Quello che segue, e che qui riporto per intero, prendendolo da una vecchia rivista ormai defunta da lustri, è un breve racconto, di Robert Sheckley (scrittore di fantascienza, e defunto pure lui!). Il titolo: “Il linguaggio dell'amore”. La fantascienza - come al solito - è solo un grande pretesto. Parla di un uomo perdutamente innamorato di una donna. L'unico scopo nella vita di quest'uomo è di poter riuscire a dire, con parole perfette, quale sia la reale portata del proprio amore nei confronti della donna. In un bar, mentre beve per riuscire ad estrarre da sé, grazie all'alcool, le parole giuste, viene a sapere che su un pianeta lontanissimo, oltre i bordi della galassia conosciuta, esiste una razza aliena che ha creato un linguaggio in grado di poter esprimere ogni reale sfumatura dei sentimenti, umani o simil-umani. E' la loro unica creazione, la loro unica arte. Ed è perfetta. L'uomo si mette in viaggio, e dopo innumerevoli peripezie, riesce a raggiungere lo sperduto pianeta, dove rimane per mesi e mesi a studiare il linguaggio dell'amore, di modo che poi possa riuscire a renderlo con pari intensità anche nella propria lingua. Ora sa. Ora conosce le parole perfette per poter esprimere, senza tema di fraintendimenti, quello che prova nel profondo del proprio cuore. Con un po' meno peripezie, ripercorre la distanza che lo separa dal coronamento del proprio sogno, e quando si trova al cospetto della donna amata, alla fine, pronuncia le parole: «Mia cara, ti sono piuttosto affezionato». Per meglio sapere tutto quanto, compresi gli sviluppi, leggetevela questa storia. Ne vale la pena!
Ma poi, cosa vorrà dire una storia del genere? Me lo sono sempre chiesto, e quando ho cominciato a farlo non erano neanche adolescente, e continuo tuttora a chiedermelo.
Vuole essere una banalizzazione del “grande amore”, negandone l'esistenza?
Oppure vuole solo essere una condanna di quel gran coglione del protagonista, che invece di viverselo, l'amore, decide di piantarlo in asso per andare per inseguire il proprio egoismo e la propria vanità?
Sarei portato a propendere per la seconda ipotesi!
Ah, come al solito, chissà poi perché, la donna non c’è mai in questo genere di storie!
Vabbè....
(già pubblicato sul blog - senza racconto però - l'11 luglio 2006)
IL LINGUAGGIO DELL’AMORE
di ROBERT SHECKLEY
(Titolo originale: The Language of Love) - 1957 -
Traduzione di ROBERTA RAMBELLI
JEFFERSON Toms entrò in un bar, un pomeriggio, al termine delle lezioni, per bere un caffè e per studiare un po’. Si sedette, deponendo in bell’ordine i testi di filosofia davanti a sé, e vide una ragazza che dirigeva il servizio degli automi-camerieri. Aveva gli occhi grigio-fumo e capelli del colore del fuoco dei razzi. Aveva una figuretta sottile ma non priva di dolci curve e, guardandola, Toms provò un nodo alla gola e un’improvvisa reminiscenza di autunno, sera, pioggia e lume di candela.
Fu così che Jefferson Toms si innamorò. Sebbene di solito fosse un giovanotto piuttosto riservato, avanzò un reclamo contro gli automi camerieri per avere il pretesto di parlare alla ragazza. Quando le fu davanti non riuscì ad articolare parola, soverchiato dai suoi stessi sentimenti. Tuttavia finì per chiederle un appuntamento.
La ragazza, che si chiamava Doris, era rimasta stranamente impressionata da quello studente bruno e robusto; accettò l’appuntamento e questo segnò l’inizio dei guai di Jefferson Toms.
Egli scoprì che l’amore era una cosa deliziosa, ma era anche un potente elemento di turbamento, nonostante i suoi studi di filosofia. Ma l’amore era una cosa che confondeva le idee perfino all’epoca di Toms, in cui normali linee spaziali collegavano fra loro i mondi lontani, le malattie erano state debellate per sempre, la guerra era qualcosa di inconcepibile, e tutti i problemi di una certa gravità erano stati risolti in modo esemplare.
