sabato 29 agosto 2020

Contro!

Gli operai contro il lavoro
- Intervista a Michael Seidman -

Da cosa è nata, in quel momento concreto, la motivazione che portava a voler stabilire un confronto tra la realtà lavorativa di Barcellona e quella di Parigi?

«Alla fine degli anni '70, studiavo a Parigi e mentre scrivevo la mia tesi entrai in contatto con quei giovani che definivano la rivoluzione come "non lavorare". Sono stati loro a darmi l'idea di scrivere un libro di storia comparativa su tutto quello che fecero e non fecero gli operai di Barcellona e quelli francesi, durante il governo del Fronte Popolare. Frugai negli archivi spagnoli, soprattutto a Salamanca e a Barcellona. Quando Franco vinse la guerra, tutti i documenti vennero centralizzati a Salamanca. Le fonti più interessanti, sono state i verbali dei consigli operai. Sebbene un po' disorganizzati, c'erano gli archivi delle grandi aziende di acqua, luce e gas e quelle di altre fabbriche di Barcellona, come Fabra e Coats. Nessuno li aveva studiati, poiché gli storici erano talmente concentrati sulla politica che si fermavano a quelli che erano gli opuscoli ed i periodici della loro stessa linea politica.»

La prima volta, il libro è stato pubblicato negli Stati Uniti, nel 1991, e successivamente è stato tradotto in sette lingue. A quanto pare ha avuto un grosso impatto.

«Sì, ma questo è successo solo pochi anni fa, relativamente parlando, quando l'argomento ha cominciato ad interessare il pubblico. Per esempio, è stato pubblicato in giapponese nel 1997. Anche se in francese e in turco ci sono state solo edizioni pirata. C'è stata una casa editrice tedesca che ne ha pubblicato un'ottima edizione. Inoltre, ce n'è stata anche una versione abbreviata, in greco. È stato un libro più o meno accademico che quasi nessuno aveva letto, e che ora è come se avesse fatto una sorta di ritorno. Il che mi rallegra, anche perché me ne ero quasi dimenticato di questo libro. Forse le nuove generazioni trovano interessante questa resistenza al lavoro.»

Quali sono stati le reazioni che i libro ha suscitato, fin dalla sua prima edizione?

«Quando venne pubblicato la prima volta, io stavo lavorando alla Rutgers, un'università del New Jersey, vicino a New York. Il testo suscitò un grande dibattito, ci furono molte lettere scritte da professori di storia francese, accademicamente potenti, che si lamentavano del libro. In pratica, mi licenziarono. Ma andò tutto bene, trovai un altro impiego e continui a lavorare sulla storia francese e spagnola. Ho ricevuto anche qualche buona recensione, nel contesto del mondo accademico, ma non ho suscitato molto entusiasmo. Negli ambienti anarchici e libertari, il libro è stato accolto meglio.»

Cos'era che sembrava così brutto, nell'ambito accademico?

«È difficile dirlo. Perché per me non ha senso. Forse in altri ambiti lo si potrebbe anche capire, ma in quello accademico no. Ho una mia teoria, secondo la quale quando le persone incontrano qualcosa che non riescono a capire bene, danno la colpa all'autore, e non al fatto di non essere in grado di riuscire a fare uno sforzo per capire. Tutta la storia del lavoro, che viene analizzata a partire dal 1960 si basa sulla teoria secondo cui agli operai piace lavorare. Tanto per i comunisti quanto per i socialisti, e i capitalisti... il lavoro definisce la classe operaia. E il mio punto di vista definisce la classe operaia come la classe che resiste al lavoro.»

La resistenza al lavoro, viene analizzata in quelle che sono delle società industriali (più la Francia che la Spagna), senza che però la tendenza politica influisca sul rifiuto da parte del lavoratore. Si tratta di un modo di sentire che è insito nell'essere umano?

«Quando parlo di rifiuto del lavoro, mi riferisco al lavoro salariato in fabbriche abbastanza grandi, in città industriali come Parigi o Barcellona. Non sto parlando di lavoro in tutti i periodi storici. Anche se, in un altro libro, ho trattato il tema della resistenza al lavoro, da parte dei contadini, nelle collettività agrarie; e il modo di sentire è simile.»

