domenica 16 marzo 2014

Vie d’uscita

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Di seguito, la trascrizione di una comunicazione di uno dei membri del collettivo "Alcuni nemici del migliore dei mondi", nel corso di un incontro avvenuto a Burges nel gennaio di quest'anno, per presentare il libro "Uscire dall'economia". All'incrocio della Critica del Valore, della Critica anti-industriale e dei recenti contributi dell'antropologia non-evoluzionista (al di là del mito del comunismo primitivo), il collettivo "Alcuni nemici del migliore dei mondi" ha cominciato a pubblicare, a partire dal 2007, una rivista dallo stesso nome, di cui sono usciti finora quattro numeri, disponibile on-line a questo indirizzo.

USCIRE DALL'ECONOMIA

Andiamo direttamente al punto, per i redattori del bollettino "Uscire dall'economia" non ci sono differenze fra economia e capitalismo. Così, lo slogan "uscire dall'economia" è da intendersi come "uscire dal capitalismo". Ma voi direte: "Perché avete scelto questo slogan se, in definitiva, è la forma di vita capitalista quella di cui ci occupiamo?" L'identificazione di queste due categorie non è speciosa?
Ci sarebbe un'economia neutra, naturale, che sarebbe sempre esistita e poi c'è una forma perversa che sarebbe apparsa relativamente tardi, diciamo verso il XVI secolo, vale a dire il capitalismo. L'uscita dal capitalismo servirebbe allora, secondo tale prospettiva, a ritrovare un'economia sana, durevole (un'economia verde, oggi detta circolare), più giusta (con una migliore distribuzione dei frutti della crescita), ecc. Sarebbe così sufficiente, per esempio, liberare "l'economia reale" dall'influenza degli odiosi speculatori finanziari, oppure, ancora, sopprimere la proprietà privata dei mezzi di produzione, affinché possiamo salvarci dal crollo multidimensionale in corso.
Il problema, con un approccio del genere, è quello di affrontare così solo i sintomi della crisi in corso, e non le radici della malattia: l'economia. Si è soliti chiamare queste pseudo-soluzioni come "critiche tronche del capitalismo". Ora, porre la questione dell'uscita dall'economia permette di porre la questione molto radicale della forma di vita presente, dunque una migliore comprensione della natura del capitalismo e, quindi, della sua abolizione.
Per non distinguere l'economia dal capitalismo, ci sono almeno quattro ragioni:
Una prima ragione sta nel fatto che, oggi, l'utilizzo del termine economia, o dell'aggettivo 'economico' rimanda al capitalismo. Così, quando i grandi media ci parlano della crisi dell'economia o degli attori economici, bisogna intendere crisi del capitalismo e attori del capitalismo! L'attuale crisi economica rivela in effetti l'incapacità, o quanto meno le difficoltà sempre più grandi, del capitale, a riprodursi: esistono delle somme enormi di denaro che non vengono più investite in quanto i profitti che se ne ricaverebbero sarebbero troppo bassi. Si tratta quindi di una crisi del capitalismo.
Una seconda ragione risiede nel fatto che la nascita del termine economico, con il significato che oggi gli attribuiamo, si attesta intorno al 1546, cioè a dire nel preciso momento in cui si stabilisce il capitalismo. Si avvera perciò il fatto che la forma di vita capitalista e la categoria economica appaiono simultaneamente.
Un terzo punto - come sottolineato da André Gorz - è il fatto che il capitalismo e l'economia condividono la medesima razionalità: cioè minimizzare i costi e massimizzare i guadagni, ricercare l'efficacia, l'aumento dei profitti, ecc. "E' vano cercare di distinguere la razionalità capitalista dalla razionalità economica". Le due categorie propongono infatti una visione tecnicistica del mondo che offusca ogni dimensione simbolica, per cui non si occupano di morale, per non parlare del bene comune.
