mercoledì 12 marzo 2014

Parabole

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George Orwell e la critica della modernità
di Robert Kurz

Nella storia della letteratura, sono apparse, regolarmente, alcune "opere universali" o "opere del secolo": metafore di tutta un'epoca per le quali l'effetto è stato così importante che la loro eco continua a risuonare fino ai nostri giorni. Non è assolutamente per caso che la forma letteraria di tali opere sia stata spesso la parabola. Questa forma permette di rappresentare idee filosofiche fondamentali di modo che esse vengano recepite come se fossero delle storie pittoresche ed accattivanti. Una tale doppia natura fa sì che l'opera non comunichi la stessa cosa a chi è già formato teoricamente, da una parte, e al bambino o all'adolescente, dall'altra, però entrambi possono divorare il libro allo stesso modo. Ed è proprio questo ad alimentare la profonda impressione lasciata da tali opere nella coscienza mondiale, fino a renderli topos del pensiero quotidiano e dell'immaginazione sociale.
Nel XVIII secolo, Daniel Defoe e Jonathan Swift, con le loro grandi parabole, hanno fornito dei paradigmi al nascente mondo della modernità capitalista. Il Robinson di Defoe divenne il prototipo dell'uomo diligente, ottimista, razionale, bianco e borghese, che crea, dopo aver concepito un piano rigoroso, un mondo fisico sull'isola selvaggia, in quanto custode della sua anima e della sua esistenza economica, un luogo piacevole a partire dal niente, e che riesce inoltre ad elevare per mezzo del "lavoro" l'uomo di colore "sottosviluppato" ai meravigliosi comportamenti civilizzati.
Al contrario, il Gulliver di Swift vaga attraverso dei mondi favolosi, tanto bizzarri quanto spaventosi, nei quali la modernizzazione capitalista si riflette in quanto satira mordente e come parodia delle "virtù dell'uomo moderno" di Defoe. Si potrebbe assumere il Gulliver di Swift come la prima utopia negativa della modernità. Questo genere sparisce completamente nel corso di un XIX secolo positivista e fiducioso nel progresso, per poi avere una fioritura inattesa nel XX secolo. "La macchina del tempo" di H.G.Wells (1866-1946) è stato il precursore. Wells spinge la società di classe vittoriana fino allo stadio della sua completa degenerazione, dove i discendenti dei capitalisti del passato sono diventati degli esseri fragili, belli ma stupidi e distratti, che vivono sulla superficie della terra, mentre i discendenti dell'antica classe operaia, mutati in essere sotterranei, si nutrono cannibalisticamente dei loro reciproci.
Sotto l'influenza delle guerre mondiali, della crisi economica generalizzata e delle dittature industriali, il genere dell'utopia negativa non solo è riapparso ma ha dislocato il suo soggetto dal terreno sociologico dello scontro di classe alla visione di un sistema unico e totalitario. Le parabole nere di Franz Kafka appartengono ad un tale contesto, così come le opere di una "fantascienza" popolare negativa. Sono i romanzi, "Noi" di Yevgeny Zamyatin (1884-1963), scritto nel 1920 ma edito in inglese solo nel 1925; "Il mondo nuovo di Aldous Huxley (1894-1963), del 1932, e, soprattutto, i due libri di George Orwell (1903-1950)  - di cui quest'anno si festeggia il centenario della nascita - che si collegano a questo soggetto: "La fattoria degli animali", pubblicato nel 1945, e forse quella che è l'utopia negativa più famosa: "1984", pubblicata nel 1949.
Possiamo immaginare in quale maniera, in occasione dell'anniversario, verrà "onorata" l'opera di Orwell, dai panegiristi conformisti dell'attuale mondo del capitalismo globalizzato. Si riconoscerà ad Orwell di essere stato un grande democratico che ci ha avvertito e ci ha messo in guardia nei confronti del terrore totalitario delle dittature di Stalin ed Hitler. Lo si ringrazierà e si pretenderà che le sue famose parabole hanno contribuito a portare l'umanità verso il libero avvenire. mercantile e democratico, oggi praticamente realizzato. E per finire, ci diranno che l'opera di Orwell chiama sempre a diffidare dalle tentazioni totalitarie che sorgono dal "Male" di questo mondo per impadronirsi dell'umanità. Si punterà il dito contro il fondamentalismo islamico, contro Saddam Hussein e contro Milosevic.
Gli oratori democratici alla cerimonia in onore di Orwell certamente non sospettano che le sue utopie negative sono già diventate realtà da molto tempo, e che noi oggi viviamo nel sistema più totalitario che ci sia, il cui centro è l'Occidente democratico. E' ovvio che lo stesso Orwell la pensava così. Sembra evidente che nella prospettiva degli anni quaranta del secolo scorso, vedeva chiaramente, scrivendo le sue parabole, l'esperienza immediata del nazismo e dello stalinismo; un po' come avrebbe fatto, diversamente, la filosofa Hannah Arendt con le sue opere maggiori, qualche anno più tardi, negli anni cinquanta. Le grandi opere filosofiche e le altre parabole letterarie dicono spesso più di quello che i loro autori sanno, e talvolta, in modo sorprendente, esprimono perfino delle situazioni future che ai tempi del loro concepimento non erano nemmeno state prese in considerazione.
La prima parabola orwelliama, "La fattoria degli animali", è di già istruttiva in tal senso. A prima vista, si tratta di una favola sull'inutilità della rivoluzione sociale, col suo argomentare che l'essenza della dominazione sociale, la struttura del "potere", rimarrebbe sempre la stessa. Quest'argomento anticipa un'idea di base del pensiero post-moderno di Foucault, avallando allo stesso modo una sorta di "ontologia del potere" positivista. In tal senso, Orwell è più un pessimista della natura umana, piuttosto che un ideologo entusiasta dell'ordine stabilito, anche se, come tutti i pessimisti, alla fine difende la società esistente, nel suo caso quella anglosassone, come la migliore possibile. Non per niente, spesso si paragona Orwell a Swift.

