domenica 22 giugno 2025

La Scomparsa della “Rivoluzione” ?!!???

L'anarchismo oggi
- Il pensiero libertario e la partecipazione popolare al XXI secolo -
di Miguel Amorós

« Non c'è anarchismo più autentico di quello capace di rivolgere verso di sé il più implacabile degli sguardi critici.» Tomás Ibáñez

Oggi, grazie a un apparato statale ipersviluppato, soprattutto sul piano militare, asservito a un mercato onnipresente, e in assenza di forze sociali che lo sfidino, la parola "rivoluzione" è scomparsa dal vocabolario degli oppressi e degli sfruttati. Da nessuna parte vediamo una massiccia convergenza di insoddisfazioni di vario genere che riesca a rendere inevitabili i grandi sconvolgimenti sociali. Nessuno sente l'avvicinarsi dei grandi cambiamenti, e sono pochi quelli che li vogliono. Anzi, al contrario, la maggior parte li teme. In queste condizioni, il rifiuto del principio di autorità – fondamentale per ogni libertario – si scontra con il muro invalicabile della rassegnazione e della paura, le piaghe ideali al fine di uno sviluppo infinito dello Stato. Il pensiero antiautoritario, incapace di coniugarsi con qualsiasi rivolta degna di questo nome, si rinchiude nella propaganda, laddove l'azione, rara e slegata dal pensiero veramente sovversivo, manca della “audacia dell'idea” (come direbbe Kropotkin) e quindi, dopo i primi momenti di euforia esistenziale, finirà per seguire percorsi che lo contraddicono, fino a svanire.
Da un lato, la lunga paralisi del movimento operaio ha ormai ridotto al minimo le organizzazioni anarco-sindacaliste; l'asse attorno al quale ruotava il movimento libertario. L'istituzionalizzazione burocratica delle trattative sindacali ha reso sempre più difficile l'azione diretta, per dei lavoratori sempre meno combattivi. Dall'altra parte, la disgregazione delle idee di modernità – universalità, ragione, progresso – ha fatto sì che l'anarchismo di oggi, quello che nasce dall'occupazione delle piazze, dalla musica punk e dall'alter-globalizzazione dei giovani, precipitasse nel presentismo, nell'intersezionalità, nell'identitarismo e nell'oblio. In aggiunta a tutto ciò, il fatto che la maggior parte delle persone coinvolte nei conflitti siano appartenenti alle classi medie salariate, che notoriamente si identificano con lo Stato, con i metodi autoritari e con le leggi borghesi, ha trasportato ogni e qualsiasi movimento di protesta all'interno di una fluidità relativistica, fatta di confusione e di possibilismo. Una volta evaporato il proletariato radicale, e consolidatasi la mentalità meso-cratica, anziché minare la supremazia dello Stato e il rispetto dei governi, la protesta sociale tende piuttosto a limitarsi nelle sue rivendicazioni, e a confinarsi nel locale, senza mettere di fatto in discussione la legittimità delle istituzioni, né tantomeno mettere seriamente in discussione il gioco politico del dominio. Con il pretesto di ottenere risultati immediati o di ripudiare la violenza, si evita l'impegno, e si rinvia la causa rivoluzionaria a un orizzonte lontano e irraggiungibile. Nella società, sotto il regime capitalista, ci sono stati molti cambiamenti regressivi, e non solo nel movimento sindacale: la divisione del lavoro, la sociabilità popolare, i legami generazionali, la diffusione delle psicopatologie, la burocratizzazione, ecc. Il sistema dominante è diventato più sofisticato, e man mano che il suo potere è cresciuto, e la sua portata è stata ampliata grazie alla tecnologia dell'informazione e del debito, si è rafforzato. Di conseguenza, lo schema bipolare della borghesia e del proletariato non spiega più nulla, poiché è stato troppo a lungo fuori dalla realtà. La rivoluzione risultante da un tale scontro di classe, è ora impossibile. Né tantomeno oggi esiste un progetto rivoluzionario credibile basato su questa presunta rivalità. La generalizzazione del lavoro salariato, dei servizi pubblici, dell'atomizzazione, dei consumi, della sorveglianza digitale e, ripetiamolo, dell'influenza politico-ideologica esercitata dalle classi medie, sono tutti fattori che hanno modificato sostanzialmente la natura delle classi e i loro rapporti di forza, acuendo gli antagonismi e la concorrenza, e disarmando le coscienze. I meccanismi di addomesticamento e di sottomissione appaiono essere sempre più efficaci, e i mezzi di controllo sociale dello Stato sono sempre più potenti. Il peso opprimente del presente, principale fonte di conformismo, e il conseguente disprezzo per la memoria, hanno diluito la fiducia nel futuro, e quindi nell'utopia su cui si basavano le speranze di trasformazione rivoluzionaria.
La questione sociale - che nella società delle classi contrapposte si rifletteva in modo unitario nell'obiettivo dell'emancipazione proletaria - oggi, senza un soggetto storico che la porti avanti, senza una comunità operaia che la incarni, senza un progetto sociale che la proponga, si disperde in una pluralità di questioni eterogenee e separate, ciascuna circoscritta nei propri "movimenti sociali": femminista, gay, ambientalista, antimilitarista, squatter, anti-sviluppo, pro-casa, vegana, ecc. Dove prima c'era una classe, ora ci sono diversi collettivi interclassisti, ognuno con i propri obiettivi e con le proprie dinamiche specifiche, incapaci di costituirsi come soggetto universale, dal momento che ognuno di essi non sarà mai in grado di fondere tutte le loro particolarità - comprese le proprie - in una sola. Non fanno nemmeno finta di provarci. Ciò che li caratterizza tutti, è la timidezza nell'azione e l'ambiguità dei loro obiettivi, che ben corrisponde alla volontà isolazionista, all'attivismo virtuale e al rifugio nel presente. In questo contesto, i gesti irrilevanti, le tattiche riformiste e la tendenza ad accogliere le istituzioni hanno la precedenza sulle reali alternative di cambiamento e sul desiderio di auto-organizzarsi per poterle realizzare. Dove mancano i riferimenti e prevalgono le misure legalitarie, dove l'azione si fonde con lo spettacolo e dove il dibattito rimane prigioniero delle reti sociali, ecco che l'autentica partecipazione si riduce a nulla: in uno scenario del genere, la democrazia diretta non è praticabile. E senza di essa, non c'è rivoluzione.