La vecchia Terra non aveva mai goduto di una simile forma. Le città splendevano di plastica e di acciaio inossidabile. Le ultime foreste erano oasi di verde, perfettamente tenute, in cui si poteva fare un picnic in perfetta sicurezza, poiché tutte le belve e gli insetti erano stati trasferiti in appositi zoo che riproducevano alla perfezione il loro habitat naturale.
Perfino il clima della Terra era stato regolarizzato. Gli agricoltori ricevevano la loro razione di pioggia tra le tre e le tre e mezzo del mattino, la gente accorreva negli stadi per ammirare un programma di tramonti, ed una volta all’anno, in una speciale arena, veniva prodotto un tornado, in occasione dei festeggiamenti del Giorno della Pace Mondiale.
Ma l’amore era una cosa che continuava a confondere le idee e questo, per Toms, era proprio avvilente.
ECCO, non riusciva a tradurre in parole i suoi sentimenti. Espressioni come “ti amo”, “ti adoro”, “sono pazzo di te” erano consunte ed inadeguate. Non esprimevano affatto la profondità ed il fervore delle sue emozioni. Venivano sfruttate troppo frequentemente; perfino ogni trasmissione stereo ed ogni commedia di second’ordine erano piene di parole simili. La gente le usava nella normale conversazione e dichiarava di amare le polpette di maiale, di adorare i tramonti, di essere pazza del tennis.
Toms si sentiva rivoltare in ogni sua fibra, dinanzi a tale situazione. Mai, giurava, avrebbe parlato del suo amore in termini che venivano adoperati per le polpette di maiale. Ma scoprì, con grande delusione, di non aver niente di meglio da dire.
Confidò il suo problema al professore di filosofia.
«Signor Toms», disse il professore, agitando gli occhiali con un gesto vago, «ah… l’amore, come viene comunemente definito, non è un argomento che noi abbiamo ancora sviscerato a fondo. Non è ancora stata pronunciata una parola definitiva sull’argomento, ad eccezione del cosiddetto Linguaggio dell’Amore della razza tyaniana».
Questo non fu di grande aiuto per Toms. Continuò a riflettere sull’amore ed a pensare a Doris. Nelle lunghe serate trascorse insieme a lei sulla veranda, mentre l’ombra del pergolato cadeva sul suo volto, nascondendolo e rivelandolo insieme, Toms si struggeva dal desiderio di esprimere ciò che provava. Ma, dal momento che non poteva sopportare di servirsi dei consunti luoghi comuni dell’amore, tentava di esprimersi attraverso frasi stravaganti.
«Io provo per te», diceva, «ciò che una stella prova per il suo pianeta».
«Oh, è immenso!» rispondeva lei, immensamente lusingata di essere paragonata a qualcosa di cosmico.
«Non è questo che intendevo», correggeva Toms. «Il sentimento che stavo tentando di esprimere era più… bene, per esempio, quando tu cammini, mi ricordi…».
«Che cosa?».
«Una cerbiatta che avanza nella foresta», diceva Toms, accigliandosi.
«Oh è affascinante».
«Non l’ho detto perché fosse affascinante. Stavo tentando di esprimere la goffaggine proprio della gioventù e allora…».
«Ma, tesoro», diceva lei. «Io non sono goffa. Il mio insegnante di ballo…».
«Non volevo dire goffa. Ma l’essenza della goffaggine è… è…».
«Ho capito», diceva lei.
Ma Toms sapeva che non aveva capito affatto.
COSÌ, era costretto a smetterla con le stravaganze. Ben presto si accorse di non essere capace di dire a Doris qualcosa di importante, perché non era quello che intendeva.
La ragazza era turbata da quei lunghi silenzi che cadevano fra loro.
«Jeff», insisteva. «Potresti almeno dire qualcosa».
Toms scrollava le spalle.
«Anche se non è affatto quello che tu intendi».
Toms sospirava.