I lavoratori dell'epoca analizzata nel libro, non avevano alcuna reticenza o riluttanza a scioperare, o ad altri modi di resistenza al lavoro. Ora la tendenza sembra essere quella opposta, nonostante il fatto che la crisi economica ha ridotto notevolmente i diritti dei lavoratori. Cos'è che ora impedisce ai lavoratori di ribellarsi contro gli abusi?

«Credo che si continuino a prendere le stesse contromisure, ma ora sono molto più riservate, più segrete. Nessuno dirà: "Non sono venuto a lavorare, anche se avrei potuto farlo." Riguardo gli scioperi, non mi sento in grado di dare un giudizio, dal momento che non sono molto al corrente della Spagna di oggi. Però lo sciopero in sé è molto interessante, poiché esiste in tutti i paesi e riguarda tutte le classi. Il significato dello sciopero è quello di non lavorare, e si adatta assai bene alla mia definizione di una classe operaia che resiste al lavoro. Trovo molto interessante anche il fatto che la parola "sciopero" si dica in maniera diversa in ogni lingua; strike, huelga, gréve... a mio avviso, ciò indica che ogni classe operaia ha scoperto questa forma di lotta.»

A Parigi, sia il Fronte Popolare che le organizzazioni padronali e della chiesa incoraggiavano il tempo libero dei lavoratori, con propri interessi e con un obiettivo comune: lavoratori sani e felici, i quali in questo modo sarebbero stati più produttivi. In Spagna, i militanti volevano ottenere il controllo delle fabbriche, per darlo ai lavoratori che avrebbero poi lavorato per un ideale. Le persone sono quindi dei meri strumenti di produzione? Tutto, purché a contare non sia la persona, bensì il suo lavoro.

«Sì, esattamente, codesto è un buona sintesi di ciò che è il mio libro. Il Fronte Popolare aveva delle ottime intenzioni riguardo la riforme che avrebbero portato a 40 ore settimanali le 48 ore precedenti, le 2 settimane di ferie pagate... ma gli operai si sono approfittati di questa situazione per produrre meno. Alla fine, la cosa non ha funzionato. E si è potuto vedere che, ancora una volta, l'aspirazione dei lavoratori era quella di lavorare meno. In Spagna, i militanti volevano costruire una Spagna nuova, forte e libera. Spesso pensavano all'Unione Sovietica (gli anarcosindacalisti un po' meno dei comunisti, ovviamente), ma tutti credevano che la classe operaia avrebbe dovuto lavorare per la causa. Tuttavia, la stragrande maggioranza degli operai non erano militanti, cercavano solo di sopravvivere in quella che era la situazione difficile della rivoluzione, della guerra, della mancanza di cibo. Erano queste le loro priorità, e non quella di dover lavorare per un fine comune. Né, tanto meno, gli anarcosindacalisti furono in grado di creare un nuovo modello di sviluppo. Dissero agli operai: "Ora questa è la vostra fabbrica, le gestiremo democraticamente". Secondo me, ciò non è possibile. Estremizzando, sarebbe come dire ai detenuti di una prigione: "Ora la prigione è vostra, potete dirigerla". Non ha alcun senso. E tanto meno, nel periodo dell'antifascismo, si riuscì a convincere i lavoratori a lavorare di più. Né durante la rivoluzione spagnola né durante il Fronte Popolare francese.»

Se teniamo conto dell'evoluzione della nostra società verso un sistema consumistico e capitalista, si potrebbe dire che si sia riuscito a rendere il lavoro più attraente per le persone, oppure questa resistenza continua ad esserci?

«Credo di sì, c'è ancora resistenza nei confronti del lavoro salariato. Forse, con tutta la disoccupazione che c'è ora, le persone hanno una motivazione per trovare un lavoro, però quando lo trovano questa resistenza torna a riapparire. L'assenteismo, il sabotaggio, le false malattie... tutto questo continua ad esserci ancora. Non posso citare casi specifici, ma credo di sì, che sia così.»

Si arriverà mai ad un qualche sistema che riesca a far sì che i lavoratori abbiano voglia di lavorare?

« [risate] È molto teorico, e non so come si possa fare. Si possono minacciare, gli operai, per farli lavorare, ma la cosa non funzionerà».

- Intervista realizzata da Carmen López -

fonte: Comunizar

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