Rileggo un passaggio del terzo volume dei diari di Piglia, "Los diarios de Emilio Renzi": si tratta di una nota del 3 novembre 1980, e parla del fatto che stava preparando delle lezioni per un gruppo di studio: un corso su Wittgenstein e la questione del linguaggio.
La propria vita, la propria esperienza, può essere narrata solamente in terza persona - scrive Renzi-Piglia, commentando Wittgenstein, riferendosi alla sua coppia «parlare/tacere», e salvando anche Brecht (l'altra lettura che lo accompagna, come una convivenza costante nelle sue lezioni): « la lezione di Brecht » - scrive – « è quella di vivere in terza persona.» (Los diarios de Emilio Renzi - Un dia en la vida, Barcelona, Anagrama, 2017, p. 131).
A partire da qui, si può pensare a quello che scrive Agamben a proposito del Testimone - nel terzo volume di Homo sacer - in "Quel che resta di Auschwitz", con un percorso che parte da Benveniste (il carattere mobile delle posizioni soggettive mediate per mezzo dei pronomi) per arrivare a Fernando Pessoa e alla dinamica degli eteronimi. Così, allo stesso modo, per esempio, Fredric Jameson nel suo "Brecht e la questione del metodo" scrive che: « la rappresentazione in terza persona - la citazione di quelle che sono espressioni dei sentimenti ed emozioni di un personaggio - è il prodotto di un'assenza radicale dell'Io (sé) o, quanto meno, scendendo ad un compromesso con la comprensione di quello che noi chiamiamo "Io", è un oggetto della coscienza, e non la nostra coscienza.»
fonte: Um túnel no fim da luz
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