«Per favore!» gridava lei. «Dimmi qualcosa! Non riesco più a sopportare tutto questo!».
«Oh, diavolo…».
«Sì?» alitava lei, con il volto trasfigurato.
«Non è questo che intendevo», diceva Toms, ricadendo nel suo cupo silenzio.
Finalmente si decise a chiederle di sposarlo. Avrebbe voluto ammettere di amarla… ma rifiutava di diffondersi su questo punto. Le spiegò che il matrimonio deve essere fondato sulla verità, altrimenti è condannato fin dall’inizio. Se avesse svalutato e falsificato le proprie emozioni fin dal principio, che cosa avrebbe riservato loro il futuro?
Doris trovò ammirevoli quei sentimenti, ma rifiutò di sposarlo.
«Tu devi dire ad una ragazza che la ami», dichiarò. «Devi ripeterglielo cento volte al giorno, Jefferson, e non sarà ancora abbastanza».
«Ma io ti amo davvero!» protestò Toms. «Voglio dire che io provo un’emozione corrispondente a…».
«Oh, smettila!».
In questi frangenti, Toms pensò al Linguaggio dell’Amore e andò dal professore per informarsi meglio in proposito.
«Mi hanno detto», spiegò il professore, «che la razza indigena di Tyana II aveva uno specifico ed eccezionale linguaggio per esprimere le sensazioni amorose. Dire “ti amo” era impensabile per i tyaniani. Essi avrebbero invece usato una frase che denotasse l’esatta specie di amore provato in quel particolare momento e che non potesse essere usata in nessun’altra occasione».
TOMS annuì.
«Naturalmente», continuò il professore, «insieme a questo linguaggio si sviluppò, parallelamente, una tecnica amatoria quasi incredibile nella sua perfezione. Mi hanno detto che tutte le altri tecniche normalmente in uso sembrano, al confronto, il goffo comportamento di un orso in amore».
«È precisamente quello che mi occorre!» esclamò Toms.
«Ridicolo», disse il professore. «La tecnica può essere interessante, ma senza dubbio quella di cui dispone lei stesso attualmente è sufficiente. E il Linguaggio, per sua natura, può essere usato con una sola persona. Impararlo mi pare un inutile spreco di fatica».
«Faticare per amore», disse Toms, «è l’azione più degna ed ammirevole del mondo, poiché produce una ricca messe di sentimenti».
«Mi rifiuto di rimanere ad ascoltare simili pessimi epigrammi. Signor Toms, perché si scalda tanto per l’amore?».
«Perché è la sola cosa perfetta che esista al mondo», rispose Toms con fervore. «Se uno deve imparare uno speciale linguaggio per apprezzarlo, non può farne a meno. Mi dica, è molto lontano Tyana II?».
«Una distanza considerevole», disse il professore, con un lieve sorriso. «E un viaggio inutile, dal momento che la razza si è estinta».
«Estinta! Ma perché? Una epidemia improvvisa? Una invasione?».
«È uno dei misteri della Galassia», disse vagamente il professore.
«Allora il Linguaggio è andato perduto!».
«No. Vent’anni fa, un terrestre, di nome George Varris, si è recato su Tyana II ed ha imparato il Linguaggio dell’Amore dall’ultimo superstite della razza». Il professore scrollò le spalle. «Non ho mai considerato questo fatto abbastanza importante da indurmi a leggere le sue carte».
Toms cercò Varris sul Chi è degli Esploratori Spaziali e apprese che aveva scoperto Tyana, poi aveva esplorato alcuni pianeti di frontiera, per poi tornare a stabilirsi sul mondo deserto di Tyana, dedicando la sua vita a studiarne la cultura nei vari aspetti.
DOPO aver appreso tutto ciò, Toms rifletté a lungo, profondamente. Il viaggio a Tyana era difficile, lungo e costoso. Forse Varris poteva morire prima del suo arrivo, oppure poteva anche rifiutarsi di insegnargli il Linguaggio. Il gioco valeva la candela?
«L’amore merita questo?» si chiese Toms, ma conosceva già la risposta.