Infine, quarto punto, l'antropologia, come postulato tanto per l'economia quanto per il capitalismo, mette in scena degli individui solitari, atomizzati, considerati perciò fuori del tessuto delle relazioni sociali come l'amicizia, la famiglia, il dominio di alcune persone sulle altre per esempio; individui che cercano nell'altro di soddisfare i propri interessi egoistici, senza alcun riguardo per gli altri. E' l'antropologia pessimista di Hobbes, o quella di M. Thatcher, per i quali non c'è alcuna società, ma solo degli individui. Questa visione dell'uomo non è certamente neutra, e molti secoli di capitalismo e di discorso economico hanno alla fine fatto emergere una società in cui gli individui sono effettivamente diventati estranei gli uni agli altri. Hobbes si è sbagliato! L'antropologia pessimista che egli metteva all'origine della vita sociale è invece, alla fine dei conti, il nostro orizzonte! Degli spiriti critici, a questo punto, potrebbero obiettare: "Certo, l'invenzione della parola economia è contemporanea all'istituzione del capitalismo, ma tuttavia non andrebbe distinta la pratica dalla coscienza della pratica stessa? In altre parole, come Jourdain che parlava in prosa senza saperlo, le società precedenti non avevano una pratica economica, senza che fossero stati avvisati di questo?" Beh, no!

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Alcuni antropologi parlano della questione senza mezzi termini. Come fa Sahlins che afferma chiaramente nel suo "Età della pietra, Età dell'abbondanza" che: "Nelle società tradizionali, (...) strutturalmente, l'economia non esiste." Oppure, ancora, Louis Sumont, nel suo "Homo equalis": "Non c'è niente che nella realtà esteriore assomigli ad una economia, proprio fino al momento in cui noi non costruiamo un tale oggetto."
Infatti, non è possibile proiettare sul passato le categorie di pensiero che sono le nostre del giorno d'oggi. Per fare un esempio, non abbiamo che da considerare il concetto di numero che rientra nella sfera matematica e che spesso viene considerato come universale e senza tempo. Ebbene, si scopre che questa categoria si è evoluta profondamente nel corso del tempo: i numeri di Pitagora non sono i numeri di oggi! Per Pitagora, in effetti, solo i numeri qualificati oggi come naturali avrebbero diritto a essere considerati tali; qualcosa come la radice di due non poteva ricevere il nome di numero. Così, come ci è impossibile rimuovere il nostro concetto di numero per comprendere la filosofia pitagorica, allo stesso modo le categorie di pensiero della nostra epoca non possono applicarsi ipso facto alle realtà sociale e culturali di tutti i luoghi e di tutti i tempi, per conoscerle e comprenderle. In breve, non bisogna guardare al passato attraverso i nostri occhiali. Per quanto riguarda la categoria economica, una difficoltà è data dal fatto che non esiste veramente una definizione chiara e precisa di tale categoria. La parola "economia" è un termine polisemico, una parola-valigia, che può designare più cose. L'antropologo Bernard Trimond rileva nel suo libro, "L'economia non esiste", tredici diversi significati per questa parola, a seconda del contesto nel quale viene utilizzata. Prendo due definizioni:
1) Una prima definizione dell'economia è di tipo "formale". Si tratta del carattere logico che lega il fine al mezzo. L'economia è conosciuta come ciò che permette di soddisfare i bisogni dell'uomo in un contesto di scarsità. Si tratta perciò di mirare all'efficacia, di economizzare le risorse e gli sforzi, per poter far fronte all'insufficienza dei mezzi. In antropologia, questa corrente di pensiero viene chiamata formalismo. Il problema, con una tale definizione, è che le società primitive non sono, il più sovente, delle società di scarsità e di penuria ma, al contrario, come ha mostrato Sahlins, delle società di abbondanza. Il tempo dedicato alle attività, diciamo produttive, è in effetti assai inferiore al tempo che vi consacriamo noi, uomini moderni. Disporre di che nutrirsi, di alloggio ecc. non era un problema. Si constata spesso anche che queste società, facendo delle offerte agli dei oppure delle grandi feste collettive, dilapidavano, più che a ragione, ina grande quantità delle loro risorse e adottavano, perciò, un comportamento che si potrebbe qualificare come anti-economico.