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Come brillante parodia della storia della rivoluzione russa, con i maiali come élite burocratica ed il Primo Maiale Napoleone nel ruolo di Stalin. "La fattoria degli animali" veicola sicuramente tutti i cliché del pensiero borghese a proposito dell'inutilità e del carattere criminale dell'emancipazione sociale. Ma la parabola contiene uno sfondo differente, di cui apparentemente lo stesso Orwell non aveva coscienza. Innanzi tutto, si può leggere, nel momento in cui i maiali tradiscono l'uguaglianza animale, che il problema non è l'idea dell'emancipazione, ma la "rivoluzione tradita" (Isaac Deutscher). In secondo luogo, questo sfondo a sua volta ne nasconde un altro: non è più nemmeno tutto questo "tradimento" della rivoluzione animale operato dai maiali che fa fallire la rivoluzione, ma il fatto che la natura dell'oppressione si spieghi a partire dalla volontà soggettiva dell'agricoltore umano, Jones, di sfruttare gli animali, e non dalla forma di organizzazione della fattoria. Così le pecore regolarmente soffocano qualsiasi discussione sul senso dell'azione comune facendo un grande belato di cinque minuti di slogan "quadrupedi buoni, bipedi cattivi", che alla fine, quando i maiali stessi diverranno bipedi, verrà smentito.
Nella sua parabola, Orwell arriva involontariamente alla conclusione implicita che non è il cambiamento sociologico del potere e dei suoi detentori a rappresentare l'emancipazione, ma il superamento della forma sociale, quindi di questo sistema moderno della produzione di merci cui partecipano tutte le classi sociali. Vi si trova anche un pizzico dell'idea che il "lavoro" non sia un principio ontologico, e soprattutto non sia un principio emancipatore ma, al contrario, il principio del potere repressivo che sottomette gli animali a questo fine in sé irrazionale di "produrre per produrre", simbolizzato dalla figura del cavallo da tiro abbrutito, Gondrano, una sorta di Stakhanov che vuole risolvere tutti i problemi con il motto: "Lavorerò ancora di più e più duramente!" - per essere alla fine venduto al macellaio da Napoleone quando, esausto, non può più lavorare.
Al di là della "lotta di classe" sociologica immanente, il problema della forma del contesto sociale del sistema, in quanto forma comune a tutte le classi, diviene ancora più esplicito in "1984", un libro che richiama fortemente il romanzo "Noi" di Zamiatin (e che forse ad esso si è ispirato). In primo piano, tanto in Zamiatin che in Orwell, si trova la figura della guida onnipotente e sovrumana, chiamato nel primo caso semplicemente "il Benefattore", e nel secondo "il Grande Fratello", certamente entrambi ispirati dalle dittature statali totalitarie e politiche dell'epoca fra le due guerre. Ma anche qui appare uno sfondo che va assai più lontano dei fatti espliciti. Dietro il potere personificato appare il carattere anonimo, "oggettivo", del totalitarismo. Il Benefattore di Zamiatin si rivela essere una vera macchina intelligente, ed il Grande Fratello di Orwell può essere facilmente interpretato come la metafora di una matrice di comando sistemica funzionante in modo molto più vincolante nell'attuale totalitarismo di quanto funzionasse nelle dittature politiche della prima metà del XX secolo.
Ciò che inquieta in "1984", più della costrizione esteriore, è la sua interiorizzazione, che appare alla fine come auto-imperativo. Il fine in sé irrazionale dell'interminabile "valorizzazione del valore" per mezzo del "lavoro astratto" esige un un uomo che si autoregola da sé solo in nome delle leggi anonime del sistema. L'ideale è l'auto-osservazione e l'auto-controllo di questo "Imprenditore di sé stesso" per mezzo del suo super-io capitalista: "sono abbastanza efficace, abbastanza adatto? Sto dentro la tendenza, sono concorrenziale?" La voce del "Grande Fratello" è quella del mercato mondiale anonimo, e la "polizia del pensiero" - i rapporti democratici di concorrenza - funzionano in modo assai più raffinato dell'intervento di qualsivoglia polizia segreta.