Così vendette il suo ultra-fedeltà, il suo registratore-memoria, i testi di filosofia, parecchie azioni ereditate dal nonno, e fissò un posto su un’astronave che faceva rotta per Cranthis IV, il pianeta più vicino a Tyana che avesse potuto scoprire sulle carte delle compagnie di navigazione spaziale. Dopo aver ultimato i preparativi, andò da Doris.
«Quando ritornerò», disse, «potrò dirti esattamente quanto… intendo la particolare classe e qualità di… voglio dire, Doris, che quando mi sarò impadronito della Tecnica Tyaniana, tu sarai amata come nessuna donna lo è stata mai!».
«Cosa vuoi dire?» chiese lei, con gli occhi che le brillavano.
«Bene», disse Toms, «il termine “amata” non esprime pienamente ciò che intendo. Ma intendevo proprio qualcosa di molto simile».
«Ti aspetterò, Jeff», disse lei. «Ma… ti prego, non tardare troppo».
Jefferson Toms annuì, ricacciò indietro le lacrime, abbracciò Doris senza spiccicar parola, e si precipitò allo spazioporto.
Un’ora dopo era già in viaggio.
QUATTRO mesi dopo, superate parecchie difficoltà, Toms era su Tyana, alla periferia della capitale. S’incamminò lentamente per la strada principale, larga e deserta. Ai lati, alcuni edifici imponenti si elevavano ad altezze vertiginose. Sbirciando nell’interno d’uno di essi, Toms vide alcuni macchinari molto complessi e lucenti pannelli di controllo. Servendosi del suo vocabolario tascabile inglese-tyaniano, riuscì a tradurre l’insegna su uno dei palazzi.
C’era scritto: Consulenza per i problemi del quarto stadio dell’amore.
Gli altri palazzi erano abbastanza simili; erano pieni di macchine calcolatrici, pannelli di controllo e cose del genere. Passò oltre all’Istituto di ricerche sul ritardato sviluppo affettivo, guardò abbagliato un palazzo di duecento piani che era la Casa per i ritardati emozionali, e ne adocchiò parecchi altri, egualmente interessanti. Lentamente, la vertiginosa verità si fece strada in lui.
Quella città era stata interamente dedicata alle ricerche ed agli studi sull’amore.
Non aveva tempo per riflettervi oltre. Di fronte a lui sorgeva il gigantesco edificio degli Affari generali dell’amore. Un vecchio stava uscendo dall’atrio marmoreo.
«Chi diavolo è lei?» chiese il vecchio.
«Io sono Jefferson Toms, della Terra. Sono venuto qui per imparare il Linguaggio dell’Amore, signor Varris».
Varris sollevò le sopracciglia candide. Era un vecchietto grinzoso, dalle spalle curve e dalle ginocchia tremanti. Ma i suoi occhi erano attenti e colmi d’un freddo sospetto.
«Forse lei pensa che il Linguaggio la renderà più affascinante agli occhi delle donne?» disse Varris. «Non ci pensi nemmeno, giovanotto. La conoscenza presenta i suoi vantaggi, naturalmente. Ma vi sono anche parecchi svantaggi, come poi dovettero scoprire i tyaniani».
«Quali svantaggi?» chiese Toms.
Varris sogghignò, mostrando un unico dente ingiallito.
«Lei non capirebbe, a meno che non sapesse già tutto. Occorre la conoscenza per comprendere i limiti della conoscenza».
«Ciononostante», disse Toms, «io voglio imparare il Linguaggio».
Varris lo fissò, pensieroso.
«Non è una cosa semplice, Toms. Il Linguaggio dell’Amore, e la tecnica che ne deriva, sono molto più complessi della chirurgia endocranica o della pratica delle leggi corporative. Occorre applicazione, molta applicazione, ed una vocazione fortissima».
«Mi applicherò. E sono certo di avere la vocazione».
«Molti credono di averla e non l’hanno affatto», disse Varris. «Ma non importa, non importa. È da molto tempo, ormai, che non ho più compagnia. Vedremo di fare qualcosa, Toms».