2) Una seconda definizione, presa dal Larousse, è la seguente: "Insieme di attività, da parte di una collettività umana, relative alla produzione, alla distribuzione e al consumo delle ricchezze." Ammettere, secondo questa definizione, che l'economia sia sempre esistita presta il fianco ad, almeno, due critiche.
La prima è che le società umane, per lungo tempo, si sono disinteressate alle ricchezze materiali. Come, con un'erudizione impressionante, dimostra l'antropologo Alain Testart, le società sono divenute "crematistiche", cioè hanno fatto posto alla ricchezza materiale, solo alla fine del paleolitico superiore. In queste società, la dote della sposa, per esempio, veniva pagato in natura, ossia la "maritata" doveva assicurare, per tutta la sua vita, alcuni servizi alla suocera, o ad altri aventi diritto (questo è quello che avviene, tipicamente, presso gli aborigeni australiani); nelle società crematistiche, al contrario, l'uso della moneta, dunque dei beni materiali, permetteva di liberarsi da un tale vincolo. Ma questo avviene tardivamente nella storia umana.
La seconda critica risiede nel fatto che la riunificazione, la combinazione, di queste attività specifiche in una sola unità concettuale (l'economia) non va affatto da sé. Infatti, queste attività non sono il alcun modo separata dalle altre dimensioni dell'esistenza come la religione, le relazioni parentali o i legami diplomatici con altri popoli. Per cui pescare un pesce può essere del tutto percepito come un atto religioso che mette l'uomo in contatto con certe forze trascendenti, così come la distribuzione del cibo è legato allo status degli individui nella comunità (ciascuno riceve una parte dell'animale cacciato e la riceve secondo il suo sesso, la sua classe d'età, ecc.). Le attività degli uomini non vengono ridotte alle loro sole dimensioni fisiche e contabili, ma costituiscono un intero. E' impossibile isolare queste attività e pensarle "a parte", e questo - ce lo dice lo storico dell'antichità greca, Moses Finley - "a causa della struttura stessa della loro società".

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Questo ci porta al concetto di struttura. Tutte le società posseggono in effetti una certa struttura che si declina tanto a livello di pratiche, di comportamento degli individui, quanto al livello della cultura, dell'immaginario, e dunque, di valore. Per un filosofo come Castoriadis, anche il lato immaginario  è fondamentale perché, per lui, è nell'immaginario che si istituisce la realtà sociale. Per fare alcuni esempi, si può pensare alla società nativa americana dei Kwakiutl (costa nord ovest degli Stati Uniti) che si strutturava intorno al Potlatch, o ancora alle tribù Tupi-Guarani studiate da Pierre Clastre, strutturate, secondo lui, intorno al tabù alimentare che proibiva al cacciatore di mangiare la preda che egli stesso aveva ucciso; si può citare anche l'antropologo David Graeber che evoca, per quanto gli riguarda, il caso di Lele, in Africa, la cui vita si struttura per mezzo del "debito di sangue", ecc. Così, la nostra società, come tutte le altre, non sfugge a tale strutturazione intorno ad un nucleo fondamentale. Ma allora, qual è il punto nodale della nostra civiltà? L'economia, sicuramente. Infatti, basta accendere la radio, o qualsiasi altro media, per constatare che sono sempre le stesse categorie economiche a venire inesorabilmente  fuori: lavoro, occupazione, crescita, prodotto interno lordo, ecc. La nostra società è interamente votata all'economia. L'economista Serge Latouche fa riferimento a Castoriadis, dicendo che bisogna comprendere "l'economia come una significazione sociale immaginaria che struttura la modernità" o come "un insieme di significazioni", cioè a dire "l'insieme dei valori e dei presupposti storici e culturali su cui riposa l'occidente moderno". Perciò, in qualche modo, l'economia ha preso il posto  della religione, oggi scomparso o che non gioca più un ruolo