sabato 1 agosto 2020

Un frammento di Dada

Il peso del mondo
- di Montero Glez -

Barcellona, 23 aprile 1916.
Nella Monumental, dove confluiscono la Gran Via de les Corts Catalanes e la carrer de la Marina, su un ring improvvisato, il nero campione del mondo Jack Johnson affronterà un bianco di 100 chili che risponde al nome di Arthur Cravan. I pugili combatto per una borsa di 50.000 pesetas che si sono già spartita ancora prima di salire sul ring. La serata supera ogni aspettativa, diventando così un capitolo della storia dell'arte e delle sue avanguardie. Visto col privilegio che oggi conferisce la distanza, il dadaismo, non avrebbe di certo potuto trovare una cornice per uno scenario, che potesse essere migliore di quella che proietta su di esso l'ombra di un incontro truccato. Alla fine si è scoperto che non era certo avvenuto in un cabaret di Zurigo, ad essere state gettate le basi del nuovo linguaggio, bensì nello scenario limitato dalle dodici corde di un ring. E in questo modo così atletico, le parole d'ordine segrete di Dada si riducono ad essere nient'altro che le primitive semplicità che possono essere espresse solo attraverso la danza gestuale della boxe. Il ballo delle ombre che si allargano e si rimpiccioliscono a partire da dei movimenti ingovernabili che corrispondo ad un genio complesso, in grado di colpire ed incassare simultaneamente. È la carezza ed il delitto o, per meglio dire, la tensione ciò che si trova contenuta nei due impulsi che alla fine romperà la faccia dell'Europa. In un simile contesto, Cravan è venuto a dare una risposta organica ad un mondo il cui peso è quello delle macerie. Tanto per dirlo con la semantica dell'epoca; il combattimento tra Cravan e Johnson è un frammento di Dada, la nuova corrente artistica, un'epidemia ballerina che è venuta per purificare il terreno della Grande Guerra; il necessario degrado che affonda la sue radici nell'agitazione politica, e che si colloca alla parte opposta del futurismo italiano e della sua cadenza marziale; rimanendo sempre vicino al cubismo francese, con cui Dada si incontra nel carnevale delle maschere tribali. Sono queste le origini. A partire da questa nascita, che avviene in questa culla, il movimento Dada non può dondolare e oscillare sulle proprie gambe senza precipitare sul suo peso alla velocità della guerra. Ed è per questo motivo che Dada non si presenta come se si trattasse di un unico nucleo non trasferibile. Dada si muoveva alla velocità della guerra. Come aveva sottolineato Hugo Ball, agitatore del movimento fin dai tempi del Cabaret Voltaire di Zurigo: «Tutto il mondo aveva cominciato a comportarsi come un medium». Contemporaneamente, un personaggio con nome d'arte di Arthur Cravan stava trasformando la boxe. Perché fino ad allora, fino a quella domenica di primavera, la boxe era solo boxe, vale a dire, veniva solo praticata.
La notte precedente, al bar dell'Hotel Excelsior, entrambi i pugili si erano dati appuntamento per un drink. Non ci fu bisogno di arrivare al terzo bicchiere per concludere un accordo. Cravan sarebbe rimasto in piedi per il tempo sufficiente a non fare incazzare il pubblico. Non avrebbe potuto essere altrimenti; l'orgoglio di Jack Johnson non avrebbe potuto permettere una soluzione diversa. Del resto, a Cravan non interessava cosa dicevano di lui. Aveva sempre saputo tenersi a distanza dalle percezioni che la sua persona suscitava. Se ne fregava delle quotazioni, gli servivano i soldi! Era questa la cosa importante, dal momento che, com'è noto, è sempre stata la "borsa" il cuore dell'agitazione artistica.
Arthur Cravan era arrivato in Spagna fuggendo dalla Francia, attraversando a nuoto il fiume Bidasoa. Fino al momento della sua fuga, lo si poteva incontrare a Parigi, nel bel mezzo della notte, come un gigante che cammina lungo la sponda più scura della Senna, sempre accompagnato da donne che egli trattava con tenerezza animale, come se fossero gattini che potevano essere tenuti nella tasca del cappotto. Ed era vero, le donne seguivano Arthur Cravan ovunque egli andasse. Formavano come una truppa che agitasse il sangue di una città in guerra. I soldati aprivano la strada e Cravan sembrava che stesse sfilando in mezzo a loro, seguito dall'incessante miagolio di tutte quelle che volevano trovare ospitalità nella sua tasca.