Entrarono insieme nel Palazzo degli Affari Generali, che Varris chiamava casa sua. Raggiunsero la Sala Principale di Controllo, dove il vecchio aveva sistemato una branda ed un fornello da campo. E lì, all’ombra dei giganteschi calcolatori, ebbe inizio l’istruzione di Toms.
Varris era un insegnante perfetto. All’inizio, con l’aiuto di un Differenziatore Semantico Portatile, insegnò a Toms come isolare la delicata apprensione che un uomo prova alla presenza della persona che finirà per amare, ad identificare la sottile tensione che si pone in essere non appena la potenzialità dell’amore si va concretando.
Queste sensazioni, imparò Toms, non dovevano essere espresse direttamente, poiché l’eccessiva franchezza spaventa l’amore. Debbono essere invece espresse attraverso similitudini, metafore, iperboli, mezze verità e bugie innocue. In questo modo si crea l’atmosfera adatta e si pongono le basi per l’amore. E la mente, ingannata dalle sue stesse predisposizioni, pensa alla marea crescente, al mare in tempesta, alle rocce nere ed ai campi di grano in erba.
«Bellissime immagini!» disse Toms, in tono di ammirazione.
«Sono soltanto pochi esempi», gli disse Varris. «Ora dovrà impararli tutti a memoria».
E Toms imparò a memoria una lunga lista di meraviglie della natura, imparò a quali sensazioni dovevano essere paragonate ed a quale stadio pre-amoroso esse si riferivano. Il Linguaggio era perfetto, a questo proposito. Ogni aspetto, ogni oggetto della natura corrispondente ad una fase dello stato pre-amoroso era stato catalogato, classificato ed elencato, insieme agli aggettivi qualificativi più confacenti.
Quando Toms ebbe imparato a memoria l’elenco, Varris lo erudì sulla percezione dell’amore. Toms imparò le piccole strane cose che determinavano uno stato amoroso. Alcune erano così ridicole che facevano ridere.
Il vecchio lo ammonì severamente.
«L’amore è una cosa seria, Toms. Mi pare che lei trovi spiritoso il fatto che l’amore è frequentemente condizionato dalla velocità e dalla direzione del vento».
«Mi sembra tanto sciocco!» ammise Toms.
«Vi sono cose anche più strane», disse Varris, e nominò un altro fattore determinante.
Toms rabbrividì.
«Non posso crederlo. È assurdo. Tutti sanno…».
«Se tutti sanno come agisce l’amore, perché nessuno è riuscito a ridurlo ad una formula? Quest’è un modo di pensare molto tenebroso, Toms; è cattiva volontà nell’accettare i dati di fatto. Se non è in grado di affrontare…».
«Posso affrontare qualsiasi cosa», disse Toms, «se è necessario. Continuiamo».
CON il passare delle settimane, Toms imparò le parole che esprimono il primo lampo di interesse, sfumatura per sfumatura, fino a che si arriva all’attaccamento vero e proprio. Imparò cosa fosse in realtà quell’attaccamento e quali fossero le tre parole che lo esprimevano. Questo lo introdusse alla retorica delle sensazioni, in cui il corpo ha una parte predominante.
A questo punto il Linguaggio diventava specifico anziché allusivo, e trattava delle sensazioni prodotte da certe parole e, soprattutto, da certi gesti.
Una macchinetta nera insegnò a Toms le trentotto sensazioni, diverse e separate, che potevano essere generate dal tocco di una mano, ed imparò a localizzare quell’area sensitiva, non più grande d’una monetina, che esiste proprio sotto la scapola destra.
Imparò un sistema di accarezzare completamente nuovo, che spingeva determinati impulsi ad esplodere — e perfino ad implodere — nel sistema nervoso ed a far piovere scintille colorate davanti agli occhi.
Imparò anche i vantaggi sociali d’una cospicua desensibilizzazione.
Imparò molte cose, a proposito dell’amore fisico, che aveva solo vagamente immaginato, e molte altre cose che nessuno aveva mai immaginato.