determinante nella strutturazione delle pratiche sociali. In altre parole: l'economia è la nostra religione! E infatti, come per tutte le società esistite, la costituzione della nostra società rimane di tipo feticista. Le creazioni dell'uomo finiscono per emanciparsi, per autonomizzarsi, per apparire infine davanti a lui come una realtà oggettiva che a sua volta lo soggioga. E' la sindrome del vitello d'oro. Per noni, non ci sono più i totem, le montagne sacre o chessoio, che sembrano possedere un potere, ma ci sono le merci e quindi il denaro. Marx parla perciò di "feticismo della merce". Quando paghiamo con una moneta o con una banconota, crediamo che quel mezzo di pagamento godano in sé stessi di un valore. Tuttavia, siamo vittime di un'illusione perché è in definitiva l'insieme degli individui che, attraverso le loro azioni quotidiane e ripetute, fanno sì che valgano qualcosa. In altre parole, poiché tutto il mondo crede che una banconota da 10 euro vale 10 euro, allora la cosa si avvera. Questo feticismo non è un velo che occulta la vera realtà che sarebbe soggiacente, ma è, al contrario, un "feticismo reale" dal quale deriva la struttura concreta della nostra forma di vita. La nostra società ben lungi dall'essere razionale ed emancipata dalla religione, come credevano i filosofi del secolo dei Lumi, è, al contrario, profondamente religiosa. L'economia è dunque un fatto sociale che tocca tutti gli aspetti della nostra civiltà (politici, culturali, tecnici, ecc.). L'economia, è perciò, in primo luogo, impossibile da regolare a partire dalla sfera sociale e, secondariamente, non è suscettibile di correzione o di miglioramento.
In primo luogo: la sfera sociale non è esterna, né eterogenea, alla sfera economica: è l'economia, il capitalismo, in quanto fatto sociale totale, ad essere una forma di vita sociale. Marx è chiaro su questo punto: "il capitalismo è un rapporto sociale". Pertanto, è impossibile regolare l'economia a partire dalla sfera sociale, oppure reinserendola nei rapporti sociali. L'economia induce, di per sé, un certo tipo di rapporto sociale: un insieme di monadi separate che cercano, ciascuna, di massimizzare il loro piccolo interesse egoistico. I rapporti sociali non esistono in sé! La divisione sociale/economica è un'invenzione recente. Queste due dimensioni sono sempre state mescolate senza che l'una o l'altra sia mai esistita in sé.
In secondo luogo: bisogna stare in guardia rispetto a certi tentativi che vengono fatti al fine di conservare il concetto di economia, internalizzando le "esternalità" negative oppure, ancora, facendo riferimento al quarto principio della termodinamica di Georgescu Rogen e, parallelamente, adottando le "tesi sull'economia circolare". Una simile visione cade nella trappola della critica tecnica della società tecnica. Ciò che si rimprovera all'economia, qui, non è di indurre un rapporto sociale specifico, inedito, storicamente determinato, ma, più prosaicamente le si rimprovera la sua inefficacia: ossia che contabilizza male il rapporto fra costo e beneficio, oppure l'utilizzo delle risorse, insieme al fatto che non ottimizza i rifiuti (nell'economia circolare, i rifiuti degli uni devono diventare gli approvvigionamenti degli altri). L'immaginario, quello che istituisce il sociale, resta immutato: è sempre la razionalità calcolatrice a dettare le scelte, e non le riflessioni e le decisioni comuni. Le deliberazioni collettive su ciò che è buono o no, devono sottomettersi al calcolo freddo e impersonale. La strutturazione della società, seguendo quest'ottica, rimane fondata su un valore tecnico. Si tratta di una critica interna al mondo, in quanto non ve, per cercare di farlo durare. L'economia ha totalmente colonizzato il nostro immaginario. E questa colonizzazione non finisce, evidentemente, perché tutte le pratiche sociali, le nostre azioni quotidiane, sono dettate dall'economia, a partire da quell'attività che chiamiamo lavoro.