Nessuno di quelli che erano tra i soldati che sfilavano a Parigi era in grado di affrontarlo. Per il suo aspetto, Cravan era un colosso, un gigante di ossa e muscoli che portava in ogni sua mano il peso del mondo. Perfino l'ingenuità gli andava stretta quando riempiva i suoi guantoni di riccioli femminili. Pensava che facendo così non avrebbe fatto troppo male all'avversario. Per dirla con la plateale magniloquenza, con la quale si sarebbe permesso di parlare del proprio valore, l'unico eroismo riconosciuto da Cravan era l'eroismo morale. Il coraggio di chi non ha mai paura di essere riconosciuto come un codardo. Ecco perché era fuggito dalla Francia, all'alba. Di quel periodo, a Parigi, rimane la sua deriva; notti che di solito cominciavano in sala da ballo insieme al suo amico Blaise Cendrars, entrambi vestiti delle loro camicie gialle, come se fossero degli arlecchini orfici con stivaletti gialli, macchiati di vernice e sempre con quelle cravatte gialle, sporcate di salsa piccante. Per prima cosa, l'avanguardia andava a ballare il tango degli "apache". I futuristi di Marinetti seguivano ogni sua mossa. Lo stesso Marinetti aveva mandato uno dei suoi uomini a seguire da vicino la coppia di arlecchini. Il responsabile dello spionaggio, un tale Gino Severini, telegrafava ogni notte a Milano per dare le ultime notizie che sarebbero arrivate ad essere diffuse fino in Russia, dove il poeta Majakovskij attendeva di sapere quali fosse le ultime tendenze in salsa piccante. Ma forse Marinetti non spiava solo per poter essere testimone delle altrui intimità, e neppure da quella sensazione di potere che deriva dal vedere senza essere visto. In realtà, Marinetti spiava per un oscuro impulso di gelosi. Sospettava che un giorno, non troppo lontano, Cravan avrebbe incontrato la donna che Marinetti amava. Fu la paura che portò Marinetti a spiare Cravan; la paura che quella donna arrivasse con la velocità di un bolide a dirgli che «ho deciso di lasciarti». Poiché all'inizio di tutto c'è sempre una donna e, in questo caso, si trattava di una poetessa particolare che nei suoi scritti gioca col tempo. Pubblicherà le sue poesie e si farà chiamare Mina Loy. Per il momento, sta ancora con Marinetti. Lei e Cravan non si sono ancora conosciuti. Arthur Cravan si trova a Parigi, accompagnato dal suo inseparabile Blaise Cendrars. Insieme metteranno in pratica l'irriverenza di Dada molto prima che Dada sia messa in pratica. Inoltre, nel suo curriculum c'è un valore aggiunto che richiama l'attenzione di Marinetti, poiché Cravan, oltre a dare mostra della propria vigliaccheria, vanta la sua parentela con Oscar Wilde. Negli alberi genealogici, è possibile intrecciare delle corrispondenze senza troncare i rami, e il ramo di Wilde si incontra con l'inventore delle regole della boxe. Si tratta del Marchese di Queensberry in persona, il quale si è posato su uno di quei rami. Vale la pena notare che quando questo nobiluomo ideò il guantone da boxe, non lo fece per proteggere il volto dell'avversario, ma piuttosto per proteggere le nocche dei marinai del Tamigi, in modo da resistere ancora ad un altro combattimento e così le scommesse avrebbero continuato a crescere. In questo modo, con l'inestimabile genio del Marchese di Queensberry, il pugilato cominciava ad essere dominato dalla dinamica delle scommesse e dei suoi giocatori. Per inseguire il demone della metafora, l'adrenalina dello sport è diventata spirito coagulato, per così dire, merce in azione, pronta a colpire con forza i portafogli. L'inventore di questo divertimento, il già citato Marchese di Queensberry, avrebbe generato un figlio famoso per aver acconsentito a lasciarsi amare da Oscar Wilde, autore di vizi teatrali. Col tempo, degli accadimenti storici hanno voluto che Wilde avesse un nipote pugile, dotato di un'ingenuità altrettante grande delle dimensioni della sua corporatura.