Era una conoscenza tale da intimidire. Toms si era sempre immaginato come un amatore per lo meno all’altezza della situazione. Adesso scopriva di non essere niente, ma proprio niente del tutto; e tutti i suoi tentativi meglio riusciti erano paragonabili alle effusioni di un ippopotamo innamorato.
«Che altro poteva aspettarsi?» chiese Varris. «Una buona arte amatoria, Toms, richiede molto studio, una costante applicazione, quanto qualsiasi altra abilità acquisita. Vuole andare avanti?».
«Fino in fondo!» disse Toms. «Perché, quando sarò esperto in quest’arte, io… io potrò…».
«Questo non mi riguarda», sentenziò il vecchio. «Torniamo alla nostra lezione».
Successivamente, Toms imparò i Cicli dell’Amore. L’amore, scoprì, è una forza dinamica che sorge e decade continuamente, secondo schemi ben definiti. C’erano cinquantadue schemi maggiori, e trecentosei schemi minori, quattro eccezioni generali e nove eccezioni specifiche.
Toms le imparò meglio del proprio nome.
Poi affrontò gli usi del Tocco Terziario. E non dimenticò mai il giorno in cui gli fu insegnato a che cosa assomigliava veramente un seno.
«Ma non potrò mai dire una cosa simile!» obiettò, inorridito.
«Ma è vero, no?» insisté Varris.
«No! Voglio dire… sì, credo di sì. Ma non è lusinghiero!».
Toms rifletté e scoprì che sotto l’espressione insultante si nascondeva un complimento, e in questo modo imparò un nuovo aspetto del Linguaggio dell’Amore.
Ben presto fu in grado di affrontare lo studio delle Negazioni Apparenti. Scoprì che per ogni gradazione d’amore esisteva una corrispondente gradazione di odio. Giunse a capire come bisogna considerare l’odio, come esso dia sostanza e corpo all’amore, e perfino quanta parte avessero l’indifferenza e la repulsione nella natura dell’amore.
VARRIS gli tenne un esame scritto che durò dieci ore e che Toms superò con voti altissimi. Era impaziente di finire, ma Varris si accorse che nell’occhio sinistro del suo allievo si era sviluppato un leggero tic nervoso, e che le sue mani tremavano leggermente.
«Lei ha bisogno d’una vacanza», disse il vecchio.
Toms pensava la stessa cosa.
«Credo che lei abbia ragione», disse, con impazienza male dissimulata. «Andrò a Cythera V per qualche settimana».
Varris, che conosceva di quale fama godesse Cythera V, sorrise cinicamente.
«È impaziente di mettere alla prova tutto quello che ha imparato, eh?».
«Bene, perché no? La conoscenza esiste per essere adoperata».
«Non prima però che chi la possiede ne sia veramente padrone».
«Ma io ne sono padrone! Non potremmo definire questa esperienza come una forma di studio? Come una tesi, ad esempio?».
«Non occorre nessuna tesi», disse Varris.
«Ma, dannazione!» esplose Toms. «Dovrò pure fare qualche esperimento. Dovrò pure provare in fase pratica tutto ciò che ho imparato! Specialmente l’Approccio 33-CV. In teoria suona molto bene, ma mi domando se funzioni egualmente bene in pratica. Non c’è niente di meglio che l’esperienza diretta, lei lo sa, per rafforzare…».
«E lei è venuto fin qui per diventare un super-seduttore?» chiese Varris, con evidente disgusto.
«Naturalmente no», disse Toms. «Ma un piccolo esperimento non…».
«La sua conoscenza della meccanica delle sensazioni sarebbe infruttuosa, a meno che lei non comprenda perfettamente l’amore. Ormai lei è troppo progredito per accontentarsi di un semplice brivido».
Toms rifletté e si accorse che Varris aveva ragione. Ma sporse avanti la mascella, con fare ostinato.
«Mi piacerebbe scoprirlo da solo».
«Allora può andare», disse Varris. «Ma non torni indietro. Nessuno dovrà accusarmi di aver sguinzagliato un insensibile seduttore scientifico nella Galassia».