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Come l'economia, il lavoro è una categoria del pensiero che deve essere collocato nella sua epoca. Così, ciò che noi intendiamo oggi per lavoro è il risultato di una lunga costruzione sociale che è cominciata, grosso modo, verso il XVII secolo. Non è perciò possibile definire lavoro le diverse attività dei nostri antenati. Jean-Pierre Vernant ha dimostrato  che è del tutto fuorviante far derivare il nostro concetto di lavoro dalle diverse attività cui si dedicavano gli antichi Greci. "Si trovano in Grecia dei mestieri, delle attività, dei compiti, invano si cercherebbe il « lavoro » ". E Vernant non è il solo, citiamo anche Dominique Méda che riprende quest'idea nel suo libro "Reinventare il lavoro". L'attività che chiamiamo lavoro è dunque storicamente specifica alla nostra epoca e, ancora meglio, se seguiamo Moishe Postone, è precisamente questo lavoro (sotto il capitalismo) che, solo, permette di caratterizzare la nostra società. In altre parole, è il lavoro che gioca un ruolo strutturante  per la società capitalista. Esso sostituisce i rapporti sociali e si comporta lui stesso come una mediazione sociale. Per Postone, il lavoro ha un doppio carattere. Un carattere concreto che caratterizza l'interazione dell'uomo con la natura; ed è ciò che il lavoratore produce effettivamente: del pane, ecc. E un carattere astratto (che non è il lavoro concreto in generale) che gli conferisce una dimensione sociale unica: una forma di mediazione sociale inedita. Il lavoro è un'attività socialmente mediatizzante storicamente specifica. Il lavoro non è un'attività avente un fine in sé, come per esempio produrre del pane per la propria comunità. Il contenuto concreto è secondario. Inoltre, rimango sempre di stucco quando alla radio, o sui giornali, sento che è solo questione di posti di lavoro, senza alcun riguardo per la natura di questi impieghi. Produrre bombe o produrre pane, poco importa purché ci sia lavoro! La questione del senso, del perché, è del tutto assente. Il lavoro, o il suo prodotto se lo si preferisce, è semplicemente un mezzo per acquisire il prodotto del lavoro degli altri. Esso mediatizza le relazioni tra gli individui e permette l'emergere di forme d'interdipendenza inedita nella quale, come ha detto Gorz, "nessuno produce ciò che consuma né consuma ciò che produce". Il lavoro funziona come un mezzo necessario ad ottenere il prodotto degli altri individui e per entrare in rapporto con loro. Il lavoro è anche auto-mediatizzante ed auto-simbolizzante. Non è necessario ricorrere a dei concetti come il bene ed il male, a dei simboli, alla parola o neppure a delle rappresentazioni del mondo per regolare la vita nella nostra società, per coordinare le differenti attività, per assegnare un posto, uno status, a tutti o a ciascuno. Il lavoro si mediatizza da solo: i prodotti del lavoro si scambiano secondo il loro valore intrinseco  e non secondo dei rapporti sociali manifesti e non travestiti. In tal modo le antiche culture che un tempo governavano le vite dei popoli e delle civiltà sono state progressivamente distrutte. Tutto ciò che rimane ormai è il semplice "dispendio di materia cerebrale, di muscoli, di nervi" (Marx) contabilizzato in unità di tempo e nella totale indifferenza riguardo al contenuto, purché venga venduto. Le conseguenze di tale strutturazione sociale attorno al lavoro sono numerose e infelicemente funeste. Ne cito due, che mi sembrano importanti:
1 - L'economia non ha per fine quello di creare valori d'uso, ma unicamente  merci, il cui solo scopo è quello di essere vendute, per guadagnare sempre più denaro;
2 - L'economia è un modo di socializzazione assiologicamente neutro che mette in relazione individui destinati ad essere totalmente indipendenti gli uni dagli altri, degli atomi separati gli uni dagli altri costretti allo scambio per poter vivere.