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Lo stesso avviene per la famosa "lingua orwelliana", la "Neolingua" che, con le sue inversioni di significato, si trova finalmente, dopo più di 200 anni, ad essere la lingua del liberalismo economico. Quando, a nome del Grande Fratello, viene detto: "la libertà è schiavitù", ciò significa anche, al contrario che "la schiavitù è libertà", in particolare l'auto-sottomissione gioiosa alle pretese "leggi naturali" della fisica sociale dell'economia di mercato. Vale la stessa cosa per gli altri slogan della Neolingua: "la guerra è la pace" - nessuno, questo, lo sa meglio della NATO, in quanto polizia mondiale auto-proclamatasi, "l'ignoranza è forza" - chi altri se non il consumatore di massa, o il manager, il cui successo dipende dall'ignoranza sociale, sottoscriverebbe in completa buonafede questa massima? Rimettere in questione, anche nel pensiero, il sistema delirante e chiuso della "libertà" economicamente determinata, significa essere fuori o, come si dice in "1984": "Il crimine del pensiero non causa la morte: il crimine del pensiero è la morte", cioè a dire la morte sociale.
Si possono rassegnare le dimissioni da una setta politica, e, in uno Stato totalitario, ci si può rifugiare almeno nella "emigrazione interna"; ma per l'uomo capitalista divenuto auto-regolante rassegnare le dimissioni dal mercato totalitario è altrettanto impossibile quanto rassegnarle dal suo proprio io, divenuto "capitale umano". La coscienza viene collegata al meccanismo onnipresente della concorrenza, che obbliga a mentire senza sosta a sé stesso, ragionando nei termini della Neolingua economica neo-liberale: "la produttività senza freni è esperienza di sé", "l'auto-sottomissione è auto-realizzazione", "la paura sociale è auto-liberazione", ecc. Cento anni fa, Rimbaud aveva già formulato, in maniera ineguagliabile, la schizo-analisi dell'uomo moderno: "io è un altro".
"Essere libero" in questo mondo non significa altro che sapere ciò che il Grande Fratello o il Benefattore, cioè a dire il mercato totalitario, possono chiedere agli uomini, di prevedere e conformarsi ad un'obbedienza zelante e incondizionata - altrimenti possono restare sul bordo della strada, perdere la propria esistenza sociale e morire prematuramente. Non c'è più bisogno di un sistema di sorveglianza burocratica per sanzionare i "perdenti". La cosa è perfettamente regolata da questo lugubre potere anonimo della macchina sociale del capitale diventato una relazione mondiale totale. Il potere delle cieche leggi sistemiche che violano le risorse naturali e umane, si sono oramai emancipate da qualsiasi volontà sociale - e dunque anche da quella della soggettività della gestione.
In un qualche modo, il mondo è diventato un'unica "Fattoria degli Animali" gigantesca, nella quale non ha alcuna importanza che ci sia il fattore Jones o il Primo Maiale Napoleone che comandino, perché i "decisori" soggettivi non sono altro che gli agenti di un meccanismo autonomizzato che non smetterà di girare prima di aver trasformato il mondo, per mezzo del "lavoro", in un deserto senza vita. In questa fattoria-mondo automatizzata, ogni pensiero critico che si interroga sul senso e sul fine di questa folle situazione viene immediatamente soffocato dal belato assordante delle pecore democratiche e le loro parole "oggettivate": "il lavoro è buono, la disoccupazione è cattiva", "la concorrenza è buona, le esigenze sociali cattive", ecc.
Se spazzoliamo un po' contropelo la parabola orwelliana, potremo riconoscerci come ii prigionieri di un sistema ad uno stadio avanzato di maturazione, di un totalitarismo che fa sembrare quasi banale "La fattoria degli animali" e "1984".

- Robert Kurz, 3 marzo 2003 -

fonte: Critique radicale de la valeur

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