Avvelenato da una miscela di letteratura e codardia, Arthur Cravan fuggì da Parigi e dalla guerra. Si rifugiò a Barcellona, una città che si trova in una zona neutrale come Zurigo in Svizzera, però più calda, con un pizzico di sale mediterraneo e con tutta la morbosità che la neutralità implica quando di tratta di trarre profitto da un conflitto bellico. Quando in Europa veniva allestita la fiera della decomposizione, Cravan saliva su un ring allestito nella plazas de toros di Barcellona. È venuto lì disposto a prendere su di sé il peso del mondo per alleviarlo. Nel rituale che precede il gong del primo round, incrocia i guantoni con il suo avversario, Jack Johnson, concludendo l'accordo che entrambi i pugili avevano concordato al bar dell'Excelsior, un American Bar che serviva cocktail e champagne delle migliori marche, e dove una bottiglia di Pommery o di Viuda de Cliquot non superava le trenta pesetas. Un prezzo che era stato ottenuto a spese della tragedia che stava devastando l'Europa. Perché, quando un paese rimane neutrale, non lo fa mai in quanto confida nella pace, ma piuttosto per complicità con gli interessi mercantili che una guerra scatena. Dietro il bancone del bar, il barman, impeccabile nel suo smoking, è testimone silenzioso del patto.
Alla fine, Jack Johnson non riuscì più ad allungare l'incontro. Il pubblico aveva messo in campo la sua voce per contestare i pugili e Arthur Cravan, che sapeva di aver perso, muoveva il proprio corpo, facendo domande e negando risposte. In un solo gesto, incassò gli ultimi colpi del suo avversario, fino a che non cadde al tappeto. Fu al 5° round, dopo che aveva eseguito un movimento come se fosse un sonnambulo, trascinando i piedi in avanti e guardando in alto con i pugni alzati, come se stesse cercando l'interruttore della luce. Ma fu al 6° round, quello in cui Cravan venne messo KO, che polizia dovette intervenire.
Guardando la foto, nel pubblico, tra la folla, si riesce a distinguere un uomo che sorride. È monco, e in questo caso la mancanza del suo braccio destro, l'assenza di questa appendice, gli fornisce un vantaggio. Sembra divertirsi e sembra che gli piaccia quello che sta succedendo. C'è un momento in cui porta l'unica mano che ha fino al colletto della camicia, per sciogliere il nodo della cravatta. Si chiama Frédéric Sauser-Hall, sebbene si faccia chiamare Blaise Cendras. Il braccio lo ha perso da poco, al fronte. Ed era il braccio con cui scriveva. Accanto a lui, si vede un altro uomo con grossi baffi. Si chiama Irivin de Monico, ed è lo stesso uomo che la notte si mette in smoking per servire i cocktail all'Excelsior. Si comporta come se fosse un diplomatico, senza alcuna emozione nel momento in cui si tratta di portare a termine la missione di cui è incaricato. Ha seguito il combattimento rimanendo del tutto impassibile; seguendo i movimenti di Arthur Cravan ogni volta che questi abbassava la testa o curvava la schiena, fino a che non è andato al tappeto. Irvin de Monivo sa che il momento del KO è definitivo, e si mette in moto. Condividendo la medesima vibrazione organica, Blaise Cendras lo segue con la manica vuota del suo braccio. Insieme salgono sul ring ed entrano nel quadrilatero. Con urgenza. afferrano il corpo di Cravan e lo trascinano portandolo via per farlo uscire dalla plaza de toros e per metterlo dentro un auto e sparire così dalla scena a tutta velocità. C'è chi dice che, di fronte a questa scena, Gino Severini, il pittore futurista al soldo di Marinetti, stupefatto si aggiusta il monocolo. Non si tratterebbe della prima sparizione pubblica di Arthur Cravan. E nemmeno l'ultima, che sarebbe avvenuta qualche anno più tardi, nel 1918, quando sarebbe morto, annegato nelle acque del golfo del Messico, sebbene la cosa rimanga difficile da credere. Questo perché per Cravan la vita è sempre stata la cosa più vicina ad una leggenda, in cui è sempre preferibile sparire, prima di morire del tutto.

- Montero Glez - Pubblicato nel giugno del 2020  su Jot Down -

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