Queste due conseguenze permettono di rendersi conto dei numerosi aspetti della "crisi" attuale, la quale non è una crisi temporanea, congiunturale, ma una crisi ben profonda della nostra civiltà.
Il fatto che l'attività produttiva non cerca di soddisfare dei bisogni, ma solo di trasformare 1 euro in 2 euro, porta ipso facto alla sparizione di ogni limite. Non si tratta di smettere di produrre, una volta soddisfatti i bisogni che devono essere soddisfatti. Bisogna continuare a produrre e a vendere per poter acquisire il prodotto del lavoro degli altri. L'obsolescenza programmata è perciò una necessità del sistema economico e non certo il risultato delle azioni dei malvagi industriali che ci vogliono male. Cosa accadrebbe se le nostre automobili, i nostri frigoriferi, ecc. durassero per sempre? Sarebbe una catastrofe! E la pubblicità è assolutamente necessaria al fine di creare sempre nuovi bisogni, attraverso la frustrazione, e vendere così altre merci. Inoltre, il gioco della concorrenza, forzando gli industriali a produrre delle merci sempre meno care, costringe ugualmente questi industriali a produrre sempre di più al fine di evitare la contrazione della massa di valore. Se bisognava, per esempio, prima, vendere 10 camicie a 10 euro ciascuna, per recuperare 100 euro, oramai sono diventate 100 camicie ad 1 euro quelle che bisogna vendere per recuperare altrettanto denaro e riprodurre così il ciclo del capitale. I proclami anti-produttivisti dovrebbero però capire che la produzione non dipende dall'egoismo, quindi da ragioni morali, ma dal modo di produzione capitalista.
La crisi non è solo ecologica, ma ha anche un lato antropologico. Più autori hanno visto questo fenomeno. Penso qui a Christopher Lasch ed alla sua "cultura del narcisismo", o a Dany Robert Duffour, il quale descrive "l'individuo che viene", e sicuramente a Jean-Claude Michéa che ha mostrato che il liberalismo economico ed il liberalismo culturale sono inestricabilmente collegati. Il fatto che l'economia produca, oltre che delle merci, degli individui soli, costretti a scambiare le loro merci, non è un fatto neutro dal punto di vista antropologico. Il loro rapporto wi riduce a quello che intrattengono le loro merci (il loro prezzo e il loro rispettivo valore). L'individuo, ormai solo, non ha come orizzonte altro che l'estensione indefinita dei suoi diritti individuali (notamente, in termini di morale) e tutti i limiti imposti, sia dalla realtà, sia dagli altri, diventano ostacoli insopportabili al suo desiderio di libertà. Così, l'impegno, il legame o il conflitto con gli altri sono sempre più visti come insopportabili attentati alla gestione edonistica della sua piccola vita. La nostra società si ritrova oggi costituita da un aggregato di bambini capricciosi sempre pronti a cedere alle loro pulsioni, soprattutto di consumo. E' la figura dell'adolescente che, a 40 anni, guarda i cartoni animati e gioca senza sosta con i gadget elettronici. In breve, il capitalismo produce tutto salvo degli adulti capaci di imparare a reprimere/sublimare le loro pulsioni, e dunque capaci di superare il loro ego, per tentare di edificare una società migliore per tutti. Ovviamente, ci sarebbero da passare al setaccio molti altri aspetti della nostra società contemporanea. Ma mi fermerei qui, per ragioni di tempo e di spazio. Le strutturazioni delle società sono diverse e varie, ma ugualmente sottomesse al trascorrere del tempo. E' perciò, teoricamente, possibile cambiare la strutturazione ed uscire dall'economia!