«Oh, sta bene. Al diavolo tutto. Torniamo al lavoro».
«No. Se insiste ancora nello studio senza essersi concesso una vacanza, giovanotto, lei perderà la capacità di tradurre in pratica ciò che ha imparato. E non le sembra che sarebbe una faccenda spiacevole?».
Toms convenne che sarebbe stata veramente spiacevole.
«Io conosco il posto ideale», gli disse Varris. «Non c’è un luogo migliore per riposarsi dallo studio dell’amore».
Salirono sull’astronave del vecchio e viaggiarono per cinque giorni fino ad un piccolo asteroide senza nome. Quando atterrarono, il vecchio condusse Toms sulle sponde di un fiume vorticoso di acqua rossa, chiazzata da schiuma che pareva fatta di diamanti verdi. Gli alberi che crescevano sulla riva erano strani e striminziti, di un colore vermiglio acceso. Perfino l’erba non sembrava erba, dal momento che era azzurra ed arancione.
«Che strano!» boccheggiò Toms.
«È il luogo meno umano che io abbia mai visto in questo angolo della Galassia», spiegò Varris. «E, mi crede? ne avevo proprio bisogno».
Toms lo fissò, chiedendosi se il vecchio fosse impazzito; ma ben presto capì che cosa intendeva dire.
Per mesi interi aveva studiato le reazioni umane ed i sentimenti umani, e le soffocanti sensazioni della carne umana. Si era immerso nell’umanità, l’aveva studiata, vi si era bagnato, l’aveva mangiata e bevuta e sognata. Era un sollievo trovarsi qui, dove l’acqua era rossa e gli alberi erano striminziti e strani e vermigli, e l’erba era azzurra ed arancione, e non c’era proprio nulla che gli ricordasse la Terra.
Toms e Varris si separarono, poiché l’umanità dell’uno infastidiva l’altro. Toms trascorse giornate intere a passeggiare sulla riva del fiume, meravigliandosi di udire i fiori che gemevano quando lui si avvicinava. La notte, tre lune rugose si ripetevano un ritornello, ed il sole, al mattino, era diverso dal giallo sole della Terra.
Dopo una settimana, rinfrescati e rimessi a nuovo, Toms e Varris ritornarono a G’cel, la città tyaniana dedicata allo studio dell’amore.
Toms apprese le cinquecentosei sfumature del Vero Amore, dalla prima debole possibilità fino al sentimento supremo, tanto potente che soltanto cinque uomini ed una donna l’avevano provato, ed il più forte di loro era riuscito a sopravvivere per meno di un’ora.
Sotto la sorveglianza di una fila di piccoli calcolatori interdipendenti, studiò l’intensificazione dell’amore.
Imparò tutto sulle mille differenti sensazioni di cui è capace un corpo umano, e sui sistemi adatti per aumentarle, per intensificarle fino a renderle insopportabili, e per rendere l’insopportabile sopportabile e poi piacevole, fino al punto che l’organismo veniva a trovarsi prossimo alla morte.
Dopodiché, gli vennero insegnate alcune cose che non erano mai state tradotte in parole e che, per fortuna, non lo sarebbero state mai.
«E questo», disse Varris un bel giorno, «questo è tutto».
«Tutto?».
«Sì, Toms. Il cuore non ha più segreti per lei; non ne hanno, riguardo all’amore, né la mente né le viscere. Lei si è impadronito del Linguaggio dell’Amore. E adesso ritorni pure alla sua dama».
«Subito!» gridò Toms. «Finalmente lei saprà!».
«Mi mandi una cartolina», disse Varris. «Mi faccia sapere come è andata».
«Senz’altro», promise Toms. Strinse fervidamente la mano al suo maestro e partì per la Terra.
AL TERMINE del suo lungo viaggio, Jefferson Toms si precipitò a casa di Doris. Il sudore gli inumidiva la fronte e le mani gli tremavano. Ora poteva classificare questa sensazione come il Tremore Anticipatorio di Seconda Classe, con qualche vago sovratono masochistico. Ma questo non gli fu di grande aiuto… quello era il suo primo esperimento pratico e lui era, di conseguenza, molto nervoso. Aveva proprio imparato bene tutto?
