è dimostrato nella corrispondenza che intratteneva con alcuni intellettuali del suo tempo. Il suo disprezzo arrivò al punto di non citare mai, nel suo articolo sugli ex-comunisti (Commonweal, 20 marzo 1953), chi fosse indubbiamente l'ex comunista più noto, più rilevante e influente; fornendo invece come esempio Whittaker Chambers, di cui affermava - falsificando la realtà - che sarebbe stato accettato dalla società come il portavoce degli ex-comunisti! In una lettera a Karl Jaspers, Arendt sosteneva che, nelle loro macchinazioni politiche e nella vita sociale, i comunisti usavano metodi totalitari. Ed è in questa lettera, che Arendt dimostra il suo disorientamento rispetto al comunismo (come vide Isaiah Berlin, ai suoi tempi) e rispetto alla lotta contro il comunismo. Parlando del Congresso per la Libertà della Cultura dice a Jaspers che «Dio sa che non ha mai mosso un dito in questo paese né per la cultura né per la libertà e [...] È diventato un punto di raccolta per quei ragazzi», riferendosi agli ex comunisti. Era anche preoccupata che Jaspers facesse parte della presidenza del Congresso, cosa di cui il filosofo si difendeva inutilmente, dal momento che lei continuò a criticare il Congresso e i suoi organizzatori in un modo tanto ossessivo quanto meschino («Penso che Counts sia un alcolizzato e so che è un completo idiota», disse a proposito dell' insegnante George Counts). Due anni dopo, tuttavia, accolse con entusiasmo l'invito del Congresso per la libertà culturale a recarsi in Italia. «Tutte le spese sono pagate!», scrisse. Il Congresso, tuttavia, era servito assai più che a pagare il viaggio di Hannah Arendt in Italia. L'idea dei suoi promotori era stata quella di scegliere Berlino, come modo per mettere davanti ai russi «un inferno alle porte del loro stesso inferno». Sebbene fosse stato screditato a causa dei finanziamenti che aveva dalla CIA; come sottolinea il professore di filosofia Gregorio Luri: «la CIA aveva non solo il diritto, ma l'obbligo, di partecipare alla guerra culturale, che era il vero fronte di battaglia della Guerra Fredda, promuovendo contro-valori che potessero competere efficacemente con i dogmi della cosiddetta arte socialista».
Il successo ottenuto dal congresso portò a nuove convocazioni, ma la prima convocazione venne ricordata, non solo per il suo impatto simbolico, ma proprio per quell'inferno che bruciava alle porte dell'inferno comunista - che di lì a poco si sarebbe chiuso con il Muro – bruciava per la rivendicazione di un mondo libero che Koestler riassunse nel grido con cui si concluse l'ultima sessione, davanti alle quindicimila persone che avevano riempito i giardini della Torre delle Comunicazioni Ovest, dopo aver letto un manifesto in quattordici punti in difesa della libertà intellettuale e del diritto di avere ed esprimere le proprie opinioni, in particolare le opinioni che differiscono da quelle dei governanti, perché, privato del diritto di dire "no", l'uomo diventa schiavo: «Freunde, die Freiheit hat die Offensive ergriffen!» («Amici, la libertà è passata all'attacco!»). Ciò che aveva motivato il grido finale di Koestler, continua a essere valido in giorni burrascosi come lo sono quelli del presente, in questi tempi di tribolazione, di paura, di dubbi e di inquietudine per l'immediato futuro, in cui tutto scricchiola sotto i nostri piedi, come un sottile strato di ghiaccio, e scopriamo la fragilità delle nostre certezze, in cui vediamo la libertà e la democrazia messe in discussione da piccole orde di persone vocianti, ed è difficile per noi spiegare quali strade sbagliate siano state prese per arrivare a questa situazione, quali avvertimenti non sono stati ascoltati, quali sono stati ignorati per amore della tranquillità e della condiscendenza con i nemici della libertà. Il fatto che Koestler venga ancora pubblicato (e che, presumibilmente, continui a essere letto) rimane ancora una sorpresa più che piacevole; egli è l'emissario dell'ottimismo. Perché di Koestler, di quest'uomo che nella sua vita ha assunto i destini dell'Europa, di quest'uomo che è stato allo stesso tempo furfante, genio e pazzo, possiamo dire ciò che Cunqueiro ha detto di uno dei personaggi favolosi con cui ha popolato i suoi libri: «Dalla sua bocca sono usciti, in parole concertate, mille ordini tremanti al mondo: tale è la missione del poeta. Ha percorso le vecchie strade che hanno cucito insieme le terre e i cuori di un tempo, e senza le quali l'Europa - cioè la libertà - non è possibile».
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