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Non si tratta di dare un piano dettagliato, chiavi in mano, ma semplicemente di dare qualche idea generale che ci permetta di aprirci verso altre possibilità. La forma che prenderà la società post-economica, non può essere conosciuta in anticipo (se non stiamo attenti, per esempio, l'uscita dall'economia potrebbe assumere delle forme di vita di tipo mafioso). Mettere in discussione la strutturazione che l'economia ha fatto della nostra società implica ben più che una critica del modo di distribuzione o della proprietà dei mezzi di produzione. Oltre la fine della sottomissione al lavoro, alla crescita, c'è la necessità più fondamentale di riflettere e di definire delle nuove ragion d'essere, dei nuovi principi che fondino delle nuove forme di vita. Cornelius Castoriadis pensava che la nostra civiltà avesse un bisogno imperioso della creazione di un nuovo immaginario che rompesse radicalmente con l'immaginario del controllo razionale il quale caratterizza la nostra civiltà (pur sottolineando che si trattava piuttosto, nei fatti, di un pseudo-controllo pseudo-razionale). A mio parere si tratta di:
1 - La neutralità assiologica dell'interesse generale dev'essere sostituita dalla ricerca del bene comune. Il bene comune è l'ordine del valore, non del calcolo privato destinato a massimizzare gli interessi (come fa l'homo oeconomicus).
2 - La produzione, la distribuzione, il consumo delle ricchezze (e non del valore) deve riscoprire una dimensione cosciente. In altre parole, deve passare per dei "rapporti sociali manifesti". Si tratta di definire i nostri bisogni e poi riflettere sul modo migliore per soddisfarli.
3 - Agli individui separati, atomizzati, bisogna opporre la comunità fondata sull'impegno morale; non dimentichiamo, come sottolinea Michéa, che la parola 'comune' proviene dal latino 'munus' che significa carichi ed obblighi.
4 - Allo stesso modo dello "strumento conviviale" in Illich, che deve essere portatore di senso, il i trasferimenti di beni e di servizi devono avere del senso, ed anche simboleggiare i rapporti fra individui.
5 - La creazione del concetto di economia ha necessitato di separare ciò che era spesso mescolato (l'aspetto religioso, quello diplomatico, ecc.) per costituire una nuova unità concettuale. Al contrario, l'uscita dall'economia implica l'abbandono di quei concetti (produzione, distribuzione, consumo) nei quali non c'è più posto per le dimensioni morali e spirituali, e perfino per il senso. 
A vedere queste poche indicazioni, si comprende come le forme che può prendere una società al di là dell'economia siano molto diverse e numerose. D'altronde le forme di vita delle società pre-economiche sono state esse stesse molto differenti. Si tratta perciò di far professione di immaginazione e smettere i nostri occhiali economici, per considerare delle forme di vita che, se non idilliache, saranno meno mutilanti. In ogni caso, dato che non esiste alcun progetto chiavi in mano e, ancor meno, una forza sociale sufficiente a metterlo in opera, senza alcun dubbio è a livello dell'immaginario e della diffusione delle idee che bisogna cominciare ad operare. Che fare, allora? Dal punto di vista più concreto, si può cominciare osservando che la colonizzazione delle nostre vite, fatta dall'economia, non è totale. A mio avviso, esistono in seno alla nostra società delle isole non-economiche: la famiglia, le relazioni fra amci, per esempio. Credo che una strategia potrebbe consistere, per cominciare, nel difendere queste isole e resistere lottando contro il sistema, ma anche crearne delle nuove, nelle quali sia possibile sperimentare nuovi tipi di coesione sociale per, alfine, dispiegarli ed estenderli a tutta la società.

fonte: Critique radicale de la valeur

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