Suonò il campanello.
Lei aprì la porta e Toms vide che era ancora più bella di quel che ricordava; gli occhi grigio-fumo erano appannati dalle lacrime, i capelli avevano il colore del fuoco d’un razzo, la sua figuretta snella aveva curve deliziose. Sentì di nuovo il nodo alla gola ed un improvviso ricordo di autunno, sera, pioggia e lume di candela.
«Sono tornato», gracidò.
«Oh, Jeff», disse lei, sottovoce. «Oh, Jeff».
Toms la fissava in silenzio, incapace di dire una parola.
«È passato tanto tempo, Jeff, e cominciavo a chiedermi se ne valeva davvero la pena. Adesso lo so».
«Lo… sai?».
«Sì, tesoro! Ti ho aspettato. Ti avrei aspettato per cent’anni, o per mille! Io ti amo, Jeff!».
E gli si gettò fra le braccia.
«Dimmelo, Jeff», mormorò. «Dimmelo!».
TOMS la guardò, indagò le proprie sensazioni ed i propri sentimenti, controllò le classificazioni relative, scelse gli elementi modificatori, verificò e tornò a verificare. E dopo le ricerche e le selezioni, e il raggiungimento dell’assoluta certezza, tenendo presente le proprie attuali condizioni mentali, senza trascurare di tener conto delle condizioni climatiche, delle fasi della luna, della velocità e della direzione del vento, delle macchie solari e di altri fenomeni che esercitavano un certo influsso sull’amore, disse:
«Mia cara, ti sono piuttosto affezionato».
«Jeff! Certo sarai capace di dire qualcosa di più! Il Linguaggio dell’Amore…».
«Il Linguaggio è maledettamente preciso», disse stupidamente Toms. «Mi dispiace, ma la frase “ti sono piuttosto affezionato” esprime esattamente quello che provo per te».
«Oh, Jeff!».
«Sì», mormorò lui.
«Oh, vai al diavolo, Jeff!».
Vi fu, naturalmente, una scenata penosa ed una separazione ancora più dolorosa. Toms si diede ai viaggi.
Lavorò un po’ di qua e un po’ di là; fece il ribaditore di chiodi presso la Saturno Casseforti, l’uomo di fatica a bordo del mercantile Helg-Vinosce, il bracciante in un kibbutz di Israel IV. Vagabondò per diversi anni nel Sistema Dalmiano Interno, vivendo soprattutto di elemosine. Poi, a Novilocessile, incontrò una simpatica ragazza bruna, le fece la corte e finì per sposarla e mettere su casa.
Gli amici sostengono che i Toms sono passabilmente felici, sebbene la loro casa sembri scomoda a parecchia gente. È un posto abbastanza simpatico, ma quel fiume rosso che rumoreggia nelle vicinanze è irritante. E chi può abituarsi agli alberi vermigli, all’erba azzurra e arancione, ai fiori che gemono, ed a tre lune grinzose che cantano un ritornello in un cielo estraneo?
A Toms tutto questo piace, e la signora Toms, se non altro, è una donna molto docile.
Toms scrisse una lettera al suo professore di filosofia sulla Terra, spiegando di aver risolto il problema del crollo della razza tyaniana. Il guaio della ricerca scolastica, scrisse, era il suo effetto inibitorio sulla capacità di agire. I tyaniani, ne era convinto, a furia di occuparsi tanto della scienza dell’amore, avevano finito per non essere più capaci di tradurlo in pratica.
Mandò anche una cartolina a George Varris, per dirgli semplicemente che si era sposato ed aveva avuto la fortuna di trovare una ragazza che gli sembrava “proprio sostanzialmente piacente”.
«Che fortuna sfacciata!» grugnì Varris, dopo aver letto la cartolina. «“Vagamente gradevole” è stato il meglio che io ho potuto incontrare!».
- ROBERT SHECKLEY - Pubblicato nel mese di agosto 1963 su Galaxy anno VI - n° 8 -
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