Molti degli autori vicini a essa, sono di grande valore – per esempio Murray Bookchin, James Scott, David Graeber, Jacques Ellul, Lewis Mumford, Günther Anders, Raoul Vaneigem – ma tuttavia non esiste un ragionamento speculativo, economico o scientifico, che spieghi in maniera convincente il momento presente nella sua interezza, né tantomeno offra una base teorica completa con cui orientarsi nella prassi. L'epoca attuale non è favorevole a una libera discussione collettiva, e nemmeno a una discussione in generale. L'ordine stabilito tiene le masse occupate con altre cose. Il pensiero delle masse rimane pertanto dormiente. Le ideologie progressiste e le ortodossie del passato - siano esse di tendenza operaista o meno - sono anch'esse una misera compensazione, in quanto sono superate, fuori dai giochi, proprio come lo è il concetto di proletariato del XIX secolo. Piuttosto, purtroppo, i tempi si prestano assai bene a delle formule salvifiche come la decrescita, la fuga nelle campagne, il cosiddetto "assalto" alle istituzioni, il Green New Deal, o l'economia circolare. Il momento appare favorevole anche ai fondamentalismi redentori, ai patriottismi parrocchiali e ai catastrofismi apocalittici; tutti spesso usati dal dominio. Ecco perché il pensiero libertario contemporaneo, se vuole essere utile, deve prima lottare contro tutti i discorsi irrazionali e astenersi dall'inventare un nuovo credo post-moderno, e ancor meno creare un'organizzazione polimorfa per diffonderlo. Deve svelare le menzogne dell'economia, e correggere i torti della storia. Deve smascherare la predicazione demagogica del potere. Deve smascherare le illusioni dell'ideologia e dimostrare la perniciosa inutilità dello Stato. Con tutti questi obiettivi bene in mente, deve partire dall'esistente in modo critico e penetrarlo, promuovendo, in maniera generale, tutte quelle evoluzioni dirompenti che portino a una società senza padroni: il processo di deindustrializzazione, di de-mercificazione, di de-urbanizzazione, di smilitarizzazione, di decentramento e di de-statizzazione.
Ovviamente, i partigiani del libero accordo, dell'autogestione, dell'equilibrio con la natura e con le forme di vita collettive o comunitarie, sono ben lungi dal poter opporre alle forze del dominio una forza di maggiore grandezza. Ma è anche vero che si stanno facendo delle piccole battaglie negli ambiti più diversi, le quali devono necessariamente convergere tutte l'una sull'altra, dal momento che esse hanno la loro origine nelle contraddizioni del sistema stesso: in materia di affitti, sfratti, occupazione, pensioni, patriarcato, sessualità, alimentazione, sanità, immigrazione, carceri, infrastrutture industriali e stradali, media, difesa del territorio e così via. Quando le lotte avranno raggiunto un certo livello, allorché andranno oltre l'ordine pubblico, allora si libererà un'energia sufficiente ad aumentare la capacità popolare di auto-organizzazione, di solidarietà e di unità, creando così le condizioni perché possano emergere  strutture comunitarie – orizzontali, assembleari e federative – per formare delle istituzioni autonome, al di fuori dello Stato, che saranno in grado di resistere alle manovre dei partiti e alle manipolazioni esterne.
Un clima di guerra civile, favorisce il risveglio delle iniziative popolari, e lo sviluppo intellettuale e morale degli oppressi. La distruzione - come direbbe Bakunin -  diventa una forza creatrice. Ma in quello che è un contesto di potere quasi assoluto della classe dominante, l'azione costruttiva riesce a provocare più crepe nell'immobilità imposta dal suo dominio, di quanto riesca a farlo l'azione distruttiva, la quale è assai meno praticabile. Tuttavia, la negazione va di pari passo con l'affermazione. Più che di tattiche interne, violente o pacifiche, si tratta di strategie di separazione e di demolizione. Se dobbiamo cercare la partecipazione paritaria nella pratica, anziché il pragmatismo sotto l'egida di un leader, allora è una questione di dibattito e di rotazione dei compiti. Più che di organizzazione, si tratta di tessuto sociale, di spazi vitali in seno ai quali ripensare le relazioni sociali a tutti i livelli; o piuttosto di una contro-società ribelle, con le proprie abitudini cooperative e difensive che si ponga ai margini dell'establishment. E contro-società significa contro-cultura, alla cui ideazione e sviluppo lo spirito libertario - purché si liberi della zavorra di modalità ideologiche fallimentari e di cliché alla moda - ha molto da offrire.

- Miguel Amorós, pubblicato sul sito Kaos en la red, il 9 febbraio 2025 -
- fonte: Atelier d'Écologie Sociale et Communalisme -

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